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HENRI LE SAUX (SVĀMĪ ABHISHIKTĀNANDA)

 

Un incontro con l’India

 Paolo Trianni

 

Il 26 luglio 1948 Henri Le Saux si imbarcava a Marsiglia con lo scopo di dare fondazione in India al primo monastero benedettino rispettoso delle sue tradizioni ascetiche e religiose. Iniziava così un’avventura teologica e spirituale che si è poi rivelata senza eguali nella storia del cristianesimo. Egli, infatti, diverrà il primo prete cattolico che abbia fatto l’esperienza mistica del samādhi, ovverosia quella condizione di raccoglimento e liberazione interiore che simboleggia il traguardo realizzativo a cui tradizionalmente mira l’intera ascetica indù.

Nato il 10 agosto 1910 in un piccolo borgo della Bretagna affacciato sull’oceano, Saint-Briac-sur-Mer, Le Saux proveniva da una famiglia di ferventi cattolici che vantava, ad esempio, anche uno zio missionario in Cina. Dopo gli studi in Seminario, all’età di diciannove anni, aveva deciso di entrare nell’abbazia benedettina di St.-Anne di Kergonan, dalla quale, fatta eccezione per una breve parentesi durante la guerra, non si era mai allontanato. Qui, infatti, aveva ricevuto la sua formazione, e qui aveva trascorso serenamente vent’anni di vita monastica arrivando a svolgere incarichi importanti, quali il bibliotecario o l’insegnante di storia della Chiesa per i giovani novizi.

All’epoca della partenza, dunque, Le Saux era un benedettino trentottenne con varie esperienze monastiche alle spalle, che da poco aveva ottenuto il permesso di esclaustrazione e la cui fede rifletteva necessariamente l’impronta tradizionalistica ricevuta negli ambienti delimitati e consuetudinari del monastero. Tale aspetto della sua personalità umana e religiosa è appunto un particolare da sottolineare, perché ad attenderlo in India avrebbe invece trovato un prete lionese che aveva ricevuto una formazione molto più aperta della sua, Jules Monchanin. Questi, infatti, prima di lasciare la Francia, alcuni anni prima, nel 1939, aveva frequentato i più progressisti ambienti teologici lionesi e parigini, e si era guadagnato il rispetto e l’amicizia di personaggi del calibro di Henri de Lubac, Sergej Bulgakov, Louis Massignon e Teilhard de Chardin. Prima ancora dell’India, cioè, o insieme ad essa, il religioso bretone ha incontrato questo prete lionese che per la sua formazione divenne tanto importante da continuare a dirsi, anche molti anni dopo la sua morte, discepolo di padre Monchanin. Con lui il 21 marzo 1950, festa di San Benedetto, fondò appunto il primo monastero benedettino costruito sul modello dell’āshram indiano. In quella occasione egli prese a indossare la kāvi, la veste di colore arancione dei rinuncianti indù, assumendo anche un nome monastico sanscrito: svāmī Abhishikteshvarānanda, poi accorciato in Abhishiktānanda, termine che significa «Colui la cui gioia è l’Unto del Signore», iniziando così, insieme al compare, una vita poverissima del tutto simile a quella dei samnyāsin, i monaci mendicanti dell’India.

Già a partire dai primi anni Cinquanta, però, l’assenza di vocazioni autoctone, alcune incomprensioni con Monchanin e soprattutto l’intimo bisogno di immergersi più profondamente nelle spiritualità indù lo indussero a lasciare il monastero, abbandono che divenne definitivo alla morte del compagno, nel 1957. Egli, cioè, finì con l’optare per una vita itinerante del tutto simile alle consuetudini monastiche indiane. Al di là di tale scelta, tuttavia, Abhishiktānanda si deve comunque considerare l’iniziatore di una sampradāya monastica indo-cristiana, cioè di un innovativo lignaggio spirituale che ha saputo congiungere la tradizione benedettina con quella indù. Ciò è tanto più vero in ragione del fatto che, allontanandosi da Shāntivanam, chiese a un monaco inglese, Bede Griffiths, di succedergli e di prendere le redini del monastero; questi lo affiliò poi all’ordine camaldolese, che conserva ancora oggi l’eredità teologica e spirituale di tutti e tre i suoi fondatori.

Durante la restante esistenza indiana, nella quale intervallò vita itinerante e vita eremitica, il religioso francese viaggiò molto collezionando incontri ed esperienze diverse. Alcune tappe, a questo riguardo, rimangono fondamentali, come l’incontro con un guru indiano, svāmī Gñānānanda, e i soggiorni nelle grotte di Arunācala, una montagna sacra a Viva dell’India del sud, o il pellegrinaggio alle sorgenti del Gange, che egli compì insieme a Raimon Panikkar, teologo destinato a divenire tra i più discussi e innovativi degli ultimi decenni, il cui pensiero, in verità, riverbera spesso l’esperienza spirituale dell’amico bretone e le sue intuizioni mistiche.

A partire dal 1972 lo raggiunse nel Paese indiano un seminarista francese con cui era in contatto epistolare da tempo, Marc Chaduc, che divenne suo discepolo e con il quale condivise austerità ed esperienze ascetiche intensissime. Anche a causa di esse, il 14 luglio 1973, il benedettino bretone fu colpito a Rishikesh da un infarto coronarico, a cui seguì, però, misteriosamente, un risveglio spirituale che determinò in lui un costante stato di beatitudine mistica che lo ha accompagnato fino alla morte, sopraggiunta a Indore il 7 dicembre dello stesso anno.

Il tortuoso percorso esistenziale e religioso appena riassunto ad ogni modo si deve abbinare a una ricerca teologica ancora più contorta e tormentata. Già poco dopo il suo arrivo in India, infatti, egli si rese perfettamente conto di quanto fosse difficile coniugare il cristianesimo con l’induismo. Le Saux, cioè, divenne vieppiù consapevole di quanto il suo progressivo coinvolgimento nell’ascesi indù fosse teoricamente inconciliabile con gli insegnamenti della Chiesa, e ciò, già nei primi anni Cinquanta, lo gettò in una profonda crisi interiore. L’intera parabola della sua riflessione teologica, da questo punto di vista, riflette esattamente lo sforzo incessante da lui compiuto per cercare di coniugare in un unico cammino spirituale tesi religiose tra loro irriducibili. L’India, del resto, rappresenta una formidabile ed inestricabile sfida concettuale anche perché, non avendo un’autorità religiosa centralizzante, ha espresso non uno ma molteplici indirizzi metafisici, che sono in contraddizione non solo con le dottrine cristiane, ma, spesso, anche tra di loro. Abhishiktānanda, per portare degli esempi concreti, ha dovuto calarsi in un quadro filosofico dominato dalla contrapposizione tra Mīmāmsā e Uttara Mīmāmsā: due scuole che indicano percorsi opposti nella realizzazione del divino. La prima, infatti, si fonda sulla centralità ineliminabile del rito, mentre la seconda, che ha per protagonista Shankara, il massimo filosofo dell’India, ed è comunemente denominata anche Advaita Vedānta, si basa invece sulla necessità di superare ogni forma di ritualità, dogma e finanche concezione personale di Dio. Quest’ultima corrente filosofica, in virtù dei suoi asserti di fondo, professa appunto la non dualità (advaita) tra ātman e brahmam, cioè tra l’essenza dell’uomo e quella del divino, giudicando meramente apparente e illusoria la distanza che li distingue. Egli, in altre parole, durante il soggiorno indiano ha dovuto costantemente confrontare la sua fede cristiana di provenienza con il relativismo, l’idealismo e il monismo tipici di questa scuola che esprime l’essenza stessa della fede indù, così come con il realismo dualista della dottrina atea che gli si oppone, il Sāmkhya, dal quale tra l’altro discende lo Yoga.

È facile comprendere, quindi, anche soltanto da questi brevi accenni, la complessità del suo confronto con l’India, che è stato filosofico prima ancora che teologico e spirituale. Da questo punto di vista, come si diceva, Abhishiktānanda ha scritto una pagina unica nella storia del cristianesimo, che, nonostante le ambiguità, non manca di affascinare coloro che si accostano ai suoi scritti. L’esperienza di cui egli dà testimonianza, infatti, è degna di attenzione perché completa, essendo non soltanto concettuale ma anche esistenziale, dal momento che ha sperimentato in prima persona le tecniche ascetiche yogiche e ha vissuto, da cristiano, in āshvram come quello di Rāmana Mahārshi o Gñānānanda, due dei più famosi maestri indiani del neoinduismo. È esattamente questa doppia identità, quindi, la connotazione che rende la sua figura e la sua esperienza un modello di riferimento, sia per la missiologia che per il dialogo interreligioso, specialmente quello monastico.

La dimensione teologica del suo percorso religioso, tuttavia, così come quella mistica, nonostante il rilievo incisivo che comunemente le si riconosce, devono ancora essere studiate adeguatamente. Lo richiede la notorietà crescente della sua figura, che non può essere imitata senza una griglia di opportuno approfondimento critico, ma soprattutto lo esige quell’articolata costruzione concettuale attraverso la quale ha connesso l’induismo col cristianesimo. Le Saux, infatti, nella sua opera teologica più rappresentativa e sistematica, Sagesse Hindoue, mystique chrétienne: du Vedanta à la Trinité, pubblicata in italiano con il titolo Tradizione indù e mistero trinitario, dimostra di aver raggiunto una sorta di accomodamento sintetico tra le due tradizioni religiose e di aver superato, almeno in parte, quella lacerazione interiore che, come si diceva, ha segnato i primi anni del suo soggiorno indiano. Egli, per essere precisi, a metà degli anni Sessanta, sembra essere arrivato a un incontro armonizzante tra un certo tipo di cristianesimo – soprattutto il neoplatonismo cristiano, Teilhard de Chardin e la mistica renano-fiamminga – e un certo tipo di induismo – soprattutto l’Advaita Vedānta, corretto, però, da apporti provenienti da un’altra metafisica su cui ci soffermeremo, il tantrismo. Di tale soluzione conciliativa il presente saggio cercherà appunto di analizzare i mattoni concettuali e i passaggi logici fondamentali, sebbene vada precisato che un’analisi dell’amalgama interreligioso da lui proposto, al di là della complessità generale dei temi che esso coinvolge, incontra due ulteriori generi di difficoltà non facilmente eludibili.

La prima è quella dovuta alla differenza di tono, ma anche di contenuti, che distingue i diari e le lettere private dalle pubblicazioni ufficiali. Tra i due tipi di testo, cioè, ci sono differenze che non dipendono soltanto dal genere letterario, ma dal fatto che, per esempio, specialmente nei suoi taccuini personali, egli ha espresso i propri convincimenti in modo molto più libero, e questo in ragione del fatto, come precisava egli stesso, che alcune delle riflessioni in esso contenute si devono considerare delle semplici ipotesi di lavoro che non riflettono necessariamente le sue convinzioni ultime. Prendendo atto di queste particolarità, in altre parole, persiste una difficoltà pregiudiziale a stabilire quale sia l’autentico pensiero teologico di Le Saux.

La seconda problematicità, ancor più gravida di conseguenze della precedente, consiste nel fatto che Abhishiktānanda, nelle ultime settimane di vita, dopo uno sforzo teologico durato un quarto di secolo, di cui, come dicevamo, il frutto maggiore è stato Sagesse, sembra aver ritrattato l’architettura concettuale che fa da sostegno alle tesi del libro. In seguito al risveglio mistico del 14 luglio 1973, in altri termini, egli rimise in discussione quanto precedentemente acquisito, facendo così sorgere il problema dell’unità della sua opera teologica e della continuità o discontinuità dei suoi scritti.

Il saggio che presentiamo, in definitiva, tenendo conto delle particolarità appena menzionate, intende appunto ricostruire, dare ordine sistematico e interpretare criticamente l’articolato cammino teologico e spirituale compiuto dal benedettino bretone in India. Al fine di superare le difficoltà interpretative menzionate, perciò, daremo ampio spazio all’individuazione delle sue fonti, sia cristiane che indù, illustreremo i luoghi dove egli ha vissuto, spiegheremo chi sono i personaggi da lui incontrati, e infine faremo un’analisi del pensiero teologico e dell’insegnamento spirituale di cui si è reso protagonista, approfondendo, in particolare, i risvolti specifici della sua esperienza mistica finale.

In ottemperanza a questa linea di studio, il libro si divide in tre sezioni. Nella prima parte, dedicata appunto alle fonti teologiche di Le Saux, e quindi al suo specifico cristianesimo di riferimento, indagheremo il pensiero di quegli autori che sono entrati strutturalmente nella sua opera. Tra di essi ha una posizione di riguardo il compagno Monchanin, ma anche Gregorio di Nissa, Teilhard de Chardin, i renano- fiamminghi e Brahmabāndhav Upādhyāya, senza approfondire la teologia dei quali, a nostro avviso, gli scritti del bretone risultano sostanzialmente incomprensibili.

Nella seconda si farà invece un’inquadratura espositiva del percorso ascetico e realizzativo compiuto da Abhishiktānanda in India, esaminando non più le fonti cristiane ma quelle indologiche. Prenderemo in esame, cioè, le dottrine metafisiche indù e in particolare gli insegnamenti dei personaggi da lui incontrati, così come il valore spirituale che le scritture indiane attribuiscono ad alcuni dei luoghi dove egli ha vissuto, come la montagna di Arunācala o le rive del Gange. Questa sezione, inoltre, permetterà di fermare l’attenzione sulla particolare formula monastica vissuta nell’āshram di Shāntivanam, e, in generale, sul modo in cui Le Saux ha vissuto la chiamata al samnyasin, il dialogo interreligioso e l’ascesi tipica dello Yoga.

La terza parte, infine, necessariamente più ampia, sarà invece dedicata specificatamente all’analisi del suo pensiero teologico. Verrà approfondito nel dettaglio, infatti, il suo tormentato rapporto con la religiosità indù e lo sforzo sofferto per addivenire a una armonizzazione con il dogma trinitario cristiano. Cercheremo di dimostrare, a questo riguardo, come la ricerca finale del monaco benedettino si sia orientata non più verso l’Advaita Vedānta di Shankara, ma bensì verso un induismo impregnato di nozioni tipicamente tantriche, e proprio su di esse abbia impostato la sua più matura ipotesi di sintesi tra cristianesimo e induismo.

Il dialogo osmotico con le incongruenti fedi filosofiche e religiose dell’India, del resto, ha finito con l’incidere e modificare non poco la sensibilità teologica del monaco francese. A questo riguardo, per esempio, dedicheremo approfondimenti peculiari all’influenza che le dottrine indiane hanno esercitato sul suo apofatismo di fondo, e, soprattutto, sulla sua cristologia. In particolare, però, esamineremo e cercheremo di interpretare gli esiti mistici dell’ascesi interiore da lui praticata nella sua terra d’adozione. Abhishiktānanda, proprio in conseguenza di tali esperienze estatiche, infatti, come si accennava, nelle sue ultime annotazioni incominciò a ripensare radicalmente il mistero di Cristo e in generale tutta la sua concettualizzazione religiosa precedente. Di ciò, appunto, qualsiasi studio sul benedettino bretone deve tenere conto, sebbene i testi da lui pubblicati antecedentemente non perdano certamente di valore e importanza teologica. In ogni caso, questa tendenza esplicita dei suoi ultimi scritti tesa a ripensare la costruzione sistematica a cui si era adoperato nei venticinque anni precedenti è rimasta sostanzialmente incompiuta con il sopraggiungere della morte, e ciò, appunto, complica ulteriormente e rende aperte e molteplici le interpretazioni che è possibile dare alla sua teologia mistica.

Quello sommariamente riassunto, dunque, rappresenta l’itinerario intellettuale e spirituale sul quale il libro intende fare chiarezza. Un tale impegno, a cent’anni dalla nascita, appare quanto mai opportuno, anche perché, come si accennava, la crescente popolarità del personaggio stona con la carenza di rigorose ricostruzioni analitiche. Una ricerca tesa a chiarire le radici, le prospettive e i corollari del suo cammino religioso, inoltre, è tanto più necessaria nella misura in cui questo monaco francese è una figura destinata ad avere una sempre maggiore rilevanza nella storia teologica contemporanea. Proprio le sue idee, per esempio, fanno da sfondo ai recenti dibattiti che hanno coinvolto teologi eminenti come Raimon Panikkar o Jacques Dupuis, le cui posizioni si possono appunto comprendere pienamente solo tornando al benedettino bretone. Del resto, pare un’ovvietà il dare sottolineatura al fatto che lo sviluppo del cristianesimo indiano ben difficilmente riuscirà a prescindere dal confronto critico con il suo pensiero e la sua esperienza, così come non possono certo evitarlo coloro che, in Occidente, sono attratti dall’India e dalle pratiche ascetiche della sua antica spiritualità.

Le Saux, dunque, si deve considerare un personaggio chiave nella storia teologica del Novecento, il cui singolare destino, però, è quello di rischiare un duplice fraintendimento: da parte dei cristiani e da parte degli indù, o simpatizzanti tali. Abhishikānanda, cioè, corre il pericolo di essere equivocato dai primi, che si dividono tra chi ne interpreta la teologia in chiave dogmatica e chi, all’opposto, la considera relativista; e dai secondi, che egli ha il merito di avvicinare o riavvicinare al cristianesimo, ma che tendono spesso a esagerare il suo coinvolgimento nello Yoga e nel Vedānta. Al di là di ciò, se la complessità e la ricchezza umana, spirituale e teologica di questo monaco bretone è giunta fino a noi, lo si deve ai molti che gli furono amici o che ne hanno raccolto l’eredità, come Raimon Panikkar, Murray Rogers, Bettina Bäumer, Joseph Lemarié, Odette Baumer-Despeigne, George Gispert-Sauch, Serge Descy e altri ancora. A loro, appunto, a prescindere da ogni valutazione dottrinaria sui contenuti dei suoi scritti, deve sicuramente andare un tributo di riconoscenza.

 

 

Paolo Trianni è docente alla Pontificia Università Gregoriana e al Pontificio Ateneo S. Anselmo. Il testo riproduce l’introduzione del libro appena uscito ‘Henry Le Saux (Abhishikāananda): un incontro con l’India’, Jaca Book, Milano 2011, pp. 7-14

 

 

 

 

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