
Diario di viaggio. 12 ottobre
Domenica. Da venerdì sera sono a casa e questa è l'ultima pagina di questo mio diario di viaggio.
Resterà al momento una lacuna, rispetto a quello che è avvenuto mercoledì e giovedì, ma ne scriverò e pubblicherò a parte. Ho bisogno di trovare le parole giuste, e occorre allora che il tumulto dei sentimenti si plachi.
Voglio seriamente pensare di aver intrapreso questo viaggio per amore, e così dev'essere anche nella sua conclusione, anche se l'amore include quello per la verità. E del resto l'amore non sarebbe tale se non si confrontasse con ciò che per definizione è conturbante - cioè con il male: e così è stato.
Non saprei in che momento lungo il viaggio di ritorno mi è venuto da pensare alla balena nella quale fu inghiottito Giona, ma questa immagine mi ha accompagnato con sempre più insistenza, fino a diventare la cifra di quel che avevamo vissuto.
Siamo stati nel ventre della balena, e adesso ne stavamo uscendo.
Non se ne abbiano naturalmente gli amanti degli animali: la balena è una splendida creatura, bisognosa di essere protetta; ma se ne parla qui come di un simbolo, ed è il simbolo del male. La vicenda del profeta Giona, inghiottito da "un grosso pesce" sarà poi addirittura ripresa nella letteratura cristiana come prefigurazione della morte, della discesa agli inferi e della resurrezione di Gesù.
In questo senso dunque nei miei pensieri questa immagine prendeva forma vivida, e mi guidava nel viaggio di ritorno.
Un viaggio in tre tappe.
La prima dal carcere nel deserto del Negev, da dove senza dirci niente la mattina presto ci hanno fatto uscire dalle celle e caricati e portati fino a Eilat, come venivamo pian piano comprendendo. Poi da Eilat a Istanbul, su volo turco, dove il personale di bordo ci ristorava e almeno parzialmente ci rivestiva, perché non avevamo più nulla se non gli abiti e le ciabatte del carcere. Infine, almeno per tre di noi, da Istanbul a Torino. E ogni passaggio era la tappa di una risalita verso quella vita in nome della quale avevamo accettato di metterci in pericolo.
All'aeroporto di Eilat, interamente sgombrato e unicamente per noi, camminavamo tra lo sguardo ostile delle guardie, con una piccola manifestazione che voleva evidentemente chiarire i sentimenti di coloro di cui eravamo stati involontari ospiti. Ricordo una donna urlare con scherno: "bye bye, Palestine!". Le rispondo mandandole un bacio.
Al contrario a Istanbul: chiamati "fratelli e sorelle", i saluti ufficiali del ministro degli esteri.
La Turchia ha avuto sicuramente un ruolo non da poco nel sostegno a questa impresa, e due parlamentari erano infatti a bordo della Conscience. Con loro, come peraltro con tutti, abbracci calorosi. Salendo su quell'aereo avevamo avvertito di essere davvero in salvo. Non entro nel merito politico in senso stretto, non è questa la sede: mi limito a registrare la gratitudine verso chi accoglie.
A Torino naturalmente si arriva finalmente a casa...
In quei giorni in cui eravamo sequestrati si sono interrotte le comunicazioni con il mondo esterno. Non sapevamo degli accordi di pace - qualcuno scherzosamente li ha fatti coincidere col nostro arrivo. E io non sapevo di tutti coloro che erano ad aspettarci all'aeroporto di Torino.
E a quell'abbraccio commovente siamo giunti in tre, con più o meno integralmente ancora gli abiti del carcere. Io in particolare mi tengo tuttora al braccio la fascetta bianco-azzurra del carcere, col numero 89, che avrebbe dovuto consentire il recupero delle nostre cose, mentre nei fatti non avevamo più niente.
Se dicessi che, a parte il passaporto, non avevo più di mio che le mutande, non sarebbe una battuta. Niente più effetti personali, niente più gli altri documenti, niente più abiti, compreso il mio abito monastico, niente medicine. Eravamo come naufraghi, che hanno perso tutto, potendo però vivere la perdita come una purificazione. Abbiamo fatto quel che c'era da da fare, e di questo non potevamo che essere felici. Questo ci si leggeva evidentemente negli occhi, e questo leggevamo in quelli di chi ci accoglieva.
Noi e loro avevamo viaggiato e sofferto insieme, noi con la diretta esposizione al pericolo, loro con l'affetto trepidante, la preghiera, l'impegno in ogni modo perché quel che si viveva non andasse sprecato.
Ed era festa: il trionfo degli amorosi legami di cui la vita è intessuta.
Siamo tornati: per genitori, figli, nipoti, persone amate - fratelli e sorelle fino in fondo nella grande impresa della vita.
Il giorno dopo, ieri, dopo una notte finalmente nel letto che a ciascuno è più familiare, nel mio caso c'è stata una gita su in montagna, in una casa tra i boschi con tanti giovani, e un po' tutti hanno seguito la vicenda giorno dopo giorno attraverso i social, e nei loro sguardi c'era la gratitudine per un gesto che, al di là di ogni considerazione, ha un significato molto semplice e profondo: finalmente c'è qualcosa per cui vale la pena vivere.
Io scrivevo in qualche precedente pagina che sono uomo di montagna, ma il mare mi resterà nel cuore. Sarà il luogo dove si è compiuta un'impresa buona, che ha gettato semi che non hanno, una volta tanto, richiesto tempo per germogliare.
E le fronde di questi boschi, in cui già si insinuano i colori dell'autunno, hanno ben poco da vedere con l'aridità del deserto del Negev, appena intravisto mentre venivamo via, luogo di profonde sofferenze ma anche di memorie bibliche.
In quella terra, che da lì si estende a nord verso le pianure e le colline, con città dai nomi famosi, tra cui più di ogni altra Gerusalemme - in quella terra, che per alcuni è terra d'Israele e per altri Palestina, mentre per i cristiani è Terrasanta, avrei tanto voluto fare un pellegrinaggio, e nel senso più profondo credo di averlo fatto.
Ma adesso è tempo di raccoglimento, di far emergere dal ricordo le parole giuste. E queste montagne e questi boschi le possono ispirare.
E per intanto è ancora il momento della festa, secondo la memoria più antica dell'autunno su questi monti, col rito delle castagne.
La Palestina è lontana ma sempre nel cuore; si parla di pace, non mi si chieda cosa penso perché non lo so.
Abbiamo fatto quel che c'era da fare: questo so. E questo, in un certo senso, è tutto.
