Alcuni santi riflettono le perfezioni di Dio con le loro vite silenziose e nascoste; altri sono leader, altri sono eroi del sacrificio e altri ancora vittime dell’amore; alcuni hanno una natura umana piuttosto debole, e altri sono dei veri geni da un punto di vista umano. La santità è multiforme come lo è l’Uomo e la sua natura.
Ci si trova tuttavia di fronte a una non piccola difficoltà se si vogliono classificare i nostri due santi, Giovanni della Croce e Teresa d’Avila. Se li classifichiamo come contemplativi, in quanto hanno raggiunto il più alto grado di fruizione di Dio e di unione con Lui, dimentichiamo che entrambi condussero vite estremamente attive, non solo come maestri di spiritualità, ma anche come riformatori del loro ordine.
L’esempio delle loro vite
È una presunzione quasi folle cercare di riassumere il clima spirituale, i problemi politici e la crisi culturale di quel punto di svolta nella storia europea che ebbe luogo in Spagna durante il XVI secolo.[1] Il destino del mondo, non solo in senso politico o secondo un’interpretazione superficialmente culturale, ma in un significato ontologicamente vero e spirituale, era, possiamo dire, non precisamente nelle mani, ma nella vita di un relativamente piccolo numero di persone, che vivevano in uno dei più caratteristici angoli d’Europa. In quel periodo aveva luogo non solo la nascita dell’Europa «moderna» o la fine dell’epoca «medievale», ma anche il grande conflitto e uno dei pochi e più decisivi incontri fra culture, mondi, religioni. I semi erano piantati e i problemi di una cultura mondiale iniziarono a essere soppesati in modo molto consapevole e serio.
Questa crisi implicava la purificazione e la riforma della Religione, sia da dentro che da fuori, la nuova riflessione circa la relazione degli Uomini con Dio e l’Universo, la relazione del cristianesimo e della cultura cristiana con le altre religioni e culture, non solo da una prospettiva teologica, ma anche da un punto di vista vitale, esistenziale. Ogni cosa era in fermento e la Spagna era il terreno di battaglia di un tale momento storico benché, naturalmente, non tutti i fattori e le idee fossero spagnoli.
Teresa aveva ventun anni quando abbracciò gli ordini religiosi e divenne suora carmelitana ad Avila, sua città natale. Fine dell’ordine carmelitano è di portare i membri a vivere una vita di contemplazione attraverso una lunga pratica di preghiera (nel senso più profondo), di distacco e di penitenza, naturalmente centrata su una contemplazione d'amore e non di pura speculazione. Due anni dopo essere entrata nel Convento dell'Incarnazione (1538), Teresa scrive: «Cominciò dunque il Signore a favorirmi di molte grazie sino ad elevarmi all’orazione di quiete e qualche volta a quella di unione»[2]. Consapevole come ella era della sua vita interiore, possiamo fidarci della sua terminologia e affermare che ebbe inizio per lei una vita di contemplazione abituale e costante solo dodici anni dopo. Visse questa profondissima vita dello spirito per trentatré anni. Ebbe una sensibilità estrema e anche una consapevolezza intensa delle cose spirituali. Questo suo secondo periodo può essere diviso in due differenti stadi: uno di semplice preghiera di quiete, trascendendo ogni comprensione concettuale e con parziale coscienza della sua unione con Dio (dodici anni) e l'altro di unione costante con Dio in una vita di identificazione di volontà (undici anni) e di matrimonio spirituale (dieci anni).
Aveva una quarantina d'anni quando, raggiunta l'unione costante con Dio, avverti la missione apostolica di sollevare il clima spirituale e l'osservanza del suo ordine e, al posto di godere della sua perfezione spirituale, ella diede inizio alla colossale avventura di riformare il Carmelo con nessun altro mezzo che il suo grande amore e fiducia in Dio. Dovette superare ogni tipo di difficoltà e incomprensione in ogni campo. Nonostante la salute precaria e senza perdere l'intensità della sua vita contemplativa e di costante unione con Dio, ella intraprese la più sorprendente vita attiva e fondò conventi delle carmelitane scalze in tutta la Spagna.
Forse uno degli aspetti che più colpiscono fu la sua completezza, la sua pienezza. La sua santità la portò a un'unione con Dio tanto prossima come si può avere in questo mondo e tale unione divinizzò il suo essere. Ciononostante mantenne una personalità pienamente umana, sensibile alle piccole cose del mondo e con uno squisito senso di umorismo. La sua unione con Dio non la separò dai suoi simili e rimase completamente donna con tutta la complessità di uno spirito femminile. Il segreto del suo atteggiamento positivo verso la vita e la natura fu la sua spiritualità cristocentrica. La sua consapevolezza di Dio e della sua somiglianza con Dio fu grazie alla sua esperienza di Dio in e attraverso Cristo, senza esclusione della sua umanità. Caratteristica essenziale della spiritualità carmelitana è di considerare Cristo come sposo dell'anima e di trovare nell'unione viva (matrimonio spirituale) la trasformazione più perfetta in Dio.
Giovanni della Croce entrò nell'Ordine dei fratelli carmelitani «calzi» a ventun anni e a ventisei incontrò Teresa che aveva già cinquantatré anni. Invece di passare all’Ordine certosino per vivere una vita di penitenza più austera e di contemplazione come aveva in mente, si uni a Teresa nel nobile compito di riformare il Carmelo fra gli uomini, come Teresa aveva già iniziato a fare fra le donne. Per la realizzazione di quel progetto egli dovette sopportare calunnie e persecuzioni di grande crudeltà. A differenza di Teresa non divenne mai il fondatore giuridico, ma fu lo spirito ispiratore del Carmelo. Fu un teologo erudito (studente di Alcalà e di Salamanca) e divenne uno dei mistici più grandi di tutti i tempi. Scrisse diversi libri, pubblicati tutti dopo la sua morte. È anche uno dei migliori poeti di tutta la letteratura spagnola.
La dottrina mistica
Solo un mistico può insegnare una dottrina mistica e il suo insegnamento è una comunicazione vitale. Nel caso in cui i mistici scrivano qualcosa, ciò non è che un surrogato e un ricordo. Se cercassimo di riassumere ciò che hanno scritto per esteso, poiché non impiegano parole superflue, noi certamente traviseremmo la loro dottrina e ne daremmo solo una vaga idea. Come potremmo osare di proporre una sintesi del loro messaggio e mettere in evidenza gli aspetti nei quali hanno cercato di esprimere l’ineffabile? Tutto ciò che possiamo fare è, pertanto, il tentativo di esaminare le implicazioni filosofiche della loro dottrina evidenziandone la struttura metafisica.
Scopo e fine della vita umana è l’unione con Dio, è la trasformazione del nostro essere e la sua divinizzazione. La creatura in sé, però, è un nulla. O, come ripetono costantemente i nostri santi, una nonada un non nulla. Essa esiste perché, in certo qual modo, continua a esistere fuori dal nulla, «extra nihilum», sospesa sull’abisso del puro nulla dal potere creatore di Dio. La creatura, dunque, per raggiungere Dio ed essere unita a Lui, deve abbandonare e dimenticare il suo modo di essere, cioè il suo «non ancora essere», la sua negatività e negare il suo non nulla.[3] L’Essere non può essere distrutto. Tutto ciò che noi annientiamo è l’elemento negativo intrinseco alla nostra esistenza temporale.[4] In altre parole, questa unione con Dio non è mera conoscenza ma una incorporazione ontologica benché il nostro intelletto sia anche una parte del nostro essere. Non è semplicemente «conoscendo» Dio che saremo trasformati in Lui, ma solo essendo pienamente uniti a Lui. Noi raggiungiamo il nostro destino ultimo[5] quando siamo uno con Lui.
Ora, a rigore, tra la «creatura» in quanto tale e Dio in quanto tale non c’è nulla in comune. Se la prima deve essere unita a Dio, cioè divinizzata, deve essere spogliata del suo modo di essere. Non solo io non posso raggiungere Dio, ma il mio essere non può essere unito a Lui finché rimane «creatura». Non perché la «natura» è cattiva, ma perché essa non appartiene all’ordine della Divinità. Ma io non ho da parte mia nulla di questo ordine; la mia natura non possiede nulla di omogeneo con Dio che possa essere utilizzato nella mia unione con Lui.
Questo ci porta al famoso cammino del nulla assoluto dei nostri due mistici. Io non posso fidarmi dei miei sensi né dei miei sentimenti, e neppure del mio intelletto con le sue intuizioni, né della mia volontà e neppure del mio stesso essere. Non posso fidarmi di nessuna cosa creata. Se vedo Dio, se Lo sento, persino se Lo amo, dato che è il mio amore ciò che io vedo, sento, amo o sperimento, non si tratta di Lui, poiché Lui è al di là dei miei modi di comprensione e di possesso.
Io posso essere trasformato e unito a Lui, io posso essere Dio, solo se lascio assolutamente tutto ciò che sento, amo, penso e sperimento[6] e persino ciò che «immagino» di essere, ed è Lui che prende possesso di me e mi «rifà». E solo così la nostra vera personalità si realizza. Questa è l’azione della Grazia in me. L’importanza della creatura è qui rimpiazzata dal potere assoluto di Dio. La nuda via della pura fede non è né un credere cieco né uno sforzo disperato di salvarmi, ma è il dono divino e gratuito accordatomi che mi chiama e mi trasforma. Io non ripongo più la fiducia in me ma solo in Dio.[7]
«Dio ha pronunciato solo una Parola che è Suo Figlio ed Egli Lo ha pronunciato in eterno silenzio», dice san Giovanni della Croce, ripetendo una comune asserzione dei Padre della Chiesa. Per essere incorporati in Lui dobbiamo entrare in quel Silenzio, non solo annullando tutte le voci, le immagini e i pensieri su tutto e persino su Dio stesso, ma riducendo il nostro stesso essere a un silenzio ontologico. «Per avere il Tutto tu devi lasciare il tutto», compresi noi stessi.
Il cammino reale verso Dio, indicatoci da questi due grandi contemplativi, non è quello della mera contemplazione di Dio come oggetto, non è l’esperienza di Dio o lo sguardo purificato e altamente contemplativo su di Lui; il nostro sguardo deve trascendere tutte le nostre forze e le nostre facoltà e persino il nostro stesso essere. «Tale è la somiglianza tra fede e Dio da non esservi altra diversità al di fuori di quella che può intercorrere tra il vedere e il credere in Lui»[8]. In termini cristiani è la via nuda e soprannaturale della vera fede quale partecipazione della stessa conoscenza e Luce di Dio, quale introduzione alla Vita divina che, per così dire, è sostenuta in noi grazie ai Suoi doni di Fede, Speranza e Carità[9]. O ancora San Giovanni: «questa notte oscura è il fluire di Dio nell’anima».[10]
Per giungere a ciò che non sai,
devi passare per dove non sai.
Per giungere al possesso di ciò che non hai,
devi passare per dove ora niente hai.
Per giungere a ciò che non sei,
devi passare per dove ora non sei.
Così canta san Giovanni della Croce nei suoi famosi versi[11]. Il progredire dell’uomo spirituale verso Dio è piuttosto l’avanzare di Dio in lui. L’ascesa alla montagna da parte dell’uomo corrisponde alla più reale discesa di Dio nel suo essere.
Una volta santa Teresa, pregando, stava amorosamente lamentandosi con Dio delle sue prove e sofferenze. Udì Dio che le diceva: «Teresa, è così che tratto i miei amici!», facendole comprendere il carattere purificatore delle sofferenze. Ma Teresa, che già lo sapeva, sfrontatamente rispose: «È per questo che ne hai così pochi!». C’è chi ha evidenziato la difficoltà e l’impossibilità di seguire la dottrina dei nostri due santi carmelitani, ritenuta erroneamente una autoabnegazione inumana. Se pensiamo in termini di coraggio umano, è vero che la completa spogliazione del proprio io, ritenuta da loro necessaria al fine di raggiungere l’Unico, è al di là delle forze umane, così che, se questa spogliazione fosse messa in atto per una egoistica brama spirituale, sarebbe non solo impossibile ma anche innaturale. Nessuna forza umana può compiere un’opera come questa e percorrere il sentiero della negazione assoluta, per la semplice ragione che, se non c’è un Dio che ci sostiene, persino dal basso, sotto ai nostri piedi non rimane nulla. San Giovanni della Croce, inoltre, ripete a più riprese che le due notti dell’anima giungono solo quando una persona ha superato la luce della ragione e ha trasceso i sentieri dei sensi[12]. È però anche vero che nessuno può con le sole forze umane arrivare in cima al monte su cui dimora Dio. È Dio, solo Dio, che chiama e dà i doni e le grazie necessarie per una tale ascesa[13]. È l’opera di Dio in noi e anche attraverso noi «non sarebbe infatti una trasformazione vera e totale se l’anima non si trasformasse nelle tre persone della Santissima Trinità… L’anima unita e trasformata da Dio respira in Dio verso Dio lo stesso divino alito che Dio respira in se stesso verso lei trasformata in lui[14].
La santità dei due santi carmelitani
Molteplice e meraviglioso è Dio nei suoi santi. Scintille della Sua perfezione si sprigionano in questi prescelti. Semplicità, amore, obbedienza, forza spirituale, personalità e tanti, tanti altri valori si riflettono nelle vite dei santi. Quali sono le caratteristiche particolari di questi due mistici?
Oserei dire che loro caratteristica precipua, che costituisce al contempo un messaggio urgente e importante per i nostri tempi, è semplicemente quella della santità stessa. E questa è la caratteristica anche dell’altra grande santa del Carmelo dei nostri giorni, santa Teresa di Lisieux, il Piccolo Fiore.
Naturalmente, per il fatto stesso di essere santo o santa, essi riflettono la santità di Dio, ma il colore della luce divina può essere il rosso dell’amore, il verde della speranza, il violetto della penitenza o l’infrarosso di una resa genuina o l’ultravioletto del misticismo e così via.
Malgrado le ricche spiritualità e gli alti doni mistici di cui erano dotati, essi non insistono solo sulla contemplazione, il misticismo e simili; essi non vogliono che nessuno neghi il mondo né faccia dell’autonegazione la sua dottrina centrale. Essi semplicemente predicano e vivono una vita santa, vale a dire la santità, pura e semplice. Tutto il resto è in ultima analisi irrilevante, mezzo per l’«unica cosa necessaria». I loro testi furono scritti o per obbedienza, come nel caso di Teresa, o, come nel caso di san Giovanni, miravano prevalentemente ad aiutare anime speciali a raggiungere l’unione con Dio. Eppure i loro libri sono veramente universali e gli esempi delle loro vite, al di là dello scopo precipuo delle loro attività, costituiscono una lezione per ogni anima religiosa.
Ciò che in definitiva conta non sono le nostre idee o le nostre esperienze o il nostro rifiutare questo e fare quest’altro; ciò che conta non è un certo metodo di preghiera o una particolare forma di vita. La cosa veramente importante, l’unico e ultimo scopo dell’uomo, è la santità, l’unione con Dio, il trasformarsi in Dio, la divinizzazione di tutto il nostro essere[15].
Nel corso di tutto il XVI secolo (per non parlare del nostro tempo) l’Europa attraversava, sotto tutti gli aspetti, una crisi mondiale. Dovunque problemi e soluzioni erano pianificati e applicati in linea orizzontale. La risposta della monaca carmelitana e del frate carmelitano è univoca: la santità. Ma non una santità in forma di una egoistica autoriforma, non una santità per riordinare il mondo e risolverne i problemi, o per salvare se stessi, cioè quale mezzo per qualcosa d’altro o come condizione prima, ma una santità vera, quale fine a se stessa, perché il peso ontologico di una persona divinizzata è più grande di ogni altra cosa, perché il significato della vita sulla terra, questa «cattiva notte in una cattiva taverna» (santa Teresa), non è organizzare il cielo sulla terra ma portare la terra in cielo. «Un unico atto sovrannaturale d’Amore ha più valore di mille universi materiali» (san Giovanni della Croce). Ne deriva quindi che il solo vero approccio alla Vita è darle via libera. Conformemente alla sua natura profonda, la vita sulla terra sarà veramente umana, felice e bella. «Non è forse sorprendente che una povera suora del Convento di san Giuseppe possa regnare su tutta la terra e tutti gli elementi?»[16]. È l’atteggiamento meno negatore del mondo che si possa immaginare perché vede l’intera creazione come un’esplosione dell’Amore divino. Solo allora l’uomo sarà il re della creazione e trasformerà tutto nel vero eterno Regno che è ben più di un mero mondo temporale.
Solo allora l’uomo potrà cantare esultando e rendersi conto che: «I cieli sono miei, la terra è mia, i popoli sono miei! Miei sono i giusti e i peccatori! Miei sono gli angeli e la Madre di Dio è mia! Tutte le cose sono mie! Dio stesso è mio e per me, perché Cristo è mio e tutto per me!»[17]. Il motivo è chiaro: Io non sono più mio, ma è Dio che è in me ed Io in Lui. Questo è il mistero cristiano del Cristo!
Da Raimon Panikkar, Opera Omnia, vol. I, tomo I, Mistica pienezza di vita, Jaca Book, Milano 2008, pp. 130-137
[1] Cfr. il magistrale capitolo di Friederich Heer, Europaische Geistesgeschichte, Kohlhammer, Stuttgart 1953, pagg. 280-331.
[2] Vita IV, 59 in Santa Teresa di Gesù, Opere, Postulazione generale OCD, Roma 1985.
[3] Salita del Monte Carmelo II,5, in San Giovanni della Croce, Opere, Postulazione generale OCD, Roma 1985.
[4] Ibid. I,5; Notte oscura II,6.
[5] Salita del Monte Carmelo I,4,5.
[6] Ibid. I,2.
[7] Ibid. II,8,1.
[8] Ibid. II,9.
[9] Ibid. II,6.
[10] Notte oscura, II,5.
[11] Salita del Monte Carmelo, I,13.
[12] Cantico spirituale, Strofa 34.
[13] Fiamma viva d’amore, Str. III,3
[14] Cantico spirituale, Str. 39.
[15] Salita del Monte Carmelo, III,16,1
[16] Santa Teresa, Vita, VI, 104.
[17] San Giovanni della Croce, Insegnamenti spirituali, 25.