Il messaggio di padre Le Saux è il suo stesso cammino.
Svāmijī, com’era chiamato in India, è una voce che grida nel deserto incitando ciascuno a prendere alla lettera le parole di Sant’Agostino: «Non andare al di fuori, rientra in te stesso. Nell’uomo interiore dimora la verità», che fanno eco a quelle della Upanishad: «Cerca di scoprire chi risiede nella caverna del cuore».
(…)
È importante sottolineare che è attraverso i padri greci, e in particolare Gregorio di Nissa, che Henri Le Saux scopre l’approccio apofatico al mistero divino:
O Tu, l’al-di-là di tutto,
che nome bisogna darti?
Nessun nome ti esprime,
Tu hai tutti i nomi, e come ti chiamerò io?
Tu il solo che non si può nominare.
Quest’intuizione dell’ineffabilità di Dio accompagnerà tutta la sua vita. Dio, l’Assoluto, è al di là di ogni categoria, di ogni forma. La vocazione di Le Saux per l’India risale al periodo in cui quest’intuizione scaturisce nel suo spirito, all’epoca in cui era bibliotecario nell’abbazia di Kergonan; si cristallizzerà in modo folgorante quando, giunto in India, incontrerà Ramana Maharshi, un grande saggio hindū, e scoprirà la via eremitica negli anfratti del monte Arunācala.
Nel 1952 si stabilisce a sua volta per diversi mesi in una delle grotte della montagna. Da là egli annota nel suo Diario:
Ciò che l’India apporta al cristianesimo, in fondo, è essenzialmente una profonda purificazione dell’idea di Dio, del nostro modo di pensare e delle forme con le quali identifichiamo il cristianesimo.
L’anno successivo, durante un altro soggiorno nella grotta fra gli eremiti hindū, egli scrive (marzo 1953:
Ieri sera finalmente ho compreso la posizione buddhista dell’anātman (non c’è un io di per sé). Non sono più io che raggiungo il reale in fondo a me. I miei sensi, così come il mio pensiero, sono impotenti. È solo nell’(eclissi) della coscienza che io ho di me che compare la coscienza pura del Sé. Non sono io che colgo il fondo, è il fondo stesso che si rivela nel dissolversi di questo io (periferico). Ciò che è essenziale per l’uomo è di rientrare nel fondo della sua anima, di ritrovare il suo fondo.
(…)
Nell’āshram di Shāntivanam, il 2 settembre 1955, egli scrive questa frase così penetrante:
Lo Spirito Santo è questa forza d’integrazione che ci porta dal Cristo storico – Gesù più la Chiesa – al Cristo ontologico presente alla fonte della coscienza personale, ultimo stadio prima di inabissarci nel Padre.
L’anno 1956 segna una svolta decisiva nel suo percorso; il 5 gennaio esclama:
Alla fine il mistero è accessibile solamente a colui che si lascia consumare al fuoco – fuoco della canfora -, che non lascia alcun residuo, come nell’arati (l’offerta rituale della fiamma).
Di fatto, Henri Le Saux è interiormente dilaniato tra l’esperienza hindū della non-dualità, l’identificazione con la profondità divina della sua anima, e l’esperienza cristiana del faccia a faccia con il Signore. Come lui stesso dice: «Un’agonia interiore che allo stesso tempo dilania e ricolma».
L’uomo ha costantemente oscillato e sempre oscillerà fra questi due poli della percezione dell’Assoluto: l’Altro e l’Io dell’io, il Sé del sé. Non v’è advaitino che un giorno o l’altro non dica: “tu” a Dio, e non v’è religione sociologica, per quanto dualista essa sia, in cui qualcuno dei suoi credenti non dica come Al Hallaj: «Togli questo “tu” che è fra te e me».
Dopo il suo soggiorno presso Shrī Gñanananda nel mese di marzo, a Tirukoylur, il 19 aprile riporta quest’osservazione che ci fa toccare con mano con quanta serietà egli s’impegni nella ricerca interiore:
C’è nel Vangelo molto più di quanto la pietà cristiana abbia mai scoperto. Allora che fare? Una cosa soltanto: se il mistero cristiano è vero, si ritroverà intatto al di là dell’esperienza advaitica.
(…)
… dal 1957 al 1971 i passi del Diario saranno raggruppati per temi, iniziando con gli archetipi, e in particolare quello dell’Uomo-Dio.
L’esperienza nel Cristo storico di quest’archetipo che ciascuno porta nel profondo di sé […]. Non può l’uomo essere chiamato, almeno qualche volta, a vivere dentro di sé l’esperienza diretta dell’archetipo Uomo-Dio? L’esperienza diretta fatta da Gesù lo porta alla croce […]. Non è uno scherzo calarsi nel mistero del proprio essere. È più semplice calarvisi sacramentalmente, mistericamente e attravrso le grandi acque nel simbolo battesimale […]. Sul piano psicologico questi due metodi non si escludono forse a vicenda? Ma bisogna pertanto che l’esperienza reale, diretta, in tutta la sua nudità sia fatta nella Chiesa. Perché mai quest’esperienza sarebbe fatta sempre fuori dalla Chiesa?
… occorre insistere sul fatto che l’esperienza vissuta da padre Le Saux nel campo del dialogo interreligioso rappresenta per lui una vera e propria “rivoluzione copernicana”, rivoluzione che è il cuore stesso della sua epopea, la radice e la fonte del suo cammino spirituale e dei suoi scritti. Egli vuole impegnarsi al di là del dialogo verbale, “vivere” in prima persona, come cristiano, l’esperienza upanishadica della non-dualità, dell’advaita.
Bisogna anche sottolineare che egli non s’impegna senza discernimento, come prova ciò che mi scriveva nel febbraio del 1967:
Credo che si debba risalire alle sorgenti hindū soprattutto per riuscire ad abbeverarsi alle sorgenti cristiane più profonde […] La non-dualità, il Vedanta, è meravigliosa, ma a chi non è preparato può dare alla testa. E l’advaita che non viene vissuta ma semplicemente pensata è luciferina. È una medicina che può risuscitare ma anche uccidere.
Più tardi, parlando di quest’esperienza, dirà:
Si tratta di una vera fissione di sé, l’esplosione nucleare dell’individuo e il passaggio al Tutt’altro, che non è un altro.
(…)
L’ultimo periodo della sua vita, dal 1971 al 1973, è segnato da tre avvenimenti importanti: 1. La venuta del discepolo; Svāmiji si rivela guru; 3. La scoperta del Graal.
Con la venuta di Marc Chaduc, allora seminarista a Lione, nel settembre del 1971, una folgorante avventura si delinea, tanto per il padre che per il discepolo. Tutto cominciò spontaneamente durante una camminata sulle rive del Gange a monte di Rishikesh. Marc vuole fare conoscere a padre Le Saux il piccolo āshrama di Phulchatti che egli ha scoperto lungo il suo vagabondare solitario nella giungla. Ecco il racconto che ne ha lasciato Marc:
Lungo questo cammino verso Pulchatti la grazia fa irruzione. In queste montagne che hanno ospitato tanti contemplativi, folgorato dalla visione interiore, il padre è catturato dal mistero del puro acosmico che lascia tutto sull’invito bruciante di Dio. «Il benedetto che riceve questa luce» mi dice il padre «è pietrificato, lacerato, non può più pensare, resta là, immobile, fuori dal tempo e dallo spazio, solo della solitudine stessa del Solo». Così assorbito, il padre rivive – vive di nuovo – l’irruzione improvvisa della colonna infinita di fuoco e di luce di Arunācala, questo mito sotto la cui forma il risveglio interiore lo aveva fulminato nel 1953. Per un breve istante egli barcolla sotto l’eccesso dell’ebbrezza interiore tanto che lo devo sostenere. Nello stesso istante si apre in me un abisso nascosto fino allora. Più tardi ci renderemo conto che quest’esperienza aveva inaugurato la mauna diksha, l’iniziazione attraverso il silenzio, che è opera del solo Spirito. Nessuno ha coscienza di essere guru, se nascono parole, scaturiscono dalla fonte […], una comunione di purezza infinita al mistero dello Spirito non-duale, uno sguardo che perfora dal fondo dell’anima dell’uno al fondo dell’altro.
(…)
L’anno seguente, nel maggio 1973, Henri Le Saux farà un ulteriore passo nel suo ruolo di guru. Durante un soggiorno di tre settimane con Marc nell’āshrama nella giungla, egli visse in simbiosi con lui una folgorante esperienza interiore, alla vigilia della festa dell’Ascensione. Eccone lo sconvolgente racconto di Marc:
Tre settimane intense, meravigliosamente luminose sulle Upanishad. Durante la “grande notte” del 10 maggio, il giorno dei miei 28 […]. Visione improvvisa e travolgente della param jyotir, della Grande Luce per tre ore; inabissamento nel profondo di me, nella luce ineffabile che io sono. Esperienza di morte annichilente, beatificante, risveglio al Sé! Allo stesso tempo ho la rivelazione definitiva che Henri (Le Saux) è il mio guru. Lo vedo nella sua gloria abbagliante, trasfigurato in questa luce. Ma lui vive l’angoscia terribile di non sapere se “ritornerò”, e se sì con tutta la mia ragione […]. Questa luce di “grande morte” ci ha travolti tanto l’uno quanto l’altro.
Ed ecco quanto Svāmiji mi scrive proprio il giorno dopo il suo ritorno a Rishikesh, il 22 maggio:
(…) Tre settimane tutte consacrate alla lettura delle Upanishad, colme di grazia. Là ho capito che l’Upanishad è un segreto che si rivela veramente solo nel segreto della comunicazione del guru al discepolo. (…)
Cinque giorni più tardi sente il bisogno di scrivermi di nuovo:
Sono stati giorni di straordinaria pienezza, anche se fisicamente mi hanno prostrato […]. Ora so che l’Upanishad è vera, satyam (verità).
Racconta quest’esperienza «sconvolgente della verità», ma in termini più velati, anche a sua sorella benedettina (29 maggio):
Più che mai desidero solitudine e silenzio. Ciò che c’è di buono nei miei libri scaturisce proprio da questo silenzio […]. La salvezza è nel puro approfondimento del senso della presenza intima di Dio. Questo lo so, e ardo dal desiderio di farlo sapere, di comunicare questo “fuoco” interiore, una presenza incoercibile, che brucia e che trasforma. E questa comunicazione avviene direttamente da spirito a spirito, nel silenzio dello Spirito.
Ormai Marc non ha che un pensiero: diventare samnyāsin-monaco secondo il modello hindū, in seno alla Chiesa. Riceve l’iniziazione monacale il 30 giugno 1973 nelle due tradizioni contemporaneamente, quella cristiana da padre Le Saux e quella hindū da Svāmī Chidānanda.
(…)
Come vuole la tradizione indiana, non appena ricevuta la dīkshā, Ajātānanda (Marc) partì, errante, per un periodo indeterminato. Dieci giorni più tardi, come per caso – se il caso esiste – incontra padre Le Saux a una quarantina di chilometri da Rishikesh, in un piccolo eremo che aveva deciso di acquistare perché le condizioni di vita a Gyamsu erano diventate troppo dure per la sua salute ormai debole. Tutti e due decidono di ritornare insieme a piedi a Rishiliesh. Sorpresi da un temporale nel mezzo della giungla, si rifugiano nel minuscolo tempio di Ranagal. È in questo luogo che si svolge quella che essi più tardi chiameranno la «grande settimana». Guru e discepolo qui vivono nuovamente giornate straordinarie. Ecco dei brani del racconto di Marc-Ajātānanda:
Durante questi giorni Svāmiji fu come invaso da una forza che lo superava. Furono vissuti attraverso alcuni grandi simboli come il rapimento del profeta Elia nel suo carro di fuoco, quello di Dakshinamuntri, la manifestazione di Shiva come giovane guru che insegna attraverso il suo silenzio, infine sotto il mito della colonna di fuoco senza base né sommità di Arunacala-Shiva.
L’11 luglio per opera dell’irruzione dello Spirito escono dalla bocca del padre, imprevedibilmente, delle parole che balbettano l’indicibile, suggerendo che colui che era dietro è passato avanti, senza dietro né davanti; che non c’è più né maestro né discepolo […]. Di ciò che si è detto, nessuno se ne ricorda.
(…)
Il giorno dopo Svāmiji mi parla del mistero della procreazione del Non-nato. Mi rendo sempre più conto che questo “mistero” è il mistero unico e non-duale che risiede nel cuore di ciascuno di noi due e che si è rivelato nel seno della nostra relazione da guru a discepolo, e più ancora da padre a figlio. Il mistero della comunione guru-discepolo giungeva al suo parossismo, questo mistero abissale del figlio che “genera” il padre, nell’atto stesso in cui il padre genera il figlio a se stesso, risvegliandosi entrambi Non-nato.
Svāmiji allora mi dice: «Tu dovrai trasmettere questo mistero attraverso e dentro lo Spirito. Tutto ciò che è donato viene ricevuto per essere donato di nuovo […]». Il 14 luglio al mattino, Svāmiji mi lascia per alcune ore per andare a Rishikesh in autobus (per prendere del cibo […], non ritornerà). […] Lasciandomi non può trattenersi dal pronunciare parole d’addio, e il suo viso è nuovamente trasfigurato. Mai dimenticherò le sue ultime parole: «Anche se parto, non ti lascio. Sono sempre con te». E quello stesso giorno, a mezzogiorno, il 14 luglio, cade a terra colpito da una crisi cardiaca, a Rishikesh. È il “risveglio” definitivo al di là di tutto, l’esplosione finale.
Nove giorni più tardi Svāmiji, ricoverato in ospedale, dettava a un giovane monaco hindū che lo vegliava una lettera in inglese indirizzata a me di cui riporto la parte più significativa:
È meraviglioso fare una tale esperienza che procura la pienezza della pace e della gioia, al di là di ogni circostanza, anche di morte e di vita. La vita non può più essere la stessa, ora che ho raggiunto il “risveglio”! Gioite con me […].
Con una scrittura tremante aveva terminato la lettera con queste parole scritte di suo pugno:
OM, questo dice tutto! Sarvam brahman – tutto è Dio.
La triste notizia mi giunse mentre preparavo un viaggio in India, durante il quale dovevo trascorrere dei giorni con Svāmiji sulle rive del Gange a Rishikesh. Era fuori questione, il padre doveva rimanere in ospedale per un periodo indeterminato. A metà agosto egli mi precisa:
Ignoro tutto del futuro. Poco importa, c’è la scoperta del Graal […], io resterò qui (Indore) il tempo che occorrerà.
È dunque alla Nursing Home di Indore che lo incontrerò in ottobre, circa sei settimane prima della sua mahā-prasthāna, la sua “grande dipartita”, come viene chiamata la morte in India. Mi parlò a lungo delle esperienze spirituali fatte in simbiosi con Marc durante i giorni precedenti al suo infarto, e della sua «scoperta del Graal». Tutto il suo essere non era che trasparenza al mistero interiore, gioia e pace si leggevano nel suo sguardo penetrante che riduceva al silenzio, un silenzio pieno di meraviglia.
Non sapendo cosa offrirgli, gli avevo portato un calendario per il 1974, la riproduzione di una celebre icona che rappresentava il rapimento di Elia sul suo carro di fuoco. Nel dargliela percepii come un lampo nei suoi occhi: «Anch’io dunque me ne andrò presto?».
(…)
Il racconto degli ultimi momenti di padre Le Saux ci è stato conservato in una lettera che madre Théophane, superiora nella Nursing Home, indirizzò a padre Dominique O.S.B., un amico molto intimo:
[…] Giovedì 6 dicembre celebrò la sua ultima messa – era sfinito; venerdì mattina, il 7, sembrava dormire, alle 8, una sorella mi chiama: Svāmiji chiede di voi. Arrivo di corsa e trovo il padre molto affaticato, che mi dice che non ha potuto dormire e che ha un dolore al petto. Faccio venire il dottore che dice che il cuore va bene, sono i polmoni che gli vanno male […]. Nel pomeriggio, all’improvviso, si sente come soffocare, rosso e rantolante, ho creduto che trapassasse […]. La crisi è durata due minuti. La sera nuovo attacco, meno forte questa volta, dopo di che il padre mi dice: «Che avventura, beh, abbiamo fatto tutto ciò che si poteva, sarà come Dio vorrà, io sono pronto». Con un bellissimo sorriso aggiunse: «Ora sarà più o meno sempre così! Ecco, come Dio vorrà! Che disturbo vi do!».
La sera, verso le 10.30, ha una nuova crisi. Gli venne data l’estrema unzione, breve, era ancora cosciente. Alle 11 si addormentò nel Signore per risvegliarsi lassù e festeggiare la santa Vergine. Noi (tutte le religiose) restammo al suo capezzale fino alle due del mattino. Era meraviglioso sul suo letto, una figura così piena di pace, sembrava sorridere, così bello!, ed è rimasto così fino alla sera del giorno dopo. Era vestito della sua tunica arancione di samniyasin. Così è ritornato alla casa del Padre.
Il testo è compreso in Henri Le Saux (Abhishiktānanda), ‘Alle sorgenti del Gange. Pellegrinaggio spirituale’, Servitium, Sotto il Monte, 1994, pp. 99-119