L’intervista, a cura di Ireneo Torrero, si svolse nell’estate del 2015 a Berzano, presso Tortona, dove Bruno Volpi visse nell’ultimo periodo della sua vita insieme alla moglie Enrica e dove si è spento. Doveva essere la prima parte di un lavoro più ampio, che non venne portato a termine.
Vuoi raccontarci della tua infanzia?
Sono nato prima della guerra. Ho avuto un’infanzia bella. Dovrei dire povera, perché i miei erano operai, ma non mi è mai mancato nulla. Mi ricordo di quando ci fu l’armistizio e mio fratello maggiore, allora ventenne, dovette nascondersi dai tedeschi, mentre mio padre rompeva le armi e le sotterrava o le buttava nel lago per nasconderle. Avevo sei anni nel ‘43. Quando era scoppiata la guerra, ricordo mia madre che piangeva, perché aveva un figlio sotto le armi. Ricordo poi il 25 aprile: i partigiani che festeggiavano sparando in aria.
Non ero molto studioso, da bambino. La maestra mi mandava a farle il giardino, e una volta mi ha anche bocciato. Ma nel ’48, a undici anni, sono andato in seminario, e lì sono rimasto fino ai diciotto. Guardandomi indietro, vedo già in quello che ero allora quello che sarei diventato, perché era nel mio DNA. Studiavo pochissimo, ma ero presente in tutte le attività extrascolastiche. Una volta litigai con un professore, che si offese. Non avevo accettato quella che mi sembrava un’ingiustizia; lui mi aveva castigato e io non avevo accettato l’umiliazione. Da allora non mi corresse più un compito. Dovetti ripetere la quinta ginnasio e la prima liceo, ma ero già un altro. A diciannove anni uscii dal seminario: la vocazione era passata. Mia madre soffrì visibilmente; mio padre, da uomo silenzioso qual era, se la tenne per sé.
A quel punto si trattava di trovare lavoro: cosa non facile, nel ‘55. Incominciai a lavorare con mio fratello, che aveva avviato una piccola attività di trasporti, nella quale imparai a guidare il camion: cosa che in seguito mi sarebbe servita. Intanto mio padre, che aveva raggiunto l’età della pensione, si licenziò dalla Guzzi, dove lavorava; in questo modo assunsero me, che presi il suo posto. A Mandello la fabbrica dove facevano la moto Guzzi era tutto. Mio padre era molto contento perché, avendo studiato, mi avevano dato un posto da manovale specializzato. Il mio compito era fornire l’attrezzatura agli operai che dovevano fare un certo pezzo, e ovviamente ne ero responsabile: quindi bisognava saper leggere. Mi piaceva star lì, perché ogni giorno vedevo molta gente; e, siccome si era sparsa la voce che ero stato in seminario, molti si confidavano con me. Approfittavano dell’educazione sentimentale che avevo ricevuto per confessarsi.
Per sei anni lavorai alla Guzzi. Prima di andarmene feci in tempo a partecipare ai primi fermenti sociali e agli scioperi. Uno in particolare durò quindici giorni e io vi ero direttamente coinvolto. Un operaio era venuto a chiedermi un attrezzo senza il progetto firmato; e, siccome aveva sbagliato il lavoro, avevano multato i vari supervisori e volevano farlo anche con me. Essendomi opposto alla punizione, alla fine dello sciopero mi trovai degradato da manovale specializzato a manovale semplice: mi mandarono a guidare un muletto. Ma intanto stavo studiando al serale da geometra. Ripensando a mio padre, mi rendevo conto che aveva passato tutta la vita in quel buco di azienda, e capii che la fabbrica non faceva per me. Ma non era un rifiuto del lavoro, perché a me lavorare è sempre piaciuto; mi ha sempre appassionato fare bene qualcosa: solo non sopportavo l’idea di passare la vita lì dentro.
In quegli anni conobbi l’Enrica, la quale, finite le elementari, era stata mandata dalla sua famiglia a lavorare in fabbrica, in una maglieria. E ha lavorato fino al giorno in cui l’ho sposata.
Già dai tempi del seminario ero stato un ribelle, e lo ero stato anche in fabbrica. Con lei ci siamo subito capiti e abbiamo cominciato a sognare l’oltre; quando l’oltre per noi era Lecco.
Era quello il periodo, fine anni cinquanta, in cui Albert Schweitzer, medico, musicista, letterato, vinse il premio Nobel. Aveva lasciato tutto per andare a costruire un ospedale in Africa. E così cominciammo anche noi a sognare l’Africa; da geometra, sognavo che l’ospedale glielo avrei costruito io.
Proprio in quel periodo Enrica andava a passare le vacanze estive dai Gesuiti a Bormio. Ed è lì che, confidando questi sogni a un padre, questi le parlò del fenomeno francese del missionariato laico. L’inverno successivo giunse una lettera in cui il padre gesuita ci invitava a partecipare ad un convegno a Milano, tenuto da un confratello, proprio su quell’argomento. Così salimmo sulla Lambretta e per la prima volta nella vita andammo a Milano.
In quel periodo stavano costruendo la metropolitana, e la città era un disastro. Soprattutto il centro, dove si trovava la comunità dei Gesuiti. Non riuscendo a districarmi, tra cantieri e strade chiuse, stavo per invertire la marcia e tornare indietro; quando casualmente, o provvidenzialmente, imboccammo un vicoletto e finimmo esattamente nel luogo in cui si teneva l'incontro.
In quel periodo non ero del tutto sicuro del rapporto con Enrica. Difatti, un giorno che volevo dirle che non avevo voglia di impegnarmi troppo, lei, fraintendendo, mi chiese perché non fissavamo la data del matrimonio. Non mi rivide per un po’! Giunse però proprio allora la proposta di andare in Francia. Siccome la famiglia di lei disse chiaramente che l’avrebbero lasciata venire solo se ci fossimo sposati, andai da solo e rimasi per un anno come migrante.
Intanto mi ero diplomato e, siccome avevamo già l’idea di andare in Africa, volevo fare diverse esperienze: quindi lavorai in uno studio di disegno di serramenti, in un ufficio topografico, in cantiere. A Lione lavorai come geometra di cantiere. Tornato per le vacanze natalizie in Italia, ci sposammo il 12 di gennaio e tornammo insieme in Francia, dove facemmo il corso da missionari laici per otto mesi. Nel frattempo Enrica era rimasta incinta ed era difficile trovare un ingaggio. Finché finalmente un giorno si liberò un posto da geometra e fummo chiamati da un vescovo del Ruanda.
Dopo aver firmato un contratto per due anni, partimmo. Ci furono grandi festeggiamenti, perché in Italia eravamo i primi missionari laici. Vennero a intervistarci il primo e il secondo canale della televisione. Ci vollero filmare mentre remavamo in barca, con un giornalista che leggeva “Addio monti sorgenti...”. Io ero talmente emozionato che continuavo a girare in tondo.
Partimmo per stare due anni e ne rimanemmo otto. E partimmo in due per tornare in sette, perché in Africa nacquero i nostri quattro figli, più una bambina moretta dell’età della nostra prima figlia che avevamo adottato.
Parlaci dell’esperienza in Africa.
Siamo stati lì dal ‘63 al ‘71. Un’esperienza molto forte.
Arrivammo ad Uzumbura, in Burundi. Ci avevano detto di cercare un certo padre ma, non sapendo a chi chiedere, ci unimmo a un gruppo di suore. In seguito scoprimmo che il prete abitava a ottocento chilometri di distanza. Chiedemmo come avremmo fatto a raggiungerlo. Ci risposero che prima o poi sarebbe passato qualcuno che andava da quelle parti. Fortunatamente un altro padre si offrì di accompagnarci, dicendo che quell’anno avrebbe fatto le vacanze con noi.
Impiegammo una settimana e, una volta giunti, fummo ricevuti dal vescovo. Eravamo arrivati con il compito di fare dei rilievi al fine di stabilire i confini delle missioni: da poco quelle terre avevano ottenuto l’indipendenza e non era chiara la ripartizione delle proprietà. Uscimmo però da quel colloquio con il compito di costruire una scuola/collegio femminile per conto delle suore missionarie. Il vescovo riteneva che gli Italiani fossero ottimi costruttori e disse una frase che segnò la mia vita da quel momento in poi: “Voi tirate fuori il talento, tutto quello che siete capaci di fare: vedrete che non vi mancherà mai niente”.
Ci condussero in una vecchia missione di fine Ottocento a 1800 metri di altitudine, con tutte le mura intorno. Davanti c’era una collina dove avrebbe dovuto sorgere il collegio per la formazione di maestre elementari: dovevano essere trecento, più gli alloggi per i professori. Inizialmente mi occupai dei progetti che, dopo due anni, andai a presentare in Germania alla suora economa. Enrica rimase a casa dai suoi due mesi con i bambini e dopo tornammo giù, con l’approvazione e duecento milioni per realizzare la scuola.
Cominciammo ad abbattere gli alberi per fare la strada. Le colline erano come queste (indica le colline sopra Tortona). E, come qui, oltre le colline si vedeva la pianura. L’unica differenza è che, al di là, non si scorgevano le Alpi ma quel complesso di vulcani che separano il Ruanda dall’Uganda e dal Congo. Noi eravamo in quella conca di laghi dove si riteneva fossero le sorgenti del Nilo. In quelle foreste c’è un ceppo che è stato posto dove Stanley incontrò Livingstone.
Dal ‘65 iniziò la costruzione vera e propria. Ma dovevamo fare tutto: dal tagliare gli alberi al fare i mattoni e cuocerli. Era come un’azienda artigianale in cui bisognava fare tutto dal principio. Nelle città, anche in Ruanda non era più così. Avevano già macchine e prodotti industriali. Alcuni dei trecento operai li avevo messi a estrarre da certe rocce calcaree una specie di calce idraulica, che si adattava bene alle nostre esigenze. Certamente più del fango, che era stato usato dai missionari in precedenza. Tagliavamo le montagne tutti in fila, con le zappe, e portavamo via la terra con le carriole.
Con che spirito lavoravano gli operai ruandesi?
Bisogna innanzitutto dire che gli Africani di quelle montagne, rispetto a quelli della savana, sono molto forti e gran lavoratori. Inizialmente lavoravano solo per i soldi ma, man mano che i lavori procedevano, si rendevano conto che le loro figlie sarebbero andate lì a studiare e che la scuola avrebbe arricchito la loro comunità. Alcuni impegnavano il loro stipendio per far studiare le figlie.
Si creò un legame molto forte, tanto che alla fine dei lavori tutti pensavano che non sarei più andato via: che sarei rimasto lì con loro a portare avanti l’impresa che avevo avviato.
Avevamo imparato a lavorare insieme. Avevo anche capito che non dovevo responsabilizzare l’operaio più bravo ma quello più vecchio, perché lì è l’anzianità a stabilire le gerarchie. Essendo partito dalla cultura del “chi fa da sé fa per tre”, da allora non sono più stato in grado di far nulla da solo. Come io dovevo fidarmi delle squadre a cui affidavo i vari compiti, loro dovevano fidarsi di me. Avrebbero potuto farmi sparire nella foresta e nessuno mi avrebbe più trovato. Chissà quante volte l’hanno pensato! E invece il legame di fiducia e il reciproco bisogno, io di loro e loro di me, fece reggere il rapporto anche in situazioni estreme. Come quel giorno che, andando a caricare i blocchi di lava, un operaio finì sotto una ruota del camion che io stavo guidando.
Loro durante gli spostamenti in camion si divertivano, cantavano e scherzavano, seduti sulle sponde del mezzo. Ma quel giorno il ramo di un albero, cresciuto così in basso da sfiorare la cabina del camion, ne fece cadere uno, che volò nella scarpata e finì sotto la ruota. Sembrava non si fosse fatto granché, perché si lamentava ma era cosciente. Lo portammo subito all'ospedale più vicino, che si trovava a trenta chilometri. La mattina dopo, quando tornammo a trovarlo, era morto. Era accaduto durante la notte, probabilmente per via di un’emorragia interna. Il medico ufficiale dell’ospedale francese aveva ordinato che gli fosse fatta una trasfusione, ma lui si lamentava che l’ago gli dava fastidio e qualche infermiere deve averglielo tolto. Riportata la salma al villaggio, venne fatta la cerimonia funebre e lo seppellimmo. Al che due poliziotti mi prelevarono e mi riportarono nel centro dove si trovava l’ospedale, con l'accusa di omicidio colposo ed occultamento di cadavere. “Occultamento di cosa? Eravamo lì… Perché non siete scesi a vedere mentre lo seppellivamo?” dissi. Ma loro parlavano la loro lingua, io il Francese, quindi… Ma nel frattempo gli anziani del mio villaggio avevano già istituito il loro tribunale e mi avevano giudicato innocente. Avevano già anche stabilito cosa dovessi dare alla vedova finché non si fosse risposata. Addirittura mi dissero che potevo scegliere se dare la cifra in un unica soluzione o attraverso una rendita mensile per un tot di tempo. Mica stupidi, no? E questo perché il nuovo marito avrebbe dovuto ripagare la famiglia del primo della dote utilizzata per acquistare la moglie. Lì i matrimoni sono vere compravendite. L’avevano proprio studiata bene.
Fatto sta che la prefettura mi lasciò andare, ma, ogni volta che dovevano piazzare la figlia di qualche personaggio importante nella scuola che stavamo costruendo, tiravano fuori la storia del processo. Pensare che, già dalla seconda volta che mi chiamavano per interrogarmi, gli operai erano venuti a testimoniare a mio favore. “Cosa volete? L’abbiamo già giudicato noi” dicevano; e gli altri rispondevano: “Ma non sapete che gli tiriamo fuori un sacco di soldi?” Alla fine si stancarono e non mi chiamarono più. Questo per dire della fiducia che c’era tra me e gli operai.
Ecco, è proprio questo che volevo chiederti: cosa pensi di aver lasciato a quella gente?
Questo me lo son chiesto tante di quelle volte... So bene cosa mi sono portato a casa, ma...
Beh, intanto molti hanno imparato a lavorare. Sono diventati dei bravi muratori. Tant’è che, quando me ne sono andato via, sono riusciti a trovare lavoro altrove. Avevano anche un libretto, tipo curriculum, in cui annotavano cosa avevano fatto, col timbro e tutto. Questo già bastava per trovar lavoro altrove.
C’era un maestro elementare che ogni settimana mi portava un cesto pieno di verdure che coltivava personalmente e io gli chiedevo: “Perché mi porti tutto questo?” Lui rispondeva: “Per ringraziarti che sei qui”. Io non lo conoscevo, non lavorava da me. Penso di averli trattati come avrei voluto essere trattato io. Ero esigente sul lavoro, spesso mi arrabbiavo, magari perché avevano finito male il lavoro la sera prima, e loro mi lasciavano sfogare e poi dicevano: “Buongiorno, buana!”. Perché avevo dimenticato di salutare prima di fargli la sfuriata. Incredibile, eh?
Sicuramente gli ho lasciato un po’ di speranza nel futuro.
Prima di andar via di là ho avuto a che fare con un Inglese che mi aveva sostituito per seguire dei lavori. Io facevo fatica a governare i miei, avevo l’impressione di non essere preso troppo sul serio, perché ho sempre trattato la gente in modo normale: con me erano come degli amici. Invece, forse per il retaggio coloniale dell’Inghilterra, lui li faceva, non so come, stare a dieci passi di distanza, sull’attenti. Quando si rivolgeva a loro aveva un tono diverso da come parlava con me o con altri Europei.
Però ti rispettavano.
Quando ho avuto bisogno di loro, mi hanno difeso.
Però quando sono tornato in Italia e lavoravo nei cantieri, i colleghi mi dicevano: “Guarda che, se fai così, gli operai non ti rispettano”.
Capito? Non avevo il tono del comando.
E invece cosa hanno lasciato loro a te?
La vita lì mi ha insegnato il tempo, per esempio. Per loro è importante la relazione, non hanno fretta. Loro vengono lì a salutarti. Inizialmente io gli offrivo il caffè, ma loro non andavano più via. Alla fine non gli offrivo nemmeno più il caffè (ride). E allora sai cosa facevano? Arrivavano con la birra!
Di lezioni me ne hanno date a iosa. Una volta gli ho buttato giù un pilastro perché l’avevano fatto da cani, e loro si sono offesi. Ma offesi veramente, per dei giorni interi. L’hanno rifatto più storto di prima. Perché, ho capito dopo, avrei dovuto fare l’osservazione e andarmene: salvaguardando così la loro dignità.
Infatti qualsiasi cosa gli dicessi, se stavo lì loro non la facevano: dovevo prima andarmene.
Per loro prendere ordini da un uomo bianco non era una bella cosa. Quando ci incontravamo per strada si toglievano il cappello per salutarmi, e allora anch’io, e loro ridevano…
Mi hanno insegnato a perder tempo. Perché in realtà parlare, come stiamo facendo adesso, non è davvero perder tempo. Soprattutto quando sei arrabbiato con qualcuno: bisogna fermarsi e guardarsi in faccia. Mi è servito dopo, con mia moglie e coi miei figli. Anche con loro avevo imparato che dovevo fare la mia osservazione e poi lasciarli: non umiliarli, stando lì a guardare che eseguissero.
Come è stato far nascere e crescere quattro figli in Africa?
In Africa far figli è la cosa più normale del mondo. Qui facciamo tante storie, ma lì l’attesa, il parto e tutto il resto si vivono con grande naturalezza. Una vola che ci eravamo presi una vacanza e avevamo lasciato i figli ad una ragazza del villaggio, al nostro ritorno erano tutti stupiti della fiducia che avevamo riposto in loro. In seguito venimmo a sapere che la ragazza che guardava i bambini organizzava dei veri e propri tour della casa per far vedere com’era una casa dei bianchi. Agli occhi dei bianchi eravamo invece degli incoscienti.
Quando siamo tornati in Italia il nostro secondo figlio, giunti sul lago di Como mi disse: “Guarda, papà. C’è una barca senza la coda (si trattava di un motoscafo). E c’è un bianco sopra!” Per lui noi non eravamo bianchi...
Ma alcuni avranno cominciato a studiare lì...
No. Le prime due, l’africana, la Piera e la Paola, son venute via due anni prima di noi. Le aveva accolte in casa sua un cooperante svizzero con cui eravamo in buoni rapporti. E dunque hanno fatto la prima e la seconda elementare in Svizzera. Ma nei cinque anni trascorsi in Africa hanno fatto in tempo, mentre io facevo fatica, ad imparare la lingua del posto.
Un particolare molto importante che vorrei segnalare è che in otto anni non abbiamo mai avuto problemi di soldi. Come ci era stato detto dal vescovo che ci aveva accolti. Da lì nasce l’idea della cassa comune: non avere niente ma non mancare di nulla.
Come è stato il rientro in Italia?
Il rientro è stato duro. Prima ho provato a lavorare con mio fratello nei trasporti. Poi ho provato a mettermi in proprio, con i risparmi che le suore africane ci avevano messo da parte, nella lavorazione della plastica. È durato poco e ci ho perso tutto. Ho tentato di tornare in cantiere come geometra. Ma non sono stato in grado di tenere il posto, perché le differenze di rapporto rispetto a quello a cui ero ormai abituato erano troppe. Per esempio, mi si accusava di non avere un tono sufficientemente autoritario quando mi rivolgevo agli operai.
Fu allora che mi venne proposto di lavorare per un’organizzazione di volontariato, di cooperazione internazionale, gestendo il servizio civile. Io dovevo trovare del lavoro perché queste persone, che sarebbero partite per il servizio civile, si procurassero da vivere mentre li addestravamo. Da lì ha avuto inizio la cooperativa che ora dà lavoro a un sacco di gente. È da allora che la mia famiglia si è allargata, perché alcuni non sono partiti e son rimasti con noi. E quelli che partivano e tornavano delusi, venivano alla cascina dove ci eravamo stabiliti. Quell’esperienza durò dal ‘73 al ’78 ed è stato il primo nucleo della comunità. Quei ragazzi erano quelli che fuggivano e ce l’avevano con tutti. Avevano letto Illich e volevano tutti fare la rivoluzione come Che Guevara.
E Villapizzone?
Dalla cascina siamo arrivati a Villapizzone, che allora era occupata ed era diventata un centro sociale. Era più o meno artisticamente decorata: comunque la ristrutturammo tutta. I ragazzi del centro sociale non vollero restare con noi, che avevamo il permesso del Comune. Ci separammo dalla cooperativa, perché intanto eravamo diventati più numerosi. Istituimmo la cassa comune e cominciammo a lavorare tutti insieme facendo traslochi, lavori di muratura, sgombero soffitte e prestazioni occasionali di quel tipo. Noi volevamo la libertà, non lavorare con il libretto. Lavoravamo per la sussistenza, non di più. Ma chi arrivava e voleva mangiare veniva a lavorare con noi.
Perché la cassa comune?
La cassa comune è la base di tutto. Se manca quella, manca la comunità. Se non c’è condivisione e fiducia, che senso ha tutto il resto, cioè vivere vicini e via dicendo?
La cassa comune non è una regola. Se fosse una regola, io non la vorrei. È un mezzo per vivere meglio. Se non serve allo scopo, meglio eliminarla. Come il matrimonio non è il fine della vita, ma un modo per vivere la vita. Io infatti non sono per la comunità, perché la comunità implica delle regole, ma per la comunione. Una volta che qualcuno si era messo a scrivere un libretto delle buone pratiche da osservare nella vita comunitaria, io gli ho chiesto perché l’avesse fatto e quale utilità potesse avere.
È chiaro che il passaggio da famiglia allargata e comunità è stato molto fluido, ma c'è stato un momento in cui questa esperienza di vita si è istituzionalizzata?
Nell’85 abbiamo dovuto scriverci all’albo come Associazione Comunità Villapizzone, con la possibilità di creare profitti per l’autosussistenza.
Come vi sentivate inseriti nel clima degli anni settanta, dopo il ‘68?
Le idee del ‘68 piacevano a tutti. Ma molti ce l’avevano con la famiglia, mentre io avevo moglie e cinque figli. Mi dissi: “Non demoliamo la famiglia, creiamo una famiglia alternativa”. Io cercavo una famiglia diversa da quella tradizionale, innanzitutto perché allargata. Nel frattempo infatti avevamo qualche bambino affidato dal tribunale dei minori e dai servizi sociali, e obiettori di coscienza. La prima affidataria fu una ragazzina che aveva tentato il suicidio.
Una volta che stavo facendo fare i compiti a un ragazzino delle medie che avevamo in affido, e lui non ne aveva voglia, mi si rivoltò dicendo: “Cosa vuoi tu, che non sei nemmeno mio padre? E poi guarda tua moglie!” Io allora gli chiesi: “Ma cosa ti ha fatto l’Enrica, che sei così arrabbiato?” Ma non mi volle dire nulla. Parlando con Enrica, venne fuori che non era successo nulla di particolare, ma ci vedevano come genitori “ad oltranza”. Lui, che era uno tradito ed abbandonato dalla famiglia, aveva paura che, se noi non andavamo d’accordo, sarebbe tornato in istituto. Con quella rivelazione salvò il nostro matrimonio. Lui voleva vedere un uomo e una donna che si amano, non degli educatori. In quell’occasione capimmo che è la coppia al centro della famiglia, non il figlio. Se va bene quella, va bene tutto.
Per costruire una famiglia diversa, abbiamo dovuto avere figli diversi. I nostri figli naturali si sono così liberati dal peso di genitori rompiscatole.
Quando sono arrivati i Gesuiti?
Subito, nel ‘78. Fu un incontro tra religiosi e laici, o addirittura atei, spesso duramente critici verso la religione. Fu lì che nacque l’idea del cancello sempre aperto: entra chi vuole, ma nel rispetto reciproco. Accettare tutti per quello che sono, purché si viva nel rispetto. I Gesuiti erano più che altro dei cordiali vicini, che, se volevamo, ci davano supporto spirituale. Trovando una stella delle Brigate Rosse disegnata sui muri, la fecero diventare una stella cometa. Noi abbiamo imparato da loro, e loro da noi. Io gli dicevo: “Voglio una vita felice, non una vita facile”. Loro ribattevano che bisognava definire meglio il concetto di felicità. Ci si metteva reciprocamente in discussione, e dal confronto si usciva sempre arricchiti. Loro non davano mai la risposta, ma ti aiutavano a metterti in discussione. Dicevano sempre: “Non sono importanti le risposte, ma le domande”.
Anche il senso della ricerca, che è fondamentale per la vita comunitaria, è stato sempre molto presente.
La convinzione comune era che bisognasse aiutare l’altro a realizzare la sua vocazione, non dargliene una diversa.
E il Cardinal Martini?
La prima cosa che ci disse, quando venne a cena da noi, fu: “Mi piacete perché voi coltivate la diversità. Non vi limitate ad accettarla, ma la coltivate”. Anche lui ci invitava sempre ad essere autocritici: a non limitarci a fare le cose, ma a chiederci sempre il perché.
Quando sono nate le altre comunità?
C’è stato un periodo di incubazione molto lungo: circa vent’anni. Solo nel ‘94 si è voluta creare un’altra comunità.
Dall’anno precedente molte persone chiedevano di essere aiutate a creare altri nuclei di comunità. Demmo dunque il nostro supporto come associazione per trovare una cascina a Castellazzo. Mi ricordo che trovai un’inserzione sul Corriere della Sera e chiamai subito. Dall’altra parte mi si chiese subito quanti soldi avessi, capendo che non ero facoltoso, e io risposi: “Un miliardo!”, che ovviamente non avevamo. Enrica, sentendo la mia risposata, ebbe un sussulto che la fece alzare di scatto dalla sedia. L’altro rispose: “Ma io ne voglio tre” e mise giù. Poi mi richiamò, dicendomi: “Ma allora vieni a vederla, la cascina?”.
Andammo a vederla, io e l’Enrica. Era perfetta. Tante case chiuse a villaggio, per proteggersi. Era esattamente quello che io avrei voluto come spazio comunitario. Il proprietario se ne accorse e non ci mollò più. Fortuna volle che proprio in quegli anni c’era una grossa crisi finanziaria e lui aveva bisogno di realizzare. Fatto sta che ci accordammo per un miliardo e mezzo. Io però non avevo assolutamente da darglieli, quanto meno subito e in contanti. Ma per un’incredibile coincidenza pochissimo tempo prima un conte, indirizzato dai servizi sociali, ci aveva offerto una villa dalle parti di Monza per farne una comunità per minori. Io allora non ero neanche andato a vederla, perché una villa non ci serviva. Ora invece la prendemmo per venderla e nel giro di pochi giorni ci trovammo per le mani il miliardo e mezzo che ci serviva. Ristrutturammo la cascina e così nacque la seconda comunità.
La terza nacque perché ci regalarono una casa di vacanze inutilizzata. Nel giro di qualche anno ce n’erano già sei o sette.
Perché nel 2003 nasce Mondo di Comunità e Famiglia?
Nasce per l’appunto per gestire sotto un’unica guida, non dico amministrazione, tutte le comunità che nel frattempo erano sorte. Per far sì che si possano ricondurre a un’unica idea. Nel nome ci sono tutti i principi fondanti: stare al mondo non da soli, nella libertà e nella responsabilità. L’associazione Comunità e Famiglia serviva per gestire i contratti, Mondo di Comunità e Famiglia gli ideali. Siamo aperti a tutti: sia quelli che vogliono dare senso alla loro vita sia quelli che vogliono fare vita di comunità. Ogni comunità economicamente è sovrana ma collegata in rete e solidale con le altre. Ciò che avanza dalle casse comuni viene usato per creare un fondo di solidarietà con le altre comunità. In base al luogo dove si forma, la comunità prende una forma diversa. Qua (Berzano) è sicuramente più contadina. Villa Pizzone è più cittadina. Se sorge a fianco di una chiesa, entrerà necessariamente in rapporto con l’oratorio. Le comunità creano comunità attorno a loro.
Quali sono i problemi che state affrontando adesso, dato anche che nel periodo in cui nasce la vostra esperienza il concetto di comunità era molto presente, anche se spesso usato ideologicamente?
Questa idea si è molto persa, è vero. Ma rimane comunque la necessità di essere in rete. Rimane la paura di restare soli. La crisi che stiamo vivendo ci mette di fronte a un bivio: o ognuno per sé e si salvi chi può, o mettiamoci insieme. Vedi le esperienze di cohousing o ecovillaggio, che però hanno il limite di voler eleggere un principio, come il mangiare sano, che regga l’esperienza di vita in comune. Mentre io penso che si debba vivere insieme per vivere meglio. Il resto deve essere una conseguenza.
Il problema che vedo all’interno della nostra organizzazione è che la vita comunitaria rischia di deresponsabilizzare la gente. È il pericolo principale, penso. Come quelle coppie che concentrano tutti i loro sforzi nella costruzione di una casa o nell’allevare figli: quando la casa è finita o i figli se ne vanno, si trovano a essere due estranei. Se si idealizza troppo una cosa, quando viene meno crolla tutto, e devi ricominciare da capo. Questo vale anche per la comunità. Bisogna sempre coltivare la ricerca. E questo viene stimolato dalla cassa comune e dall'accoglienza. Perché è rimettersi nelle mani degli altri, e accogliere qualcuno vuol dire rimettersi in discussione, perché il nuovo elemento stimola sempre a vedersi in un’ottica nuova.
C’è qualcuno che dall’interno mette in discussione la cassa comune?
C’è chi parla di alleggerire. Io rispondo che bisogna alleggerire l’ideologia, non eliminare ciò che permette di realizzare praticamente la vita comunitaria: ovvero per l’appunto la cassa comune.
È la fiducia che viene a mancare, ed è questo che porta a parlare di alleggerimenti. Conviviamo troppo facilmente con la sfiducia. Ma se la società civile è tenuta insieme dalla fiducia, i contratti e i vincoli giuridici non bastano a farci sentire sicuri.
Cosa si potrebbe fare per suscitare fiducia nella comunità?
L’anno scorso è stato promosso un incontro dal titolo Praticare la fiducia. Io ho contestato questo titolo perché la fiducia non è qualcosa che hai in tasca e tiri fuori quando ne hai bisogno, ma bisogna coltivarla momento per momento. Tutti sentiamo il bisogno di fidarci. Non possiamo essere felici se abbiamo bisogno di garanzie.
Data la situazione economica e i bisogni odierni legati alla mancanza di lavoro, non credi che il futuro della vita comunitaria sia nella creazione di entità produttive?
Non si può fare tutto tutti insieme. Bisogna distinguere comunità e lavoro. Il lavoro ha delle regole ben precise a cui bisogna sottostare perché sia efficace. Non ci si può abbandonare all’iniziativa personale di ognuno.
Il lavoro può essere produttivo o creativo. In comunità si privilegia il secondo, ma di norma è il primo a produrre il guadagno necessario a vivere.
Con quale scopo nasce la fondazione ICare?
ICare nasce per gestire le proprietà dell’organizzazione di cui è legalmente proprietaria. Serve inoltre per supportare le comunità nelle ristrutturazioni dei luoghi abitativi. I fondi stanziati per i progetti delle comunità devono essere restituiti alla fondazione.
Quello che vorremmo che diventasse è un sostegno per progetti validi esterni a Mondo di Comunità e Famiglia.