Meditazione buddhista e preghiera cristiana

meditazioneL’idea che un percorso meditativo possa venire proposto a persone di fede cristiana deve fare i conti con un problema che è stato a lungo dibattuto, a proposito della meditazione come è soprattutto intesa nella varie scuole buddhiste. L’obiezione che di consueto viene avanzata è che sarebbe incompatibile con la fede cristiana in quanto finalizzata a realizzare un vuoto, mentre qualificante per i cristiani è la relazione con un Altro, che è a sua volta fondamento della relazione sociale. Quindi la si accusa di indurre una chiusura solipsistica, in linea con l’orientamento individualistico oggi dominante.
Alla meditazione buddhista sembra dunque di dover opporre la preghiera cristiana. Nella quale ci si rivolge a un Tu, da cui la meditazione pare prescindere.
Ebbene, senza ovviamente pretendere di esaurire la questione, mi permetto di formulare tre brevi considerazioni. Mi rendo conto che ciascuna di esse meriterebbe un più ampio sviluppo, ma in ogni caso sarà importante porne le premesse. 

La prima muove da quel che ho imparato a suo tempo da colui che è stato il mio maestro: cioè a prestare particolare attenzione a tradurre nel linguaggio della cultura occidentale quel che nelle tradizioni Mahayana è Shunyata, normalmente intesa come Vacuità.
Il punto è che l’idea del vuoto in Occidente viene troppo facilmente incontro a qualcosa che da tempo vi ha messo profonde radici: ovvero il nichilismo. Occorre allora assumersi la responsabilità di proporre che Shunyata sia intesa in un senso diverso: quando si dice che le cose sono vuote di esistenza intrinseca, non bisogna assolutamente intendere che esse non esistano, bensì che non esistono in modo separato e indipendente, perché il loro essere dipende dalla relazione con altro, non ultimo il soggetto osservatore che le definisce. Più che del vuoto, si tratta insomma dell’interdipendenza.
Siamo nel cuore di ciò che comunemente è conosciuto come dottrina buddhista, che propriamente è opportuno chiamare Dharma: ovvero quello che nella tradizione Theravada, che custodisce la raccolta di testi più antica, cioè il Canone Pali, è detto Anatta: cioè mancanza di sé, di identità intrinseca. Se cerchiamo nelle cose - e nell’io stesso - una realtà sostanziale che sia il substrato del loro molteplice manifestarsi, non lo troviamo; ma proprio l’accettazione di ciò può dissolvere qualsiasi disposizione appropriativa e aprire la via della liberazione. Si tratta di quel che Panikkar, riconducendosi a un nodo centrale della filosofia occidentale, ha riformulato come rinuncia del pensiero razionale alla pretesa dell’identità con l’Essere.
Quindi nelle cose, e nell’io stesso che le pensa, non è da cercare un’esistenza indipendente dalla relazione in cui si manifestano. Il fatto che ne siamo convinti dipende da un controllo sulla realtà che la mente cerca di esercitare, segmentandola in entità separate, tra le quali c’è la mente stessa - cioè un io.
Nella meditazione di tutto ciò si diventa consapevoli, diminuisce a poco a poco il bisogno di controllo e accettiamo che le cose e l’io stesso siano interdipendenti. Si tratta quindi del contrario di ciò che dall’esterno si può pensare, sulla base di un fraintendimento che gli insegnanti stessi di meditazione talvolta inducono. Quello a cui nella concentrazione meditativa si mira non è affatto una chiusura, bensì al contrario un’apertura. Si tratta in ultimo di uscire dalla prigionia dell’io e di abbandonarsi fiduciosamente alla relazione.  
Potrei dire che si diventa più capaci di amare, e non esito personalmente ad affermare di avere a suo tempo ricevuto dal mio maestro il più efficace tra gli insegnamenti di cristianesimo. Se questo fosse il frutto di un percorso di Dharma, e mi sento di dire che può senz’altro esserlo, sarebbe una ragione più che sufficiente perché in ambito cristiano sia adottato.

 La seconda considerazione è che, laddove sia considerato centrale l’incontro con un Altro, si richiede comunque una mente preparata, che abbia saputo realizzare in sé l’apertura nella quale l’incontro può avvenire. In una simile prospettiva il percorso meditativo, pur essendo propedeutico all’esperienza spirituale in senso proprio, potrebbe dunque svolgere una funzione essenziale. È irrealistico pensare che una mente coltivata dalla meditazione sia quel terreno fertile che può accogliere il seme della Parola?
Ma ci può essere anche di più. Raimon Panikkar distingue nettamente la fede dalla credenza. La prima in quanto tale non ha oggetto, è semplice apertura; la seconda è costituita dalle forme da cui quell’apertura è di volta in volta popolata e attraverso le quali se ne prende coscienza. Si può senz’altro dire che la fede si manifesta sempre attraverso una credenza; ma altrettanto andrebbe detto che ne è la condizione, quindi in realtà ciò che è più importante. E, se in questa luce il percorso meditativo fosse una vera e propria formazione alla fede, il suo ruolo non sarebbe neppure più solo propedeutico.
Ne viene che il senso profondo della meditazione non è distinguibile da quello della preghiera. Soprattutto se si intende quest’ultima, più ancora che un rivolgersi a un Altro, un farsene accogliere, un dimorare nella sua apertura.
Ricorrendo a un’immagine, si potrebbe dire che meditazione e preghiera sono come due versanti che convergono in una vetta. Alla base possono apparire diverse, anche se non forse più di tanto: si può pregare per ottenere protezioni e meditare per un benessere psicofisico. Man mano che si sale, si potrebbe dire, le motivazioni si purificano e la comprensione della vita si fa più profonda. Sulla vetta ogni distinzione viene meno. C’è semplicemente uno stare nella Luce.

 La terza considerazione riguarda la natura stessa di quell’Altro, che in quanto tale pare doversi stabilmente concepire in una irriducibile alterità.
È però vero, e nessuno lo negherebbe, che l’alterità è tale fino a che l’incontro non avviene: dopo di che la situazione cambia. Dice l’apostolo Paolo: “Non sono più io che vivo ma Cristo che vive in me”[1]. Non è poi dunque così fuori luogo quel che si dice nell’Advaita, cioè nella visione non duale dell’India: ovvero che le concezioni dualistiche, in cui Dio e l’uomo sono separati, appartengono al piano illusorio, mentre non valgono su quello della verità profonda. Come del resto è in ogni di mistica, compresa quella cristiana.
E d’altra parte lo stesso non riferirsi a Dio del Buddha non andrebbe inteso come una banale forma di ateismo – ammesso e non concesso che l’ateismo sia banale; bensì come la più radicale fra le teologie negative: le quali ritengono che si debba affermare non cosa Dio sia, ma cosa non sia. Parafrasando il Tao Te Ching, il Dio di cui si parla non è Dio. Del divino, direbbe qualsiasi mistico, si può solo fare esperienza. 
Un’affermazione resa famosa da Rahner, ma pronunciata per la prima volta da Panikkar, è: “Il cristiano del futuro sarà un ‘mistico’ – cioè una persona che ha sperimentato ‘qualcosa’ – o non sarà”[2].  Bene, è troppo bizzarro pensare a un Dharma che contribuisca a formare un tale cristiano? Ma forse che Platone e Aristotele, a cui la storia del cristianesimo deve non poco, erano più cristiani di quanto non sia Buddha?

 

 

[1] Gal 2,20

[2] Karl Rahner, Nuovi saggi, San Paolo Edizioni, Roma 1968, p. 24          

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