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Economia e religione

ermis segattiNella visione del nostro mondo occidentale per diverse ragioni il fattore economico, diversamente presente e rilevante in ogni civiltà, operò un salto di qualità a livello di significato e orientamento mai prima esperito da altre civiltà nel corso della storia.

Si sostenne che per capire alla radice tutto dell’uomo, della sua storia, dei suoi valori occorreva leggerne il fondamento precisamente nella sfera economica: da essa unicamente non solo si poteva riuscire a capire ‘infine’, ‘in ultima analisi’, ogni cosa, ma da essa partendo si doveva ormai impostare qualunque progetto del vivere sociale e individuale.

La spinta iniziale di questo movimento epocale era - alle origini - una possente carica di messianismo perché nasceva e portava con sé anche la volontà di emanciparsi dalla miseria millenaria (e tale potente motivazione si percepisce ancora in alcune regioni del mondo). Era pure alimentata da un anelito di giustizia e di verità nei rapporti sociali, che generò una straordinaria energia di dedizione alla liberazione dell’uomo da ogni forma di schiavitù. E ispirò trasformazioni profonde, animò rivoluzioni e riforme in cui le pianificazioni economiche assunsero una centralità impressionante come punto di riferimento e ultima parola nell’orientare la vita di miliardi di esseri umani.

Ma dentro questo percorso si avvertì che affioravano alla superficie con sempre maggiore forza altri rimandi e richiami che nel tempo presero il sopravvento e trascinavano in una sorta di vicolo cieco le spinte ideali che all’origine pure avevano animato la scoperta delle potenzialità insite nella gestione e nella comprensione delle immense risorse economiche infine disponibili all’umanità dai sistemi di produzione, dalle nuove conoscenze e  dalle tecnologie in campo.

Il primo è appunto la centralità della questione economica nella visione della società come priorità assoluta nella soluzione dei suoi problemi, priorità assoluta che si svelava a sua volta un problema. Da centralità essa si era trasformata in una prospettiva esclusiva ed escludente altre dimensioni del vivere sociale e della coscienza. Per semplificare: tutto deve ridursi a produzione, funzionalità economica e sfruttamento teso al massimo dell’efficienza, a operazioni miranti all’incremento illimitato dei profitti, insomma ad una crescita sempre più guidata da una monotematica ossessiva e nello stesso tempo cieca e accecante. A quale scopo? Precisamente a mantenere alto il livello della produzione e del rendimento economico che ne consegue.

Una sorta di avvitamento attorno allo strumento che diviene fine. Con la violenza che ne consegue, tale da non consentire di far valere altro orizzonte all’infuori della sua logica, autoproclamandosi fine e mezzo nello stesso tempo, di fatto imponendo mezzi relativi come fini assoluti.

Ma ciò avvenne e avviene anche per altri rimandi e campanelli d’allarme, i quali erano sin da principio insiti nella svolta epocale di cui sopra, naturalmente dentro la ben più vasta civiltà dell’occidente, poiché non tutto della civiltà occidentale si legge e rientra nella spirale della visione totalizzante del fattore economico.

Il primo segnale era ed è quello del benessere globale quale promessa ovvia al seguito dello sviluppo economico. Non una promessa qualunque, ma come inesauribile felicità. Dentro lo sviluppo economico prese infatti  corpo la metafora così efficacemente dichiarata dal rovesciamento della visione religiosa: si sarebbe potuto pensare al paradiso non più in cielo, ma toccarlo e goderlo qui in terra. Fu detto: gli uomini hanno fino ad oggi coltivato il sogno di una cosa che alla buonora, avendola infine in pugno, non avranno più necessità di sognarla.

Qui sta una delle ragioni della secolarizzazione. Essa è sì diretta a staccarsi da una condizione di ‘cristianità’ generalizzata, magari anche ‘slavata’ nel tempo, ma essa voleva anche dichiarare che la religione non sarebbe più stata necessaria allo sviluppo dell’umanità. Ormai altro avrebbe adempiuto ogni attesa ed esigenza: l’uomo bastava a se stesso. A che cosa sarebbe ancora ‘servito’ Dio? La peggiore ‘colpa’ che la nuova prospettiva addebitava a Dio era precisamente che egli fosse inutile. Dunque, non essendo utile, diveniva necessariamente anche superfluo o, al limite accessorio.

E così affiorava un ulteriore segnale di come stava orientandosi una tendenza della nostra civiltà occidentale: se non sei utile semplicemente non esisti. Da qui il diffondersi dell’ateismo militante materialistico di principio, il quale dava per scontato che il futuro non avrebbe più avuto ‘bisogno’ di Dio, una volta soddisfatti tutti i bisogni primari; soddisfatti i quali – si sosteneva – l’uomo avrebbe appagato ogni altra dimensione fino ad allora ritenuta appannaggio della sfera spirituale.

E, ancora, si evidenziava un altro rimando sotteso alla svolta epocale: non solo la religione e il suo fondamento principale venivano dichiarati superflui, ma paradossalmente, però di fatto, ciò che restava dopo di loro prendeva i tratti dell’assoluto. Nasceva il rischio di una sorta di crescente politeismo sotto forma di religione civile dalle molte sfumature, il vivere sociale si caricava di valenza assoluta  in tutte le sue componenti: tali divenivano l’economia, appunto, la politica, la scienza, fino alla moda fino - perché no? -  ai consumi e a ‘me’ come bene di consumo. 

Che altro chiedere? Avresti osato, oseresti parlare di anima?  O di coscienza? O di bene e di male?

Ciò detto, lo svuotamento e la deflagrazione della grande promessa non esaurì, non esaurisce, comunque, l’orizzonte vasto e profondo della coscienza. Da sempre si levò e si leva una forte e legittima obiezione di merito contro la sua esorbitante pretesa.

Non negando, certo, ciò che l’economia significa, ma affermandone semplicemente la grande, ma sempre relativa importanza e ponendola in connessione con altre istanze del nostro essere uomini individui e società.

In questo ci aiuta precisamente la religione, che quando afferma il vero Assoluto non lo pone in mano di altro o di nessuno, lo sottrae da ogni pretesa di idolatria.

Questo dunque il primo compito della religione a fronte dell’economia: sottrarre l’economia dalla sfera pseudo divina che ha assunto nel corso della nostra storia, specialmente occidentale, e poi per irradiazione anche a livello planetario.

Inoltre, non ultimo, il compito di ridare consistenza spirituale alla religione, perché, nella sua tensione e nella sua rivendicazione della dignità mai strumentale dell’uomo, non sia essa stessa vuota di etica e di spiritualità, povera nella sua radice e sorgente primaria di rapporto criticamente vigile con il suo Assoluto, cioè Dio; e non si comprometta essa stessa in altri rapporti, compresi quelli economici. Per poter essere a sua volta coscienza critica e ispiratrice di etica nei confronti della sfera economica e dei sistemi che elabora nel tempo.

Nel rapporto tra economia e religione se - dunque - da un lato un compito essenziale spetta specificamente alla religione nel demistificare i falsi dèi con cui si maschera l’economia, occorre del pari che la religione non cessi di alimentare la sua vocazione etica e spirituale: in questo manifesta la sua più alta ‘utilità’ anche per l’economia nelle differenti condizioni storiche date.

 

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