A qualcuno potrà non essere del tutto chiaro il motivo per cui, nel crescere della pressione internazionale affinché il massacro di Gaza abbia termine, tanto più a fronte ora della decisione di Netanyahu di procedere alla diretta occupazione militare di Gaza stessa, e mentre prende il largo la Flotilla - può non essere del tutto chiara la ragione di soffermarsi ancora sull'articolo di Vito Mancuso, date le critiche suscitate da varie direzioni.
Facile pensare che si sia trattato di un tentativo di conferire forza alla mobilitazione delle coscienze attraverso un'incursione non però del tutto meditata nelle zone particolarmente insidiose del retroterra religioso. A che scopo dunque richiamare la riflessione sulla necessità di un confronto con il lato oscuro delle tradizioni religiose, con particolare attenzione a quella ebraica, col rischio di fare riaffiorare un nodo antico, già fonte di gravi sofferenze, nei rapporti tra ebraismo e cristianesimo?
Per quello che è apparso chiaramente i musulmani, almeno quelli più impegnati nel sostegno a Gaza, ritengono fuorviante la questione. Certo, ogni tradizione si presta ad abusi sulla base di un approccio non spirituale alle Scritture, ma la distinzione ora più opportuna dal loro punto di vista è tra ebraismo, inteso come tradizione spirituale verso cui avere il massimo rispetto, e sionismo, considerando quest'ultimo un'ideologia che fin dall'inizio si è fatta portatrice di un progetto coloniale che, per edificare lo stato ebraico, prevede l'espulsione dei palestinesi dalla loro terra attraverso una vera e propria pulizia etnica. La particolare ferocia dell'attuale governo israeliano non è sotto questo aspetto che un portare alle estreme conseguenze quel progetto.
È semplicemente così, oppure Mancuso, parlando con evidente intento provocatorio di "nazi-sionismo" e "nazi-islamismo", indipendentemente dall’opportunità o meno di usare quei termini, ha voluto intendere qualcosa di ulteriore, con cui meriterebbe confrontarsi?
Proverò a portare il mio contributo, da una prospettiva di certo inusuale: di monaco buddhista che però vive il suo percorso come anche cristiano, e quindi non può non sentirsi chiamato a un confronto in profondità con le radici ebraiche. Cosa ne può derivare, che abbia un significato universalmente umano?
In quel che proverò a dire molto ci sarà di criticabile, da diverse angolazioni. Prego il lettore di soffermarsi però prima di tutto a considerare se non ci sia qualcosa che merita di essere ripreso e ripensato.
Ebraismo, sionismo e stato ebraico
È alle radici ebraiche in effetti ciò a cui Mancuso guarda. Ben sapendo della particolare e angosciosa difficoltà che l'ebraismo si trova a vivere rispetto a certe sue premesse profonde. Come potrebbe essere diversamente, essendo oggi sotto accusa per genocidio quello stato ebraico che ha tratto molto della sua legittimità morale dalla memoria della Shoah?
Ebbene, al rilievo mosso da Mancuso all'ebraismo, di essere soggetto da sempre, ben prima quindi del sionismo, a una distorsione della sua tradizione spirituale allo scopo di giustificare un'identità politica (quello che lui chiama "israelismo"), si risponde da parte ebraica che l'ebraismo è da sempre forma della coscienza nazionale di un popolo - per l'appunto il popolo ebraico. Per quanto non sia questo il nodo più profondo, sorge allora una domanda ineludibile e inquietante. Il sionismo, connesso con l'idea di uno stato ebraico, non sarà che sia davvero inseparabile dalla coscienza ebraica?
Si tratta di una questione non da poco; perché, se così fosse, la distinzione, a cui non solo i musulmani cercano di attenersi rigorosamente, tra ebraismo e sionismo non sarebbe sufficiente. Il che non comporterebbe di necessità che siano valide le accuse di antisemitismo che il governo israeliano scaglia indiscriminatamente contro chi contesta la sua politica o l'esistenza stessa dello stato ebraico; ma che la questione sia più complessa di quanto si vorrebbe, e che inevitabile sia entrare nella sfera religiosa.
Qui si aprono però problemi non da poco. La coincidenza del piano religioso con quello dell'identità nazionale, abbastanza normale in epoca antica ma in contraddizione con lo spirito moderno, fa percepire in noi un certo stridore tra la vocazione universale che siamo soliti attribuire alla religione e la natura particolare che riconosciamo invece nei caratteri che sono distintivi di un certo popolo, che richiedono di essere riconosciuti ma non necessariamente condivisi - tant'è vero che risulta inaccettabile che siano imposti ad altri.
Ne deriva insomma che questo legame tra l'ebraismo e lo stato d'Israele finisce per avere un carattere di eccezionalità, non potendo essere esplicitamente riconosciuto a nessun altro. Il che a sua volta suscita l'insidiosa questione della particolare elezione del popolo ebraico. Ma si tratta di qualcosa che, evidentemente, può venire elaborata soltanto sul piano religioso.
Il confronto con l’Ombra
Davvero è ben difficile evitare quelle zone religiose di cui con indubbia irruenza Vito Mancuso ha dischiuso le porte. Per quanto il sionismo – così come del resto gli stessi movimenti antisionisti - per gran parte della sua storia abbia per lo più evitato di farvi ricorso, presentandosi come un movimento laico, di impronta nazionalista e spesso addirittura socialista, bisogna a questo punto ammettere che gli eventi in corso facciano emergere lo sfondo religioso con forza immensa, nel bene come nel male, nei gesti più generosi come in quelli più atroci. E allora non sarà davvero compito del nostro tempo operare affinché ciascuna delle tradizioni, nessuna esclusa, si confronti con il proprio lato oscuro?
Il che non è ovviamente facile. Direbbe Jung che l'Ombra non si può semplicemente escluderla - bisogna, anche a costo di serie sofferenze, attraversarla, per poi poterla reintegrare alla parte luminosa. E vorrei pensare che quello che viviamo adesso sia parte di questo attraversamento.
Non che pensarlo diminuisca la sofferenza, ma le conferisce un senso - in unione a ciò che già vi contribuisce nel vissuto religioso stesso. Sarebbe sostenibile ad esempio quello che la popolazione di Gaza sta vivendo, e non solo come soggetto passivo, senza l'idea del martirio? E abbiamo il diritto noi di denigrarlo, o non piuttosto il dovere di operare con ogni nostra forza affinché tutto questo cessi?
E non sarà questo nostro sforzo, che a sua volta attinge alle radici spirituali di un'universale compassione umana, a porre le premesse affinché domani si possa guardare a tutto questo come a qualcosa che è stato superato?
Il convitato di pietra sulla scena di ogni dialogo
Dicevamo che, malgrado l'apparente, provocatoria simmetria del titolo, Mancuso si rivolge in particolare agli ebrei, e sfida con coraggio il rischio di ciò che gli viene rimproverato: cioè di riportare alla luce un nodo da far tremare i polsi, che è alle origini stesse del cristianesimo, in quella traumatica frattura nel mondo ebraico che è anche all’origine dell'antisemitismo. E bisogna forse dire che, malgrado tutti gli sforzi compiuti nel secondo dopoguerra, se il suo riaffiorare ancora suscita timore, quel nodo non è davvero fino in fondo sciolto.
Quell'insistere infatti su due ben diverse anime nella tradizione ebraica - una luminosa, compassionevole e capace di porre la premessa dell'universale dignità di ogni essere umano, l'altra oscura, ostinatamente rivolta a giustificare l'identità propria a costo anche dello sterminio altrui - non può non far pensare a qualcosa che Mancuso non dice e non pensa, ma che inevitabilmente incombe come il convitato di pietra al tavolo di qualsiasi dialogo.
Non è possibile che non sorga il pensiero che la parte buona dell'ebraismo sia quella che si prolunga nel cristianesimo, mentre la cattiva si identifica col suo rifiuto.
Non è possibile evitare di pensare che l'impulso ciecamente omicida che pare di vedere all'opera a Gaza non rimandi a quella scena di duemila anni fa, che condusse alla Croce. È un pensiero terribile, che si vorrebbe non avesse accesso, ma che, una volta sorto, non è possibile scacciare. Nulla davvero che riguardi l'Islam, per il quale Gesù è un grandissimo profeta ma nel Corano la Croce non esiste: è una voragine dalla profondità abissale che si apre tra ebraismo e cristianesimo. Come uscire da questa vertigine?
Come può da questo stesso abisso, profondo come profondo è il male, venire la soluzione?
La paura di rivisitare insieme la scena originaria
Osando dunque incamminarmi su un terreno quanto pochi periglioso e scusandomi fin da subito per una certa semplificazione in quello che dirò, vorrei provare a illuminare un aspetto di quella scena di duemila anni fa, che non è certo passato inosservato, ma senza forse la centralità che merita - e ciò per via di tutta un'impalcatura teologica di cui il cristianesimo si è rivestito fin quasi da subito, nella sua forma definitiva messa a punto esattamente millesettecento anni fa al concilio di Nicea, presieduto dall'imperatore Costantino.
Assodato infatti che l'azione di Gesù si svolge interamente nel contesto ebraico, che in quel contesto la Chiesa stessa sorge, e che non è introdotto in fondo nulla che sia estraneo e tanto meno ostile al patrimonio della tradizione ebraica, sembra che fin dall'inizio il problema sia se quel patrimonio debba continuare a essere amministrato da un'istituzione che si legittima facendosi custode dell'identità di un certo popolo, oppure siano maturi i tempi perché sia condiviso universalmente, a costo di una crisi in quell'istituzione.
Proviamo a prescindere dallo sguardo attraverso cui gli eventi sono stati visti dopo - dal fatto stesso che sia sorto ciò che chiamiamo cristianesimo, erede dell'ebraismo ma con la pretesa di sostituirvisi: limitiamoci a dire che certe situazioni, non del tutto prevedibili e traumatiche, hanno poi comportato che le due vie si siano nettamente separate, rimanendo tuttavia legate da quel che è peggio, cioè un'ostilità profonda. E ammettiamo pure che quell'ostilità, incancrenitasi lungo i secoli, abbia contributo infine, in un contesto tuttavia assai diverso, a porre le condizioni della Shoah.
Non è difficile capire come quell'orrore abbia indotto la cristianità a cercare di rimuovere ogni motivo che consenta all'ostilità di nuovamente insorgere. Al che nulla potrebbe evidentemente essere obiettato, se non forse che non si è saputo andare fino in fondo: non c'è stata una rivisitazione insieme di quella scena originaria, alla ricerca di un senso condiviso. Avrebbe forse messo in discussione confini avvertiti, pur attraverso il dolore, come troppo rassicuranti per poterne fare a meno?
E come non osservare d'altra parte che non c'è stata condivisione intorno al senso della Shoa?
Che tra queste due mancanze ci sia un nesso? E, qualora ci fosse, che abbia contributo a porre le condizioni per quel che accade adesso a Gaza?
Cosa è nel senso più profondo l’ebraismo?
Ho ripetutamente interrogato amici ebrei intorno al fatto che non è generalmente ammesso nel mondo ebraico che la Shoah abbia un significato esplicitamente religioso, benché molto dall'esterno induca a crederlo. Non rimanda forse alle deportazioni e alle distruzioni che hanno dolorosamente segnato la storia ebraica, e che hanno un posto importante nella Bibbia, particolarmente nei testi profetici?
Ebbene, non posso negare l'impressione che la ragione principale, seppure inconsapevole, è il timore che il suo senso si avvicini pericolosamente a quello della Croce.
È una vicinanza che molti in ambito cristiano hanno avvertito, ma generalmente da parte ebraica non viene accolta.
Sono più che comprensibili le ragioni storiche: per quanto doloroso ammetterlo, la Croce per gli ebrei è stata per lo più nei secoli un segno di oppressione. Questo ha però forse impedito di pensare qualcosa con cui un giorno ci si dovrà pur confrontare: cioè che il suo senso non è affatto estraneo alla coscienza ebraica, ma corrisponde a un suo nucleo profondo che la predicazione e la vicenda di Gesù porta ad affiorare in modo esplosivo.
Non entro nel merito di un'analisi dei testi che altri potranno sviluppare con ben maggiore competenza; mi limito a proporre due tesi che possono avere un senso dal punto di vista più generale della fenomenologia dell'esperienza spirituale.
La prima è che c'è una tensione, non certo tipica soltanto del mondo ebraico, tra il manifestarsi degli eventi, nella loro portata dirompente, e il loro senso interiore: e mi sembra che nella letteratura profetica questo sia soprattutto espresso dalla consapevolezza che le persecuzioni portate dall'esterno sono conseguenza dell'allontanamento del popolo ebraico da Dio. Quello che si dà come dura sofferenza non è dunque solo un fatto, bensì la manifestazione di un senso. E quindi quella sofferenza non va soltanto respinta da sé, ma bisogna evidentemente assumerla, perché il suo senso sia davvero elaborato. Non è del resto l'"uomo dei dolori" di Isaia il solco entro il quale, attraverso per l'appunto la Croce, ha preso forma la fede nel carattere messianico di Gesù?
Si badi bene: non sto seguendo il filo più consueto dell'apologetica cristiana, che legge tutta la Bibbia ebraica nella prospettiva di quella piena realizzazione che è in Gesù Cristo. Come buddhista non mi compete evidentemente quel ruolo: e, in quanto anche cristiano, lo sono proprio per il fatto di cercarvi un senso inedito e per questo autentico. Come dobbiamo intendere la Buona Novella, se non come scoperta che continuamente ci stupisce?
Vorrei dunque interamente collocare Gesù di Nazareth in quella prospettiva ebraica a cui non ci risulta si sia mai sottratto, invocandola a fondamento di ogni sua parola e gesto; ma al tempo stesso rivelando in essa una tensione insostenibile, fino a farla deflagrare - manifestando però forse in questo la sua più profonda verità.
Non è del resto vero che un elemento di straziante sofferenza ha sempre caratterizzato la coscienza spirituale ebraica, più di qualsiasi altro? Cosa c'è di così intimamente scabroso in essa, tale da essere da sempre scandalo per chi la osservi dall'esterno? Forse l'aver praticato una guerra di sterminio per impadronirsi già nei tempi antichi della Palestina? Ma non era questa la normale pratica degli antichi imperi, che gli ebrei hanno occasionalmente fatto propria? O non caratterizza il piano più profondo della coscienza ebraica l'essersi svelato in essa il lato oscuro della storia, nello sguardo delle vittime su cui quegli imperi si innalzavano - e poi in quello dei deboli, degli orfani e delle vedove?
Quale valore può avere pensare al Dio di Israele come Dio degli eserciti vittoriosi, se non di renderlo del tutto analogo ai numi tutelari delle potenze di ogni epoca? Cosa ha invece di veramente unico, se non di essere il Dio dei deboli, dei vinti, degli orfani e delle vedove – il Dio degli umili e dei miti e non dei superbi?
Si comprende bene che in epoca moderna gli ebrei abbiano voluto non essere considerati solo come vittime, e da questo abbia origine tra l'altro il sionismo, e le estreme conseguenze le vediamo oggi; ma, mi permetto con umiltà di chiedere: non sarà che in questo modo si tradisce il senso più profondo e autentico della fede ebraica, fino a rovesciarla mostruosamente nell'opposto?
Come si può tradurre quella grave responsabilità, connessa con ciò che è stato inteso come particolare elezione, nel volgare e blasfemo privilegio di essere esenti dagli obblighi che vincolano chiunque altro - cioè di essere potenza allo stato puro, senza limiti?
Ma, davvero, se comprendiamo ciò, se ci rendiamo davvero conto di quale scempio si stia facendo del bene più prezioso, siamo così lontani dal senso della Croce? E non si mostra allora la Shoah stessa in una luce che tutti hanno in fondo colto - ma rispetto a cui paradossalmente proprio la coscienza ebraica deve ancora prendere una decisione?
Non sarà che proprio quel che oggi è più infamante - l'accusa di genocidio verso coloro che si considerano gli eredi morali della Shoah - sia l'inattesa occasione di sciogliere un nodo assolutamente decisivo, per l'ebraismo e per l'umanità intera?
Il nodo già antico del particolare e dell’universale
La seconda tesi che voglio presentare scaturisce da una rivisitazione di quella scena, di cui si teme il riaffiorare, di duemila anni fa: quella che condusse alla Croce.
Il timore da parte ebraica è ben comprensibile, perché la nascente Chiesa di Cristo fece scaturire dal riconoscimento o meno della messianicità di Gesù un decreto irrevocabile di salvezza o dannazione - ponendo davvero le basi dell'antisemitismo dei secoli a venire. E un fantasma aleggia: che tanti sforzi benintenzionati negli anni che hanno fatto seguito alla Shoah possano venir vanificati da qualcosa che minacciosamente emerge dalla coltre di tutti questi secoli.
Proponiamoci dunque di rinunciare a ogni indebita sovrapposizione dello sguardo interpretativo che venne allora fissandosi, per cui la storia ebraica non aveva più ragione di sussistere se non confluendo in quella cristiana; rimaniamo semplicemente a quella drammatica frattura che si aprì nel mondo ebraico, tra un'istituzione religiosa e un movimento di ispirazione profetica: non si può comunque sfuggire all'impressione che ci fosse da parte di quest'ultimo una vocazione universale che entrava in collisione con limiti etnocentrici ostinatamente riaffermati.
Si tratta ovviamente di ciò che, nella narrazione che si definirà cristiana, l'annuncio di quel Regno dei cieli, dato originariamente agli ebrei, che a seguito del rifiuto di questi ultimi, viene dato a tutti gli altri popoli. Ma, anche qualora avessimo buone ragioni per non seguire quella narrazione - non foss'altro per il fatto che la Chiesa di Cristo, il nuovo Israele che sostituisce il vecchio, ne ha riprodotto in fondo su più vasta scala la stessa logica, in termini non meno esclusivi -, ciononostante l'opposizione tra particolarismo e universalità è plausibile che sia costitutiva di quella scena, ed è per questo che ci fa paura reincontrarla.
Come allora sciogliere quel nodo, uscendo così dalla paura di ritrovarci entro schemi che tanta sofferenza hanno prodotto?
Il nodo è da sciogliere adesso
Ebbene, proviamo, anziché evitarlo, ad andare incontro al simbolo, lasciando che ci investa con tutta la sua terribile potenza. E proviamo a pensare che l'uomo salito sulla Croce abbia offerto la propria vita non per essere di fondamento per alcuna identità, né vecchia né nuova - bensì in un atto di gratuità talmente estrema da travalicare qualsiasi progetto. Potrebbe esserci qualcosa di irriducibile e incommensurabile in quel gesto – al punto che quel che più autenticamente ne scaturisce non è forse un sistema teologico, bensì la notte oscura di ogni categoria, dalla quale emerge una ben diversa luce.
Se vediamo le cose in questo modo la forza che promana da quel simbolo va ben oltre, non solo all'istituzione che lo ha messo a morte, ma anche a quella che vi si è richiamato. Ed è per questo che, pur essendo comprensibile come l'idea di tornare a quella scena susciti timori profondi, ci sono valide ragioni per credere che possano dissolversi, una volta per tutte.
Davvero non c'è ragione per cui gli ebrei, per sciogliere quel nodo, debbano per forza diventare cristiani. Per quanto ci siano momenti in cui un cambio di tradizione sia la soluzione, quest'ultima non può infatti mai essere definitiva. Anche in un nuovo contesto il nodo tenderà a riavvolgersi e nuovamente si tratterà di scioglierlo. E ogni momento è sempre decisivo, e non c'è una decisione del passato che ci possa esonerare.
E così quel contrasto tra particolare e universale che c'è ragione di pensare sia connesso con la Croce si riproduce oggi, ed è oggi che siamo chiamati a sceglierlo, senza rimanere imprigionati in quello che accadde allora.
L’equivoco del sacrificio redentore
Veniamo dunque alla Shoah. Si è molto restii da parte ebraica ad accostarla alla Croce perché, considerandola alla stregua di male assoluto, diventa problematico accostarla all'idea di un sacrificio redentore. Potrebbe però anche trattarsi di un equivoco, e il problema essere nell'idea di sacrificio.
Come ha chiaramente mostrato René Girard, il sacrificio è un'istituzione, strettamente connessa con il sacro, attraverso cui una società si libera della violenza che la pervade scaricandola su qualcuno, che, facendosi vittima, libera tutti gli altri. Ebbene, l'interpretazione della Croce in questa chiave ha certo impregnato lungo i secoli la cristianità, ma ci sono più che valide ragioni per abbandonarla.
Appartiene al lato più crudele delle società antiche, non senza riedizioni in epoca moderna, la convinzione che ci sia bisogno della sofferenza di qualcuno per garantire l'unità sociale. E allora intendere la Croce in questo modo vuol dire davvero farne, implicitamente, un segno di oppressione. Come a dire: in vario modo abbiamo tutti da sentirci crocifissi; e, se qualcuno lo è occasionalmente più di altri, c'è in questo una sorta di necessità di tipo religioso. Non è impossibile pensare che lo stesso atteggiamento persecutorio verso gli ebrei, prima ancora che alimentarsi dalle basi scritturali, si sia collocato entro questo solco.
Ben diverso invece è pensare che la vittima diventa tale non entro un copione prestabilito e ritualizzato, bensì in quanto la sua rettitudine e il suo donarsi con amore agli altri non vengono corrisposti, e la violenza che nei suoi confronti si scatena non porta al rinsaldamento del sistema sociale ma alla sua messa in crisi.
È una prospettiva del tutto differente, quindi. C'è sempre, e anzi più che mai, la vittima innocente, e può anche concepire di offrire se stesso in sacrificio, ma il significato è ben diverso.
La forza misteriosa della vittima innocente
Ecco, dunque, tornando alla Shoah, è indubbio che gli ebrei si siano trovati a rivestire il ruolo di vittime innocenti, di fronte a uno scatenamento inimmaginabile delle forze del male. E nessuno, potrebbe allora concepire il loro annientamento in una visione sacrificale in senso proprio, se non i nazisti stessi - oppure se volessimo pensare a tutte quelle vittime come necessarie affinché sorgesse lo stato d'Israele. In entrambi i casi una mente non perversa non può che inorridire, ed è davvero preferibile arrestarsi di fronte alla nuda potenza del male, rifiutando di pensare a una sua possibile funzione.
Eppure la mente stessa non può non interrogarsi intorno al senso di tutto ciò. Non del male in quanto tale, che resta misterioso nella sua insensatezza, ma certo sulle cause da cui si è originato e soprattutto su cosa il suo manifestarsi può significare nella vita di chi ne è investito.
Non furono probabilmente molti a pensare di offrire se stessi in sacrificio affinché il male potesse dissolversi e la vita tornare a rifiorire, ma la loro testimonianza è quanto mai preziosa. E non dico tanto Edith Stein, che indubbiamente sentì la potenza della Croce in quegli eventi - ma qualcuno obietterebbe che già si era fatta cristiana: potrei invece dire Etty Hillesum, senz'altro vicina a una sensibilità cristiana, ma che semplicemente visse il suo avvicinarsi ad Auschwitz come un entrare più in profondità nella comprensione spirituale, ed ebbe consapevolezza dell'importanza di tutto ciò per chi fosse venuto dopo.
Si potrebbe in poche parole dire che il male non ha in sé un senso, ed è spiritualmente pericoloso cercarlo; è chi invece lo subisce che deve dare un senso alla propria vita in rapporto a ciò - e non solo per sé ma per gli altri.
Ecco, questo penso di poter dire che è la Croce: l'amaro calice da cui mai vorremmo bere, ma che, quando ci viene incontro, dobbiamo trovare in noi la ragione interiore per farlo – e non solo per il banale fatto di esservi costretti. Non si deve pretendere che Dio venga a salvarci, scrisse Etty Hillesum, siamo noi a doverlo salvare nel nostro cuore. Se si è capaci di questo, c’è una forza misteriosa nella vittima innocente che è superiore a quella del suo carnefice.
Questa, dunque, è a mio modesto avviso la Croce, e questo mi sembra il modo in cui si dovrebbe vivere la memoria della Shoah. Non per sovrapporle un significato cristiano, ma perché è ampiamente più che implicito nella coscienza ebraica.
Il dono di sé è seme universale
Ma porre in rapporto la Croce alla Shoah significa anche questo. Quando di fronte al male ci si dispone semplicemente a vivere quello a cui si è costretti senza farsi complici, senza giustificarlo, vedendolo per quel che è, mantenendo anche nell'istante della morte la propria lucidità nell'accogliere l'enormità di quel che sta accadendo - essendo quindi, quale sia il percorso che ha condotto fino a lì, in quel momento vittime innocenti -, ciò che in quel momento accade pone chi lo vive in una particolare situazione. Da un lato fa esperienza, in circostanze non volute e non cercate, di quello che ha comunque un valore di verità - di incontro col proprio destino o comunque ci si voglia esprimere, dove tutti i rivestimenti vengono a cadere. Dall'altro, poiché si è strappati da se stessi, quel che rimane non è inverosimile che sia vissuto come un dono, un seme gettato nei solchi della vita.
È probabile naturalmente che si pensi a chi è più caro, che si spera sopravviva a noi; oppure a un ideale, a cui si attribuisce valore più che alla sopravvivenza propria. E si può arrivare fino alla condizione umana e alla vita nel suo insieme, il cui valore incalcolabile tanto più chiaramente appare nel momento in cui viene sottratta; quello a cui difficilmente verrà invece da pensare è un'identità sociale a cui ci si sacrifica. Qualora avvenga, si sta sminuendo l'incommensurabile grandezza di quel momento.
Voglio dire insomma che la vittima innocente, qualora semplicemente riesca a rimanere tale, senza complicità e senza secondi fini, apre, nel groviglio spesso inestricabile degli interessi che muovono le vicende umane, uno squarcio in cui si mostra ciò che universalmente è vero e buono. Questo è quello che nel momento più straziante della sofferenza è dato vivere, e questo è ciò che viene percepito dall'esterno, e tanto potrebbe dire di quel che è l'umano.
Ecco la ragione per cui i cristiani dei primi secoli potevano dire che il sangue dei martiri è seme della Chiesa - vedendo evidentemente nella Chiesa molto più che un'istituzione. E lo stesso si può dire per qualsiasi altro modo in cui sia stato indicato ciò che più conta. Chi sinceramente dona la sua vita per una patria o una fede religiosa, vede in esse molto più di quanto la realtà dei fatti riesca per lo più mostrare, ma quel che vede è soltanto illusione o non piuttosto una verità più profonda, non presupponendo la quale ogni istituzione umana è destituita di valore?
Venendo dunque alla Croce, non è necessario pensare che Gesù abbia offerto se stesso in sacrificio per la salvezza dell'umanità dal peccato. È sufficiente presumere che abbia semplicemente saputo conservare fino in fondo la propria innocenza e la propria capacità di amare nonostante lo scatenarsi del male - e anzi sapendo di poter involontariamente contribuire lì per lì ad accrescerlo. Ed è questo che probabilmente si deve intendere quando in Isaia si dice, dell'uomo dei dolori, che "si è fatto carico dei nostri peccati".
Si tratta dunque di un'intuizione che è davvero estranea alla cultura ebraica? E, se non lo è, perché non vedere in questa luce la Shoah, tanto più che tanti - verrebbe da dire tutti - così l'hanno vista dall'esterno del mondo ebraico?
Una domanda per il mondo ebraico
C'è una domanda che oggi preme, e che si ha il diritto di rivolgere al mondo ebraico. Quando si dice "mai più", si vuole intendere "mai più per chiunque"?
Si ha il diritto di chiederlo, perché lungo tutti questi ottant'anni l’intera coscienza mondiale è stata plasmata da questo impegno - che quel che è avvenuto allora non avesse mai più a ripetersi -, e abbiamo tutti inteso che quel che hanno sofferto così atrocemente gli ebrei nessun altro, non loro soltanto, avrebbe dovuto più soffrirlo.
Non che sia stato poi davvero così: nei fatti eccidi anche su larga scala sono avvenuti, troppe sofferenze sono state vissute da tanti popoli, e un particolare disagio inevitabilmente producevano quelle dei palestinesi. Come conciliare il senso di colpa per ciò che era successo agli ebrei, e il conseguente favore con cui veniva accolta la nascita dello stato israeliano, con la percezione che un altro popolo veniva privato della sua terra? Fino a quando gli atti di resistenza di quest'ultimo si sarebbe potuto semplicemente tacciarli di terrorismo?
Una catastrofe morale senza precedenti
È così che arriviamo agli eventi odierni.
Trascuro qui di considerare quale significato essi rivestano per il mondo islamico nel suo insieme, non solo palestinese. Quello su cui vorrei invece concentrare l'attenzione è che per la prima volta c'è un ribaltamento nell'opinione pubblica internazionale, per cui Israele passa da una condizione in cui gli era concesso quello che non sarebbe stato concesso a nessun altro a una in cui è accusato nientemeno che di genocidio - il crimine codificato proprio in relazione alla Shoah.
Non ci si è ancora a sufficienza resi conto della portata di questo evento. Si tratta della rottura di un tabù nella coscienza mondiale, con conseguenze ancora imprevedibili.
È comprensibile che nel mondo ebraico sia vissuto con una profonda sofferenza. La maggioranza, tra i quali ho cari amici, preferisce ancora credere a un inganno della propaganda nemica, ormai purtroppo accolta e amplificata dal sistema mediatico, e che le immagini raccapriccianti che riempiono gli schermi di tutto il mondo non dicano di quello che tutti sono indotti a vedere, ma solo delle dolorose conseguenze di una guerra ancora in fondo difensiva.
Una minoranza crescente prende però atto che quelle immagini, e le dichiarazioni che le accompagnano, e soprattutto gli atti che spingono Israele su una strada senza più ritorno, non sono più difendibili, e mettono in pericolo le fondamenta non solo dello stato d'Israele. Cosa resta di quell'enorme simbolo della Shoah, se tutti pensano: le vittime sono ora carnefici, gli ebrei agiscono come i nazisti?
Non entro nel merito di quanto la strategia di Hamas puntasse proprio a questo, mettendo in conto costi umani altissimi; quello di cui si deve prendere atto che, ogni giorno che le truppe israeliane entrano più in profondità nella distruzione di Gaza, contemporaneamente si determina una catastrofe morale senza precedenti. Un numero di ebrei crescente, dentro e fuori Israele, insieme a tanti, che ebrei non sono ma intuitivamente sanno cosa l'ebraismo sia per la coscienza occidentale, chiamano a raccolta perché l'orrore sia fermato, e in ogni caso si sottraggono alla complicità con esso.
Mai più per nessuno
Ecco, questa è la situazione storica in cui è decisiva la domanda: quel "mai più" vale per tutti o solo per qualcuno? Perché, se vale solo per qualcuno, con la conseguenza che quest’ultimo è legittimato a infliggere ad altri ciò che non dovrebbe più subire, allora il "mai più" non ha alcun valore se non quello di un atroce inganno.
Non esito a dire che, se un pericolo c'è di antisemitismo, esso scaturisce, prima ancora che da vecchie piaghe, sia pur cronicizzate, o dal viscerale rigetto che, nonostante tutte le cautele, indubbiamente cova nel profondo dell'Islam, ben di più dalla percezione che si sia potuto fare un uso cinicamente strumentale di qualcosa di così importante come la Shoah.
Come abbiamo potuto credere che saremmo usciti dall'orrore, se proprio coloro che più l'avevano subito, e si facevano a pieno titolo custodi della sua memoria, ora lo riproducono a propria volta, e con un'arroganza senza paragoni, perché sotto gli occhi di tutti? Ma in cosa dobbiamo allora credere, che sia al di là del gioco cinico e spietato dei rapporti di forza? Cosa resta su cui poter pensare di fondare la comune convivenza?
Non so, di fronte a questo abisso, come si possa ancora pensare di negare che un genocidio sia in atto. Chi abbia ancora in sé dei dubbi - e potrebbe anche essere legittimo, perché le cose sono sempre più complesse di quanto si vorrebbe - farebbe comunque bene a metterli da parte, perché il pericolo è troppo grande e richiede una decisione drastica: "mai più" deve voler dire "mai più per nessuno".
La Shoah deve avere un valore universale, e lo ha solo se siamo in grado di vedere con lo stesso sguardo le vittime di Gaza. Se non lo facciamo, diventiamo complici di coloro che sterminavano gli ebrei, e questa volta nessuno potrà dire che non sapeva. Non importa di Hamas: se per caso fosse suo scopo ottenere la nostra distruzione morale, c'è ragione perché la ottenga? Ma, in senso più profondo, Hamas non è indipendente da noi. Non siamo ipocriti: è il risultato del male compiuto, che torna, in modo sempre più estremo, a chiedere di essere riparato...
C'è un nodo che ci avvince tutti, ed è per tutti che va sciolto.
Quello che davvero può riconciliare
Ho già più volte detto che, su quel piano spirituale profondo su cui la provocazione di Mancuso ha chiamato, la grande paura da parte ebraica è di ritrovarsi nella scena di duemila anni fa, di fronte alla Croce, e di sentire su di sé quel giudizio da cui l'antisemitismo poi discende. Inevitabilmente quella distinzione tra parte luminosa e parte oscura, per quanto non lo si sia detto né pensato, suggerisce che la prima, quella che si apre a un senso universale della dignità umana, sia ciò che diventa cristianesimo e la seconda, quella che fa della religione ideologia nazionalista, ciò che lo rifiuta.
Non è a quel punto inevitabile che dalle viscere del rimosso a un certo punto affiori un terribile pensiero: ecco, coloro che scatenano questa furia omicida verso la popolazione di Gaza, sono quelli che, per difendere a tutti i costi la loro identità nazionale, hanno messo a morte Gesù Cristo? È un pensiero che si evita in ogni modo di pensare, e purtuttavia preme nel sottosuolo della coscienza cristiana e minaccia di venire in superficie.
E allora? Cosa dovrebbero fare gli ebrei, che non possono che rivendicare una loro identità specifica, ma con questo rischiano di non riuscire ad essere se non coloro che rifiutano quel valore universale che è invece espresso dalla Croce?
Un tempo si sarebbe detto: non hanno che da diventare cristiani. Oggi non si vuole né si deve dirlo, ma questo non esime da una decisione. Bisogna decidere, appunto, se di fronte alla Shoah, questa Croce a cui sono stati appesi milioni di ebrei, si vuole che "mai più" sia per chiunque oppure no.
Se è per chiunque, l'ebraismo non necessita del cristianesimo per avere un valore universale, e il cristianesimo si riconcilia con l'ebraismo riconoscendo di aver semplicemente espresso un suo nucleo profondo. Che tale nucleo, da cui promana una luce che illumina l'umanità intera, sia sempre in tensione con il suo pervertimento, per via del groviglio delle strategie di potere, non riguarda in fondo l'ebraismo più del cristianesimo e di chiunque.
A Gaza c’è la Croce e c’è la Shoah
Ecco perché davvero è spiritualmente decisivo, per gli ebrei insieme a tutti, oggi dire: "mai più, per nessuno"; e allora anche non avere esitazioni a riconoscere: sì, a Gaza è in atto un genocidio, avviene sotto i nostri occhi e non potremo dire di non aver saputo.
Bisogna fermarlo a tutti i costi. Ci saranno da punire crimini di guerra, bisognerà cercare una riconciliazione come avvenuto in Sudafrica, ma in condizioni più difficili perché l'odio ha scavato abissi. Bisognerà soprattutto aprire il cuore alla sofferenza altrui, e riconoscere il diritto che è al di sopra di ogni altro: quello della vittima innocente. Questo, e non altro nel modo più assoluto, è quel che chiede il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Gesù.
È la lezione della Croce, che si replica nella Shoah e in ogni altra vicenda in cui l'umanità sia stata e venga devastata da quel mistero che è il male - di cui potremo sempre riconoscere cause e condizioni, ma rimarrà in fondo inesplicabile. È la lezione di Hiroshima. Oggi è la lezione di Gaza. A Gaza bisogna vedere la Croce e la Shoah.
Sia detto per inciso: è importante anche per il mondo islamico, che parrebbe, almeno a quanto dice, non riconoscere la Croce. Abbia, in questo nostro riconoscimento, qualcosa con cui confrontarsi e non solo da combattere.
