Alcune osservazioni sul dialogo interreligioso



panikkar e le sauxI rischi di un modo di pensare occidentale

 

  1. a)Un’analisi della situazione attuale

 

C’era una volta un amante sconsolato il quale, per molti, molti anni, aveva mandato appassionate lettere d’amore alla sua bella in una terra lontana. Un bel giorno, lei finalmente gli rispose informandolo che aveva sposato il postino...

Come la bella della favola, l’Occidente si è innamorato del proprio messaggero. Si è infatuato di un approccio razionale alla realtà. La ragione, però, il regno della razionalità, è solo un intermediario. La religione in Occidente le ha sacrificato troppo. È ora di rendersi conto che il nostro compito è di dimenticare la lettera e aggrapparci al Signore.

L’Occidente ha insistito anche sull’importanza della Storia. Si vedono missionari che cercano di convincere gli hindū che il cristianesimo è vero perché Gesù era un personaggio storico, mentre Krishna è solo un mito. Ma questo modo di pensare, per un hindū, non ha alcun senso. Anche Napoleone era un personaggio storico... e allora? « Krishna vive nel mio cuore!». Culture diverse hanno una diversa nozione del tempo. In sanscrito, la stessa parola può significare «oggi» o «domani».

Del pari, l’Occidente ha praticamente divinizzato la legge. Ma un Dio legislatore è assai poco significativo per un non-occidentale.

In Occidente ci sforziamo sempre di mettere in risalto ciò che è essenziale e specifico. Il vantaggio di questo approccio riduzionistico alla realtà è che ci consente di dominarla. Il successo della cultura occidentale dimostra quanto sia efficace questo metodo. Ma che senso ha che i monaci tentino di dare risalto alla «specificità del dialogo interreligioso monastico»?

Dobbiamo infine evidenziare il rischio insito nella tendenza a sottolineare sempre il dato misurabile e quantitativo. Che senso può avere riferirsi a un incontro in termini di percentuale? «Il mio pensiero è ora al 50% buddhista»!

 

 

  1. b)Che cosa comporta questo modo di pensare

 

È assolutamente necessario prendere in considerazione i rischi che comporta un modo di pensare che è stato usato per giustificare l’imperialismo ed esclude ogni possibilità di dialogo.

Credere che le nostre categorie occidentali rendano possibile capire tutto è una chiara dimostrazione d’imperialismo culturale, se non di colonialismo culturale. Questa forma di violenza si è diffusa ovunque; dobbiamo costantemente chiederci se abbia o meno anche influenza su di noi.

Quando diciamo che Brahman è il Dio degli hindū, diamo per implicito di sapere esattamente che cosa sia un dio. Tuttavia, per gli hindū, Brahman non è un creatore né esercita alcuna provvidenza. Brahman non è maschile, non è trascendente. Riusciremo mai ad ammettere che ci sono dei limiti nell’idea di Dio che ci viene dalle tradizioni semitica e greco-romana? Abbiamo il coraggio di ammettere che è limitata anche la nostra idea di religione (quando ad esempio ci chiediamo se il buddhismo lo sia) e di preghiera (quando ci chiediamo se possiamo pregare con chi non crede che Dio sia Persona)?

Dovrebbe essere chiaro che l’aspetto interreligioso e quello interculturale sono inseparabili.

Inoltre, malgrado i suoi lati positivi, il modo di pensare occidentale ha impedito lo sviluppo di alcuni aspetti del cristianesimo. Quando il «Simbolo» degli apostoli è diventato l’«insegnamento» degli apostoli, il cristianesimo si è avviato a diventare un’ideologia.

Una riflessione critica sul significato e sui rischi del nostro modo occidentale di pensare è quindi indispensabile quando partecipiamo a un dialogo interreligioso.

 

 

2. Il compito dei contemplativi nel terzo millennio

 

I monaci hanno una missione storica. Oggi il loro compito, come tutti i contemplativi, è quello di liberare la fede cristiana dai lacci della cultura occidentale. Il che non significa una nuova forma d’iconoclastia, quanto piuttosto la continuazione del processo iniziato con il Concilio di Gerusalemme. Saremo in grado di andare oltre la cultura occidentale solo se la ragione, che ha esercitato su di essa un dominio così profondo, sarà rimessa al posto che le compete.

In ogni caso, il dialogo interreligioso avviene sempre in un determinato contesto culturale. Prima di fornire indicazioni più precise sul metodo tipico di questa forma di dialogo, dobbiamo però richiamare alcuni punti basilari.

 

  1. a)Abbracciare l’intera realtà

 

Una «riforma» non basta: dobbiamo impegnarci in una «trasformazione» – ancora meglio, un cambiamento di mente e di cuore. Letteralmente, il termine metanoia indica un superamento della razionalità.

I mistici dell’Occidente sanno bene che cosa è in gioco qui. Già i teologi vittorini del XII secolo dicevano che, oltre all’oculus sensuum e all’oculus rationis, c’è l’oculus fidei. È vero che la parola «misticismo» ha assunto connotazioni negative, ma, fino a quando non avremo trovato un’espressione migliore per indicare questa realtà, non potremo farne a meno. Il misticismo non è un sostituto della verità o qualcosa di extra... un lusso per gente che abbia un sacco di tempo libero. Esso è parte integrante della realtà; senza di esso, la realtà viene deformata.

Dio non è una monade, una sostanza, ma è Trinità, relazione. Ecco perché dobbiamo andare oltre un monoteismo che si lascia esprimere mediante una semplicistica reductio ad unum. Meister Eckhart disse che Dio, è al tempo stesso, incommunicabilis e omnicommunicabilis. Se il «terzo occhio» mistico è aperto, si può vedere Dio dovunque.

Per questo motivo possiamo dire che il pluralismo, correttamente inteso, è uno degli aspetti migliori del misticismo.

Se mettere in evidenza e isolare il dato specifico significa semplicemente identificare ciò che differenzia una cosa da un’altra (ad esempio, ciò che distingue il dialogo monastico interreligioso da altri tipi di dialogo), c’è ben poco da ricavarci. L’essenza di qualcosa non consiste in ciò che lo rende diverso, quanto piuttosto nel suo aroma, in ciò che lo rende unico – e questo è ineffabile. Se proprio insistiamo a voler parlare della specificità dei monaci, allora dirò che essa consiste nel fatto che il monachesimo va oltre ogni specificità!

 

L’unità a cui aneliamo è quella della «beata semplicità» e della «nuova innocenza».

Advaita non significa «non dualità» (un rifiuto della dualità, che implicherebbe che esiste qualcos’altro «là fuori»), ma a-dualità (con la a privativa).

Di conseguenza, non è molto sensato definire «doppia appartenenza» l’atteggiamento che si riscontra in alcuni ambiti religiosi, perché così dicendosi dimostra di avere ancora un punto di partenza dualistico.

La saggezza la si ottiene trasformando tensioni distruttive in polarità feconde. Ma, se ti senti interiormente diviso nella tua appartenenza, allora decidi per una delle due parti. Non puoi restare sospeso nel mezzo.

 

 

  1. b)Accettazione della kenosis

 

Nel corso di due millenni, la tradizione cristiana dell’Occidente ha elaborato una simbiosi tra due o tre culture. Possiamo a ragione andare orgogliosi di questo risultato. Ma, in questo inizio terzo millennio, anche se gran parte dell’umanità è bombardata di messaggi promozionali dell’American way of life, sappiamo che i tre quarti della popolazione mondiale rimangono sostanzialmente estranei alla nostra cultura cristiana e postcristiana.

Perciò, se crediamo nel mistero di Cristo, è giunto il momento di diventare veramente «cattolici», ossia appartenenti al mondo intero. Perché ciò avvenga non è necessario inventare nuovi modi di esprimere il Mistero, quanto piuttosto acconsentire a un «impoverimento» e perfino a una «spogliazione». Sì, dobbiamo cominciare con lo spogliare Cristo di tutti i paramenti occidentali di cui lo abbiamo rivestito. Saremo allora in grado di porre in atto un cambiamento analogo a quello che gli apostoli osarono compiere quando esentarono i cristiani dalla circoncisione, al primo Concilio di Gerusalemme. È tempo di prepararci a un Gerusalemme II!

Ma la via della kenosis è estremamente esigente. Superare convinzioni profondamente radicate comporta una rigorosa ascesi spirituale. Si rischia di perdere tutto. Per essere più esatti, la kenosis esige che ci si impegni a una revisione radicale della propria fede.

A questo punto è importante fare una distinzione tra fede e credenza. Le credenze sono molte e spesso incompatibili. (Possiamo annotare en passant che, anche se esse sono incommensurabili – come il raggio di un cerchio e la sua circonferenza –, sono tuttavia in relazione reciproca, quindi si può stabilire tra loro un dialogo). In quanto alla fede, essa si situa al di là di queste incompatibilità perché non ha, propriamente parlando, un oggetto: è piuttosto un atto di adesione.

Per diventare veramente liberi, dobbiamo sviluppare una fedeltà che non conosce limiti.

Tuttavia, il rifiuto di assolutizzare le nostre credenze non implica affatto l’intenzione di assolutizzare i nostri dubbi! Fede e dubbio non sono incompatibili, come l’acqua e il fuoco. Fanno ambedue parte della vita.

 

 

  1. c)Elaborare un metodo per il dialogo

 

A che tipo di dialogo sono quindi chiamati i monaci? Sarebbe bene ricordare il genere di dialogo in cui molte comunità monastiche sono già state coinvolte.

Prima di tutto, si deve accettare una conversione «senza se e senza ma», se si vuole davvero accogliere l’alterità dell’altro. L’altro non è solo another (uno dei tanti, un caso all’interno di una serie) ma an other, «un altro», qualcuno che è diverso, unico.

Di questi tempi non possiamo pretendere di conoscere la nostra stessa religione, se non ne conosciamo un’altra. Come spesso si dice oggi, per essere religiosi bisogna essere interreligiosi.

Le parole possono ingannare. Le traduzioni sono spesso approssimazioni, e i termini si evolvono nel corso della storia. L’insegnamento di Confucio sulla «politica delle parole» è valido ancora oggi. Sappiamo quanto spesso le nostre incomprensioni – peggio, le nostre caricature – abbiano sfigurato le altre religioni. La prima cosa da fare è rimediare a questa situazione, ed evitare ogni genere di distorsione.

Se, da una parte, è evidente che dobbiamo studiare le altre religioni, è importante in particolare ricordare che l’essenza del dialogo è l’incontro tra persone. Per capire (under-stand) gli altri dobbiamo «stare al di sotto» (stand-under), ascoltando con umiltà. Un incontro ha luogo quando i partecipanti sono vulnerabili. Questi incontri portano all’amicizia. O più precisamente: senza contatti interpersonali amichevoli e fiduciosi, il dialogo non può nemmeno cominciare.

La caratteristica precipua del dialogo interreligioso tra monaci e monache è che esso è un «dialogo di esperienza». Ci si raduna in silenzio, si lavora insieme senza aspettarsi alcun profitto personale, ci si impegna nel dialogo intrareligioso – ogni forma di dialogo che non sia esclusivamente intellettuale è un’esperienza, un’esperienza comune. Sebbene non si dia mai un’esperienza pura e semplice, talvolta è possibile percepire una profonda comunione nel silenzio. Qual è il significato di queste esperienze? A un certo punto ci toccherà cercare di spiegarle, ma sappiamo che il nucleo di tali eventi non può essere espresso a parole. In breve, potremo dire che queste esperienze ci avvincono più strettamente gli uni agli altri. Questo tipo di dialogo richiede una specifica «metodologia», che però non è stata ancora messa a punto.

Infine, va aggiunto che per questo genere di dialogo occorre tempo, magari molti anni. Coloro che si sentono chiamati a lasciarsi più profondamente coinvolgere nell’opera del dialogo interreligioso, devono compiere una full immersion in un’altra religione. Per evitare che questa immersione si riduca a una forma di turismo spirituale – o peggio, a una forma di «inculturazione» colonialista – occorrerà almeno un anno.

Non molti sono in grado di affrontare questo impegno. Ma evitiamo di cedere alla tirannia dei numeri. La Storia dimostra che un manipolo di pionieri può fare miracoli.

 

 

3. Ricordi di padre Henri Le Saux - Swami Abhishiktānanda

 

Sono riluttante a parlare del mio amico Abhishiktānanda, perché questo porta inevitabilmente a parlare anche di me. Cercherò di usare discrezione.

Insieme, lui e io abbiamo compiuto due importanti pellegrinaggi: ad Arunācala (Tiruvannamalai) e a Gangotrī, alle sorgenti del Gange. Queste esperienze comuni ci hanno avvicinato moltissimo.

Parlavamo a lungo (a lui piaceva molto). Nel corso di quelle conversazioni sono riuscito ad aiutarlo a riconciliarsi con se stesso. Aveva bisogno di far scaricare i suoi dubbi e le sue domande su qualcun altro, anche perché tendeva a farsi un po’ troppi scrupoli. Sfruttando le mie conoscenze teologiche, l’ho aiutato a collegare la nostra esperienza alla tradizione cristiana. Così lui ha avuto la possibilità di recuperare le sue intuizioni originarie, che spesso erano in contrasto con quelle di padre Monchanin e le sue stesse idee successive.

Credo si possa dire che in quella grotta di Arunācala, nel 1952, ebbe luogo una grande trasformazione. Là egli capì che ciò che gli veniva chiesto non era semplicemente di «essere aperto all’altro» – qualcosa che rimaneva sotto il suo controllo – ma di consentire all’altro di convertirlo.

Quando alla fine ebbe due discepoli, si rese conto di che cosa significasse essere padre. Era commovente vederlo così consapevole di essere capace d’instaurare rapporti intensi e trasformanti.

Malgrado tutti i progressi da lui fatti, mi resi conto che rimase interiormente combattuto fino alla fine della sua vita, almeno fino all’infarto del luglio 1973. Fu allora che «trovò il sacro Graal», come ebbe a scrivere in una lettera. L’immagine del Graal la dice lunga sulla sua inculturazione nella religione dell’India. Per parlare della sua scoperta dell’unità interiore all’interno della tradizione indiana advaita, usò un’espressione che proveniva dalla cultura della sua infanzia in Bretagna. Non era più alienato da se stesso.

Morì convinto che la sua vita fosse stata un fallimento. In realtà, era un genio e non lo sapeva.

 

 

Da una conferenza tenuta da Panikkar nel novembre del 2004 a Montserrat. Traduzione dallo spagnolo di Milena Carrara Pavan.

 

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