Spogliarsi del paradigma storico

Scritto da Cristiana Cattaneo.

Assisi 1986L’insediamento di un nuovo Pontefice, il Vescovo di Roma che guida la cattolicità del mondo intero, ha un riflesso profondo su tutta l’umanità, non solo perché il mondo è connesso dalla rete mediatica, ma proprio in virtù della sua estesa secolarizzazione. La forza e la bellezza della ritualità perpetuata nei secoli, l’intensità della preghiera e dell’affidamento alla volontà divina per accedere a decisioni attinenti il mondo, nonché lo spettacolo dell’intensa devota partecipazione di folle di fedeli sono messaggi che toccano le corde spesso scoperte e dolenti della fiducia, del rispetto, della remissione di ciò che è semplicemente umano a ciò che trascendendolo gli resta però sempre presente, a differenza di quella trascendenza orizzontale che proiettando bene e salvezza nel futuro obbliga l’uomo a una vita di pura strumentalità.

Nel breve volgere di trenta giorni, ci siamo dovuti interrogare, al di là delle reazioni di ciascuno, sull’atto sorprendente delle dimissioni di Papa Benedetto XVI, siamo stati obbligati a meditare, ad ascoltare, a capire le ragioni, a dislocare il nostro  punto di osservazione, a sfiorare la grandezza di umiltà e saggezza di quel gesto. I credenti poi si sono affiancati alla preghiera di Benedetto rimettendosi come lui a Cristo, il vero Conduttore della barca di Pietro, mentre il mondo rimaneva anch’esso sospeso, senza potersi staccare da tanto evento. E poi il nuovo, subito straordinario Pontefice, come a rispondere alle più profonde, inesplicate attese dei cuori. Le attese che oggi, nel linguaggio semplificato che ottunde appunto i cuori e le menti, non sanno più esprimersi: umiltà e fermezza, severità e bontà, potere e servizio, insieme, l’un termine indissolubile dall’altro. Così come non si sa più da molto tempo capire la continua novità della tradizione e la vitalità della fedeltà alle radici.

 

C’è intesa tra le grandi anime, e, tra gli altri capi religiosi, il Dalai Lama ha subito reso omaggio al suo fratello in un’altra fede, ben consapevole delle espressioni dello Spirito, e ben consapevole, come ha sempre affermato, che ogni tradizione è per così dire assoluta, e tuttavia le vie dello Spirito possono reciprocamente fecondarsi, senza che questo significhi la riducibilità dell’una all’altra, oppure sincretismo, o ancora licenza  consumistica di spigolare disinvoltamente dalle culture e dalle spiritualità, scegliendo a proprio capriccio come al supermercato. Rivolgendo invece a ciascuno l’invito a radicarsi sempre meglio nella propria religione, egli non solo ha manifestato la premessa indispensabile ad ogni atto di vera conoscenza delle religioni altrui, ma anche di fatto avvalorato l’esortazione accorata di Papa Benedetto a guardarsi dal relativismo, minaccia gravissima per l’umanità. Nello stesso tempo ha espresso un universalismo che, profondamente rispettoso dell’”assolutezza” di ogni tradizione, non si fa storico, ma resta propriamente metafisico.

Forse si tratterebbe, anche qui in Occidente, di relativizzare finalmente la storia, riconoscendo che varie vicende e tragitti dei popoli rappresentano identità differenti che non andrebbero ricondotte ad un assoluto unitario, ma piuttosto lette ciascuna nel complesso alfabeto del proprio percorso. Proprio come la vita di ciascuna persona, o come ogni lingua madre. Fermo restando che le vie autentiche dello Spirito, espresse in ciascuna tradizione, e per analogia quelle della morale, convergono sempre intorno al progressivo riconoscimento della Verità, che è una. Perché una è la luce che può risplendere attraverso differenti lampade, che pure differenti rimangono.

Dico ciò, perché il problema che si pone con urgenza alla Chiesa di oggi è quello già impostato ad Assisi dal Beato Giovanni Paolo:  il rapporto con le altre fedi religiose. Tema a cui tanti uomini di buona volontà lavorano non certo solo da oggi, ma che incontra alcune difficoltà di fondo a mio avviso relative alla concezione della storia che sia la Chiesa sia il mondo moderno hanno ereditato dalla romanità.

 

Polibio, nel secondo secolo a. C., configurò un paradigma della storia universale, in cui tutti i popoli e le vicende concorrevano a diversi gradi nella costituzione di un disegno che nell’Impero troverà il suo apice e la sua risoluzione, giustificando con ciò quell’aggregazione e quella unificazione che veniva realizzandosi sotto le specie della conquista e della sottomissione a Roma. Ebbene, questo schema non fu perduto, come tanti altri retaggi della civiltà latina, dalla Chiesa, nel corso di quei secoli in cui essa, nel fragore delle invasioni barbariche e nel silenzio dei monasteri, intesseva lentamente l’Europa, e riemerse con particolare intensità con quell’Umanesimo intriso di mondo e di politica che con tanto entusiasmo trovava ispirazione nella riscoperta di Roma. Quel modello universalistico sostenne dunque poi la dilatazione coloniale dell’Europa cristiana, trovando nell’ideale cristiano quell’unità necessaria che l’Europa delle divise potenze non presentava sul piano politico, a differenza  dell’Impero Romano.

Quando poi, con l’autonomia ideologica degli stati, a quel punto affrancati dalla necessità del ricorso all’ideale religioso per contenere e indirizzare le popolazioni, la Chiesa fu emarginata dalle sfere politiche autoimpostesi alla vita, il nostro paradigma storico universalistico conobbe un rilancio inaudito con le correnti di pensiero illuministico, che in nome della ragione umana semplificò radicalmente la visione della storia nei termini di una scalata indefinita del dominio dell’uomo sulla natura tramite il progresso della tecnica e l’accumulo di conoscenze a questa connesse. L’Ottocento deificò letteralmente la storia, concepita come necessario piano di sviluppo vuoi della ragione, vuoi dell’uomo universale, e la scienza positivista finì per coronare l’intera visione, trionfalmente sostenuta dalla rivoluzione industriale, con la dottrina evoluzionistica, che proponeva all’interno delle dinamiche stesse della vita biologica la giustificazione di quella organizzazione sociale e di quella storia.

 

Nel frattempo la Chiesa a sua volta non si sbarazzava di quell’ideale universalistico della storia a maggior ragione, dovendo difendere il senso della tradizione e della religione in una società sempre più violentemente secolarizzata, nonché la sua propria diffusione nel mondo attraverso e a seguito di un fenomeno così conturbante quale la colonizzazione. Anzi, si sforzò in taluni casi di assecondare quanto il mondo scientifico andava affermando, reinterpretandolo con magnifica teologia. Questo perché la Verità ultima non si cura della tortuosità delle vie.

Ma in tal modo, il paradigma di una storia universale, in cui devono trovare posto, in scala necessariamente progressiva, tutte le culture e le realtà storiche, deprivate del loro intimo significato specifico, ha caratterizzato violentemente il monopolio culturale dell’Occidente, autorizzato persino a disfarsi, in nome del progresso, della sua propria tradizione, a presentarsi con le fauci spalancate della tirannide economica e dell’ideologia dello sviluppo. Il che ha reso l’Occidente inviso ai popoli, e spesso anche la Cristianità che l’accompagna, in quanto i principi di tolleranza, libertà, autodeterminazione e dialogo, vanto della nostra civiltà, sono pesantemente condizionati dal presupposto in ultima analisi razzista, o quanto meno riduzionista, intrinseco alla visione della storia di cui siamo portatori.

Il problema per la Chiesa mi sembra insieme più complicato e più semplice. Più complicato per la mole della riflessione teologica che spesso lega l’escatologia alla storia universale umanamente concepita; forse più semplice, perché proprio il ricorso allo straordinario patrimonio della  tradizione le permette  di compiere riletture della storia stessa che, mettendo sì in forse alcune scelte ed affermazioni della Chiesa, non compromettono in alcun modo l’alto senso del suo esistere ed operare. Al contrario del mondo secolarizzato che, con la messa in discussione del modello storico tuttora dominante al quale ha vincolato la propria identità, potrebbe sentirsi annichilito, essendosi inoltre precluso il ricorso al bagno di rinnovamento nella propria  tradizione.

 

Se è vero quanto dico, solo la Chiesa può allora attuare un vero cambio del paradigma storico, che rappresenterebbe non la spogliazione della propria identità mondana, non cioè il disconoscimento della propria storia e di quanto in essa va letto di identitario e di provvidenziale insieme, ma di quelle pretese universalistiche che vi si connettono, perché l’universale metastorico che irresistibilmente nella Chiesa si esprime è unicamente Cristo, il vero, l’unico Signore della storia.

Un spogliazione degna di quell’anima della Chiesa che si chiama Francesco.

 

Concluderei accogliendo la prima omelia di Papa Francesco in occasione della messa celebrata coi cardinali il giorno successivo al suo insediamento, in cui, commentando le letture del giorno, sottolinea come la presenza dell’uomo sulla terra sia caratterizzata dal movimento e precisamente dal camminare: se ci si ferma significa che qualcosa non va; dall’edificare: facendo ben attenzione a edificare sulla roccia, e non i castelli di sabbia del proprio autocompiacimento; dal confessare: solo il riferimento costante alla trascendenza presente, che per i cristiani è Cristo, ci salva dalla perdizione dell’autoreferenzialità, dando senso al nostro esistere ed agire; e solo l’accettazione della fatica, del dolore, della rinuncia a se stessi, che per i cristiani è la Croce, ci fa discepoli del Signore, ovvero partecipi della Fonte del senso della vita.

Parole che  hanno un significato profondo non solo per i cardinali a cui erano rivolte, reggitori del popolo cristiano; non solo per i fedeli, cristiani e di altre religioni, testimoni di quella speciale conoscenza che è la fede; ma per tutti gli uomini, credenti e non credenti, ciascuno responsabile per la propria vita e, piaccia o meno, per le altrui.

 

 

 

 

 

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