Caro Ermis

Caro Ermis,

giustamente hai chiesto che nella riunione di Interdependence del 2 ottobre avvenga una chiarificazione tale da conferire a quell’incontro un carattere fondativo. Sono vari anni che tu sollevi il problema, e indubbiamente è il caso che si riesca a fare chiarezza. Questa è la ragione per cui ho deciso di preparare la riunione con una lettera aperta a te, di cui metto cioè al corrente anche gli altri, ponendo francamente sul tavolo quelli che mi sembrano i nodi da sciogliere.

Tu ed io, senza in alcun modo sminuire la parte avuta da altri, abbiamo svolto un particolare ruolo nella storia dell'associazione, testimoniato dal fatto che ne siamo rispettivamente presidente e presidente onorario, ed è doveroso che ce ne assumiamo per intero la responsabilità. Consentimi allora di provare a portare alla luce le ragioni per cui ci troviamo a questo punto.

Voglio però innanzitutto precisare che non è la prima volta che Interdependence vive una situazione di crisi. È accaduto più volte, per diverse ragioni o quanto meno in rapporto a diverse situazioni, e, se ci sia un filo che le connette, è quel che per l'appunto va capito. In ogni caso tu per primo ammetti che si è trattato di un percorso fecondo, che ha generato varie esperienze, ciascuna delle quali però, tu dici, può sussistere anche senza Interdependence, e quel che non è chiaro allora è se quest’ultima continui ad avere ragione di esistere.

Naturalmente è una questione non da poco, tenendo conto che viene proprio adesso rimesso on line il sito, con un ingente patrimonio ventennale, costituito soprattutto da migliaia di testi. Che valore ha tutto questo, oltre che testimoniare il percorso di un gruppo culturalmente significativo nel più ampio contesto delle vicende mondiali della nostra epoca?

Sul sito c’è già una storia “ufficiale” di Interdependence (https://interdependence.eu/it/archivio-testi/archivio-riflessioni/la-nostra-storia). Quel che vorrei adesso è però scavare al suo interno, per trovare i fili profondi che collegano le sue varie stagioni. Mi sembra che la decisione di stabilire se Interdependence abbia oggi un senso oppure no presupponga questo.

Se la storia di un’associazione la facciamo iniziare dal giorno in cui si è formalmente costituita, quella di Interdependence inizia il 14 febbraio del 2007, giorno di San Valentino, comunemente noto come festa degli innamorati. Generalmente però l’atto di costituzione formalizza una realtà preesistente, quindi si tratta di vedere quando il gruppo che all'associazione ha dato vita è venuto formandosi. E nel nostro caso non c'è dubbio che un certo contesto aveva preso forma cinque anni prima, nel 2002, intorno a un'iniziativa relativa al conflitto israeliano-palestinese promossa da vari personaggi del mondo accademico, sindacale, politico e soprattutto interreligioso torinese, tra i quali tu ed io.

Tu eri, come tuttora sei, esponente di primo piano dell’Arcidiocesi di Torino, con una ricchissima esperienza anche internazionale, io ero invece una persona poco conosciuta, con una formazione soprattutto filosofica, certi trascorsi politici alle spalle e un recente incontro con il Dharma. In effetti in quella situazione agivo a nome del centro torinese che rappresenta la scuola del Dalai Lama. Si tratta comunque di una vicenda che, in modo più impersonale, è narrata sul sito, e quindi non entro ulteriormente nel merito.

Se si vuole allora andare più a fondo, bisogna vedere quale sia l’ispirazione fondamentale da cui un gruppo trae origine. E può esserci un’idea facilmente riconoscibile e profondamente condivisa, in nome della quale il gruppo si raccoglie in vista di un’azione i cui effetti devono essere immediatamente riscontrabili; oppure in altri casi troviamo un’esperienza personale, che con un particolare carisma riunisce intorno a sé altri, in ogni caso riuscendo a suscitare qualcosa di profondo, sul piano ideale o ancor più spirituale.

Questa seconda condizione è particolarmente importante nel caso infatti si parli di un percorso propriamente spirituale.

Nel nostro caso le cose non sono state così chiare rispetto a entrambe le questioni.

Soffermandoci innanzitutto sulla prima, c’è sicuramente un’idea, quella dell’interdipendenza: una grande idea, tale da toccare corde profonde nel cuore di tanti, ma tanto grande da rendere difficile capire quale azione possa renderla percepibile all’interno dei rapporti sociali. Non ne abbiamo forse mai parlato in questi termini, ma credo di poter dire che abbiamo fatto molto per tradurre quell’idea in termini operativi.

C’è innanzitutto quel lavoro di cui ho detto sul conflitto israeliano-palestinese: non pretendevamo certo di essere negoziatori tra le parti in causa, ma di promuovere la collaborazione tra le comunità interessate sul nostro territorio, sulla base di una visione che veda nel conflitto una forma di relazione di cui prendere coscienza in vista di una possibile evoluzione. Si tratta dello stesso approccio che ha condotto in anni successivi al movimento Noi siamo con voi, che metteva in primo piano la solidarietà con le vittime innocenti dei conflitti in corso. Potrei dire che più in generale in tutti questi anni Interdependence si è proposta di testimoniare con particolare coerenza un’opzione, che si deve considerare nella vocazione più profonda del dialogo interreligioso in quanto tale, come simbolicamente rappresentato nel modo più forte nel famoso incontro di Assisi del 1986, a favore della pace. Un’opzione tutt'altro che scontata, dal momento che da allora le religioni, tornate in primo piano sulla scena mondiale, sono state sempre più coinvolte nei conflitti da cui quest’ultima è lacerata.

Posso dire che abbiamo fatto questo instancabilmente, affiancandoci anche a organizzazioni di ampio respiro mondiale come Religions for Peace, proponendo soprattutto di distinguere tra l'ispirazione spirituale profonda delle religioni e l'uso ideologico che ne viene fatto, con scopi evidentemente politici. Lo testimonia soprattutto il convegno da noi promosso a Torino sul tema Islam contro islamismo. E sorvolo sui tanti modi in cui nel corso degli anni questa vocazione l’abbiamo espressa, sui vari fronti della vita sociale e culturale, dalla filosofia alla politica all’economia.

In ogni ambito l’idea dell’interdipendenza richiamava ciascuno a uscire da certi confini angusti, dove il conflitto è inevitabile, e ad aprirsi a quello che è comune.

Un fronte su cui ci siamo forse particolarmente impegnati è quello educativo. Interdipendenza qui voleva dire integrazione nel vissuto dei ragazzi di oggi di esperienze da cui sono sempre più deprivati. Questo è il proposito che ci ha guidati, soprattutto insieme a Tina e al gruppo di Progetto Leonardo, a condurre gruppi di ragazzi a confrontarsi con l'immigrazione, la multiculturalità, la sofferenza e l’emarginazione a Torino.

Abbiamo creato un modello che spero possa continuare a svilupparsi. Segnala una via di cui potrebbe esserci sempre più bisogno. Ed esprime una vocazione, quella educativa, che personalmente ho sempre pensato dovesse essere centrale in Interdependence.

Non si può però negare che tutto questo a un certo punto è entrato in crisi. La ragione non è semplice da dire, ma è probabile che a un certo punto le lacerazioni che affliggono il mondo intero abbiano cominciato a penetrare in noi. E penso sia accaduto più volte, e forse le varie crisi di Interdependence corrispondono a modi, di volta in volta diversi, in cui ciò avveniva.

Non entro nel dettaglio. So che a un certo punto, dopo che una certa vicenda aveva particolarmente scavato al nostro interno, mentre ci accingevamo alla ricostruzione ritrovando l’ispirazione originaria, ci sono piombati addosso prima il Covid e poi la guerra - o meglio quella guerra in cui ci troviamo da molto tempo, e Interdependence è già nata in fondo al suo interno.  Quella “guerra mondiale a pezzi” di cui ha parlato Papa Francesco, improvvisamente ha iniziato a riunire i suoi vari frammenti, e noi di fronte a questo ci siamo trovati irrimediabilmente divisi.

Caro Ermis, indipendentemente dai giudizi e dalle posizioni assunte non si può negare che la vicenda del Covid si è associata all’apertura nella nostra società di una frattura sconosciuta da tempo, paragonabile ai grandi scontri ideologici del Novecento, ma secondo linee diverse dal passato; frattura che si riproduceva quindi al nostro interno, come in ogni ambito, compresi quelli religiosi.

Che valore poteva avere, rispetto a quella frattura, l’idea dell’interdipendenza? Non siamo tutt’oggi in grado di dirlo, e non saremo forse ancora a lungo in grado di elaborare una visione condivisa, ma un primo passo è ammettere che la frattura sia avvenuta e che siamo stati almeno in grado di salvaguardare i rapporti personali. A un grado minimo, ma fondamentale, interdipendenza ha voluto dire questo.

Ricordo ancora quando, essendosi costituita la Compagnia di Antigone, io ero pronto a rassegnare le dimissioni da presidente di Interdependence, e tu mi hai chiesto di non farlo, dicendo che avremmo dovuto dimostrare di saper rimanere insieme pur avendo visioni diverse sulla situazione.

Le cose non sono andate tanto meglio con la guerra in Ucraina, anche se forse uno spiraglio ha iniziato ad aprirsi.

Evidentemente quello che avevamo criticato come uso ideologico della religione assumeva proporzioni tali, e un tale ruolo nelle relazioni internazionali, che si doveva entrare più profondamente nel suo senso. E nuovamente ci trovavamo divisi.

Quel che era indiscutibile era che alle società occidentali secolarizzate veniva rivolto un pesante atto d’accusa. Venivano accusate di aver abbandonato i valori tradizionali e il senso spirituale della vita per scivolare lungo la china del nichilismo. Ed è indubitabile che la guerra in corso, oltre che avere motivazioni riferibili all’intento di ridisegnare gli equilibri geopolitici mondiali, ne ha altre che sono ascrivibili all'ambito valoriale e spirituale. Si tratta, sotto certi aspetti, una guerra religiosa. Ed è però tenendo conto dell’intero quadro che le nostre visioni, così come quelle della società circostante, così come nella coscienza del mondo intero, differiscono.

Penso che ci capiamo facilmente se dico che da un lato ci si preoccupa perché a fare guerra all’Occidente sono mondi che non riconoscono certi valori di libertà di cui l'Occidente, con tutti i suoi difetti, si è fatto portatore; mentre dall’altro si mette in luce che da quella parte c’è tendenzialmente la stragrande maggioranza dell’umanità, che sta cercando di emanciparsi da una sudditanza che, paradossalmente in nome della libertà, l’Occidente esercita su di essa.

Sono due prospettive ben diverse e difficilmente conciliabili. La prima si presenta come più aderente a tutto il modo in cui abbiamo nel passato inteso l’interdipendenza. La seconda però fa emergere la contraddizione, portando allo scoperto un sospetto grave e a questo punto ineludibile.

L’idea dell’interdipendenza, che evidentemente è un’idea di inclusione e conciliazione dei conflitti, non sarà una visione dei rapporti che è espressione dei poteri dominanti? Non sarà quindi a sua volta ideologia, nel senso più proprio del termine, al cui confronto c’è un valore di verità ben maggiore nel conflitto? Non è del resto questa idea particolarmente collegata a un momento storico, quello che ha fatto seguito alla fine della Guerra Fredda, in cui un certo assetto delle relazioni internazionali sembrava ormai incontrastabile, e non potrebbe averne espresso una volontà di integrazione al suo interno di ogni altro aspetto della vita?

Non è la stessa ecologia sospetta di essere la visione in nome della quale si vuole operare una gigantesca conversione industriale? E non è in ogni caso avvenuta in questo periodo, dietro il paravento di nobili ideali di inclusione, accoglienza, rispetto del diverso, democrazia e diritti umani, la più rapida concentrazione delle ricchezze che la storia ricordi?

Caro Ermis, ammetterai che si tratta di domande terribili. Non le abbiamo forse mai formulate espressamente nei nostri incontri, ma tacitamente incombevano sullo sfondo, e sono tali da spiegare la crisi in cui ci siamo trovati - quella che viviamo adesso, ma anche quelle del passato; come se un nodo ci avesse sempre accompagnato e chiedesse da sempre di esser sciolto. E forse a questo siamo ora chiamati. O lo sciogliamo, o questa nostra strada non può effettivamente avere futuro.

Potremmo semplicemente dividerci a seconda del versante che ci è più affine nella spaccatura in corso nelle nostre società e a livello planetario, attendendo di vedere quale tra le due parti prevarrà. Oppure ogni nostra energia deve concentrarsi nello scioglimento di quel nodo. Bisogna che l’idea dell’interdipendenza conservi un valore che è eccedente rispetto a tutti gli usi strumentali a cui può trovarsi esposta. E sono sicuro che sia tu sia io stiamo cercando in ogni modo di fare questo.

Ho però la netta impressione che lo scioglimento di quel nodo non può avvenire sul piano politico.

Su quest’ultimo mi sembra onesto riconoscere che facciamo fatica ad essere in sintonia. Lo siamo sicuramente su Gaza, ma avremmo difficoltà a esserlo sull’Ucraina e in generale sul senso degli eventi in corso, fino probabilmente alle elezioni americane. Dobbiamo, su questo piano, lasciare che le cose vadano avanti, pur con le apprensioni che è legittimo avere, e cercare invece il terreno comune su un piano più profondo. E, poiché il piano più profondo non può che essere spirituale, dobbiamo qui affrontare un altro nodo da cui il primo dipende.

Provo a spiegarmi.

Possiamo avere pareri diversi sulla natura di quello che oggi si contrappone all'Occidente, ma quel che è indubbio è che la guerra faccia appello a ragioni spirituali. E, quand'anche non si sia concordi su altro, si potrebbe convenire intorno al fatto che, da parte dell’Occidente, posto sotto accusa, una risposta sia dovuta su quel piano.

È davvero l’Occidente solo il luogo dell'oblio delle radici spirituali e della deriva verso il nichilismo? Oppure c’è un senso spirituale che la Modernità custodisce in sé, senza magari esserne del tutto consapevole, e che fornisce la base di un confronto con le altre civiltà mondiali?

Si capisce che la domanda è fondamentale. Nel momento infatti in cui queste ultime contestano un certo sistema di valori che l'Occidente ha imposto al mondo, a seguito del colonialismo e della globalizzazione, negandone l’universalità e mettendo in rilievo l’aspetto per l’appunto dell’imposizione, si può pensare, senza cadere nell'eurocentrismo, che discendano da un percorso spirituale che ha davvero portata universale?

È una domanda fondamentale, a cui però è palesemente insufficiente rispondere con una presa di posizione. La risposta deve scaturire da una ricerca condotta nel profondo della coscienza occidentale, in cui si portino alla luce le sue premesse originarie. Una ricerca che, sotto un certo aspetto, chiama in causa quel fondamentale costrutto culturale dell'Occidente che è la filosofia; sotto un altro attinge direttamente al piano spirituale.

Nel primo caso c'è bisogno di argomenti, che non si limitino a giustificare i fatti, ma indaghino sinceramente sul loro senso. Nel secondo c'è bisogno di testimonianze. Per poter dire che c'è un senso spirituale nella moderna civiltà occidentale, occorre che un gruppo, non importa quanto grande, si assuma la responsabilità di testimoniarlo, e, per poterlo fare, innanzitutto deve viverlo.

Veniamo allora, caro Ermis, al punto decisivo. Ricorderai bene che nel 2013, non a caso poco dopo l'elezione di Papa Francesco, ebbi l'intuizione che Interdependence fosse, almeno embrionalmente, un cammino spirituale di tipo nuovo, che sorge dal terreno del contesto interreligioso, e tu, evidentemente in sintonia, proponesti che si pensasse a una regola di vita. Poi non se ne fece niente, perché sono cose che non si decidono a tavolino e devono radicarsi invece in un'effettiva esperienza personale.

E qui torniamo allora a quel che dicevo all’inizio, e che non è stato chiaro, e di cui però mi sono già assunto l’intera responsabilità. L’ho fatto con una precedente lettera a te, nell'estate del 2020. Dicevo allora di non aver a lungo osato credere che, sul piano più profondo, alle origini di Interdependence ci fosse la mia personale esperienza di quando, incontrando il Dharma, avevo colto una profonda sintonia con quel che è al centro del Cristianesimo, e in particolare la comprensione dell’interdipendenza era la via d'accesso più consona al nostro tempo per giungere a quel nucleo profondo della via cristiana che è l'amore.

Eppure questo è testimoniato da un breve saggio uscito in due puntate nella primavera del 2001 su Tempi di fraternità e ora riportato per intero sul sito del DIM (Dialogo Interreligioso Monastico) (http://www.dimitalia.com/cristo_e_buddha_82.html).

Non puoi certo averlo dimenticato perché è sulla base di quel testo che avvenne la nostra conoscenza. Io venivo a casa tua accompagnato da Padre Costa e tu l’avevi appena letto. E probabilmente è corretto dire che tutta la storia di Interdependence sia scaturita da quell'incontro. Tu evidentemente avevi inteso che in quello che con molto impaccio presentavo vi fosse qualcosa di importante, e hai deciso di proteggerlo.

Tutto è venuto di conseguenza. Tutto l’impegno culturale e politico che assumeva come riferimento l’idea dell’interdipendenza muoveva in realtà da un’esperienza spirituale personale, di cui però esitavo ad assumermi la responsabilità perché probabilmente doveva ancora maturare interamente in me. Come è tipico di chi ha spiccate attitudini intellettuali, ero evidentemente ben più rapido a cogliere tutte le implicazioni sul piano culturale di quel che mi si era presentato piuttosto che far sì che la mia vita ne fosse interamente pervasa.

Sarebbero dovuti quindi trascorrere gli anni prima che ciò avvenisse, ed è dovuta intervenire una svolta radicale nella mia esistenza, quando sono diventato monaco. Allora è accaduto che quella comprensione originaria mi si sia ripresentata in forma più profonda, e soprattutto ho osato dare vita a gruppi di meditazione e di ricerca spirituale.

In un primo tempo non pensavo che tali gruppi fossero in collegamento con Interdependence: la sala in cui mi ero ritirato a vivere, a Lanzo, che è sempre stata ed è tuttora sede ufficiale di Interdependence, era stata infatti ufficialmente inaugurata come tempio con il nome di Intercultural Sangha. Ma quella stessa sovrapposizione segnalava qualcosa che andava capito. Io infatti, pur essendo entrato nel cuore di una delle più antiche tradizioni buddhiste, l’avevo fatto con la viva consapevolezza della necessità di un rinnovamento profondo. Mi era chiaro che quel mio passo apriva contemporaneamente la via a un nuovo cammino, di cui Raimon Panikkar aveva parlato quarant'anni prima indicando la figura di un “nuovo monaco” che rinnova radicalmente la tradizione.

Nel capire ciò mi fu chiaro che non avrei dovuto aprire un nuovo centro buddhista. Di fatto ricondussi i gruppi di meditazione nell'alveo di Interdependence, ma soprattutto compresi che Interdependence era davvero il contesto nel quale il nuovo cammino aveva preso forma.

Caro Ermis, ci sono evidentemente delle intuizioni attraverso cui una via si mostra prima che sia effettivamente tracciata, e così è stato, tanto per me quanto per te. Poi le cose avvengono, secondo modi e tempi spesso così diversi da rendere quel che prende forma non facilmente riconoscibile. E così è stato.

Abbiamo immaginato che un nuovo cammino spirituale nascesse da quegli incontri, spesso molto ricchi, che abbiamo condotto per anni, poi invece non è stato così, e il cammino è nato in modi del tutto diversi. E non solo per te ora non è facile riconoscere la continuità, ma addirittura non lo è stato per me. Eppure, a ben guardare, è come se quel cammino avesse avuto bisogno di una lunga generazione, nel grembo di un contesto in cui prendevano forma tutte le consapevolezze sociali, culturali, politiche ed educative di cui avrebbe avuto bisogno per nutrirsi quando finalmente il tempo fosse giunto.

Non posso più di tanto entrare nel merito di ciò che richiederà un confronto non da poco, ma che chi ha fatto l’esperienza dei percorsi meditativi conosce bene e di cui del resto sono in procinto di rendere ampiamente ragione, come sai, in un libro di imminente pubblicazione.

Quel che però adesso vorrei dire è che quella risposta spirituale che l’Occidente è chiamato a dare all’accusa di cui oggi è investita deve avere un fondamento in un cammino spirituale in cui le radici a cui l’Occidente attinge sono intimamente accolte e il loro senso è riproposto in forme nuove.

Tanto per capirci, se la riaffermazione di quelle radici nelle forme tramandate in opposizione critica alla situazione presente mette di fronte all'alternativa se accettare interamente quella visione oppure rifiutarla con tutto ciò che implica - ovvero le motivazioni sociali e geopolitiche fino alle radici stesse -, deve essere possibile mostrare che da esse può scaturire un diverso percorso, non meno spirituale ma anzi in grado di arrivare laddove il richiamo dogmatico non arriva. L’interdipendenza può allora essere più che mai connessa con l’amore, fino al paradossale amore evangelico per il nemico. E in questo modo cade il sospetto di ideologia. È un’interdipendenza pensata non dal punto di vista dei potenti, ma da quello, verrebbe da dire, dei poveri in spirito, dei miti e dei costruttori di pace.

Caro Ermis, non ho dubbi che tu sia in sintonia con questo, perché la sensibilità che mi fa usare queste parole si è sviluppata in questi anni in stretto contatto con te e apprendendo da te. E non credo che tu abbia difficoltà a riconoscere la profonda consonanza di questo cammino spirituale con Interdependence.

Questo naturalmente non vuol dire che l’associazione si risolva interamente in esso, ma che non può a mio avviso non riconoscervi quell'ispirazione che da sempre la guida, il centro non sempre visibile senza il quale le cose si confondono, e anche una grande idea può perdere il suo valore di verità.

Ti prego di pensarci bene, e prego tutti di farlo.

Questo non vuol dire che tutti i membri di Interdependence siano tenuti a partecipare direttamente a questo cammino, né tanto meno che ogni attività vi debba rientrare. L'associazione deve tornare ad avere un ruolo pubblico, e la ripresa di visibilità del sito può essere un efficace mezzo, mentre a rigore il cammino spirituale per definizione non è pubblico e può realizzarsi solo nella dimensione intra e interpersonale. Tra i due piani però deve esserci interazione feconda.

Quando in particolare si dice in pubblico che la moderna società occidentale non è solo un deserto spirituale, ma ha un senso spirituale proprio, che ci si impegna a far emergere, questo ha una forza ben maggiore se ci si può riferire, senza escludere possibilità altre, a un'esperienza effettiva in cui questo avviene, secondo modalità che possono essere proposte a chiunque.

E quando si parla di amore per il nemico, bisogna che ci sia un cammino in cui l’amore è davvero messo al centro, diventa pratica quotidiana in cui il riferimento alla tradizione nelle sue molteplici forme è attualizzato secondo le forme della coscienza odierna.

Ecco, caro Ermis, questo è quel che mi è venuto da pensare, e da dire a te e a tutti quanti stanno condividendo questo percorso. Questo è il mio contributo all'incontro che avremo il 2 ottobre, in coincidenza della giornata internazionale dedicata a Gandhi. Che il riferimento a lui possa favorire il nostro confronto e darci chiarezza intorno al nostro compito.

Un caro saluto

Claudio (Dharmapala)

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