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Note per una “Teologia dell’interdipendenza”

CusanoStudioso di filosofia e seguace dell’indirizzo Vangelo e Zen, il punto di vista delle mie osservazioni è filosofico, buddhista, cristiano: tre designazioni le quali, in una logica dell’“interdipendenza”, non sono esclusive l’una dell’altra, ma si riconoscono “vere” nella vicendevole appartenenza.

1. “Teologia”

Inizio con alcune considerazioni sull’uso possibile, in questo contesto, del termine “teologia”, chiedendo venia per l’estrema sintesi delle annotazioni.

“Teologia dell'interdipendenza” è certamente un ossimoro qualora si abbia in mente, come generalmente nell’ambito delle religioni abramiche, una “teologia” declinata in senso teistico e creazionistico. “Theologia est scientia quae de Deo et creaturis, quatenus ad Deum referuntur, revelationis et rationis ope disserit”, leggo nel neoscolastico Tanquerey[1]. Il carattere “personale” e trascendente del Dio biblico-cristiano, il rapporto che intrattiene con il mondo e l’uomo quali “creature” paiono inevitabilmente imporre una “teologia della dipendenza”. E inoltre: da un punto di vista buddhista (in cui è assente il “discorso su Dio” delle religioni teistiche!), e di un dialogo interreligioso che voglia tener fermo il presupposto di Interdependence, vale a dire l’“interdipendenza” delle vie religiose dell'umanità, non si vede di quale utilità possa riuscire il termine “teologia”.
Mi sia permesso tuttavia di obiettare: il termine non nasce in ambito ebraico, né cristiano o islamico, ma greco: “oi pròtoi theologèsantes, “coloro che per primi s’occuparono di teologia”, dice Aristotele di Omero e dei più antichi “sophoi” che affrontarono il problema del “divino” (“to theion”)[2]. La “Teologia platonica” di Proclo, la “teologia” aristotelica e la stoica sono estranee al teismo cristiano, e non credo si possa misconoscere la tensione “religiosa” di tutta la più alta speculazione greca (né, in generale, sottovalutarne la presenza in tutta la storia della filosofia: il neoplatonismo pagano, la “pia philosophia” del Ficino, la “religione ermetica” di Giordano Bruno, la “fede filosofica” di Jaspers, il buddhismo indiano, il taoismo, il buddhismo chan e zen non sono gli unici esempi di “filosofie religiose” o “religioni filosofiche”!). L’“ope rationis et revelationis” della definizione del Tanquerey, e cioè la tensione speculativa fecondata dall'intuizione noetica (il “lume spirituale”!), mi paiono la sostanza dello sforzo “teologico” umano, sempre ragione e “rivelazione” a un tempo: urgenza della “visione” e bisogno irrinunciabile di chiarezza teorica.
Se si ritiene, come è mia convinzione, la “trascendenza” l’esperienza religiosa fondamentale dell’uomo e il tema profondo di ogni “teologia”, anziché l’“Ente” trascendente - inteso vuoi in senso personalistico, vuoi filosoficamente come “principio” -, si riesce forse meglio ad accostarsi a ciò che collega le teologie dell’umanità, permettendone il dialogo.
L’esperienza della trascendenza è, nel linguaggio della tradizione neoplatonica, l’urgenza dell’Uno, interiore ad ogni essere, la quale spezza ogni forma determinata dell’esistere verso forme più alte: tensione della volontà e della conoscenza ad un mondo più “vero” e più “unito”. Nel gergo di Jaspers è “trascendenza immanente”: “La trascendenza non è al di qua, né al di là, ma è quel limite in cui io l’ho di fronte quando sono autenticamente me stesso”[3]. E siamo “autenticamente” noi stessi quando, dinanzi al “limite” di ogni forma finita, tendiamo a ciò che la supera; quando, per l’intuizione di una verità più alta (ciò che ha permesso appunto di riconoscerci dinanzi al “limite”!), comprendiamo come “povertà morale” e visione “falsa” della vita quanto abbiamo fino ad allora creduto e vissuto. Siamo così spinti ad aprirci all'alterità e alla novità, all’ulteriorità e all'interdipendenza della nostra verità: “Sempre riemerge, nell’uomo che pensa, quello che è oltre tutto ciò che egli pensa”[4].
In ambito cristiano è nel pensiero del Cusano, a cui Jaspers fa riferimento in tante importanti pagine[5], che il tema del “trascendimento” trova l’elaborazione più alta: l’aspirazione all'Unità, che supera ogni simbolo religioso o filosofico, al punto che è menzogna qualsivoglia definizione teologica che pretenda di esaurirla, è la tensione di ogni esistenza, non incapacità di un “possesso” definitivo ma ricchezza inesauribile della vita: infinità dell’interpretazione di ciò che si sottrae, per la sua inesauribilità, ad ogni forma conclusa dell'esistere. Tutte le religioni e le filosofie, insegna la “teologia poligonale” del Cusano, non sono che adeguazioni all’infinito dell’unico Principio trascendente l’intelligenza, come la moltiplicazione dei lati di un poligono che tenda, senza mai giungervi, alla circolarità, e “sebbene si verifichi una diversità nelle parole, tuttavia c'è identità di pensiero”, si legge a proposito della “concordantia philosophorum” nel De pace fidei (V, 13).
Se si vuol indicare un terreno comune delle esperienze religiose umane, è alla tradizione neoplatonica che dobbiamo rivolgerci; in particolare, alla “teologia negativa”: “Poiché il culto di Dio che va adorato in spirito e verità ha il suo fondamento necessario nei nomi positivi che lo affermano, ogni religione si eleva nel suo culto grazie alla teologia affermativa. [...] La teologia negativa è [tuttavia] così necessaria a quella positiva che, senza di essa, Dio non sarebbe onorato come Dio infinito, ma come creatura. E un culto di questo genere è idolatria che tributa all’immagine quello che spetta alla Verità. [...] Possiamo parlare di Lui in modo più vero con la rimozione e la negazione, come ha anche detto il grande Dionigi”[6]. E Jaspers, riecheggiando il Cusano: “La materializzazione, dando alla trascendenza la forma di una realtà tangibile e particolare, le offre una presenza ingannevole per cui la trascendenza non è più vista nella realtà empirica, ma è vista come realtà empirica. Con la perdita della trascendenza, la superstizione materializza l’assoluto e lo intende come esserci irreale nel mondo”[7].
Nel linguaggio di Jaspers, ogni “nome affermativo” va rettamente compreso come “cifra della trascendenza”: L’essere della trascendenza non si presenta all’esistenza nella sua inseità, perché non esiste nessuna identità tra esistenza e trascendenza, ma si rende presente come cifra, e quindi non come un oggetto determinato, ma, per così dire, attraversando trasversalmente tutta l’oggettività. La trascendenza immanente è immanenza subito dileguata ed è trascendenza che, nell’esserci, si fa linguaggio come cifra[8]; “La cifra è l’essere che rende presente la trascendenza senza oggettivarla e senza tradurre l’esistenza in essere soggettivo”[9]; “La cifra è l’essere del limite come linguaggio della trascendenza, che, quando si avvicina all’uomo, gli si avvicina nella cifra, e mai in se stesso”[10].
La distinzione eckhartiana fra la “Gottheit”, l’abissale profondità dell’Uno (“Abgrund”), inoggettivabile ed ineffabile, e “Dio” (“Gott”), il Dio-persona-creatore, permette di ricollocare il teismo nella prospettiva più giusta per un dialogo con il buddhismo, in cui l’affermazione della trascendenza riceve la formulazione più radicale che sia dato trovare nelle teologie umane (mi riferisco, specificamente, all’indirizzo “shunyavada”, a Nagarjuna). Essa permette di mantenere la verità profonda insita anche nel teismo: nella preghiera, il nostro volto come “persone”, singolarità assolute dell'”esistenza”, per esprimerci nel linguaggio dell’esistenzialismo, deve potersi specchiare nel Volto-Persona dell’Uno (un tema, questo, ben presente nel pensiero del Cusano!). Nel buddhimo del Grande Veicolo la personificazione dell’Adi-buddha, del Buddha ineffabile, che è “Shunya”, “Vuoto”, nella molteplicità dei Buddha e Bodhisattva salvifici, oggetto di preghiera, di venerazione, di culto, ha permesso di soddisfare questa esigenza che, ripeto, porta in sé una verità irrinunciabile.

Chiudo questa prima riflessione con due note a margine, due puntualizzazioni le quali, come cultore di filosofia e come cristiano, mi paiono irrinunciabili quanto i temi fin qui toccati della “trascendenza” e della teologia negativa. Anzitutto: il rapporto fra “Dio” e le creature non può configurarsi come un rapporto di “dipendenza” su cui si fondi, a sua volta, la dipendenza del mondo fisico e biologico dalla creatura privilegiata della concezione biblico-cristiana, l’uomo. L’“ecologia”, comunque intesa, “spirituale” e non, richiede un fondamento teologico diverso.
Nel romanzo autobiografico Le onde e il mare del missionario saveriano Luciano Mazzocchi[11], l’incontro con la cultura shintoista e buddhista del Giappone conduce il protagonista, padre Marco, ad una revisione sempre più radicale della concezione teologica tradizionale. Ne cito qualche passo: “Se [Padre Marco] una volta pellegrinava dalla natura a Dio lasciandosi dietro la natura man mano che si avvicinava a Dio, ora percepiva chiaramente che l’avvicinarsi a Dio va di pari passo con il pellegrinare dentro la natura. Percepiva come non si può separare la natura da Dio, perché l’invisibile non ha altro luogo in cui dimorare che il visibile. L’invisibile è la parte invisibile del visibile, e viceversa!”[12]; “La vita è proprio questa reciproca fecondazione del visibile e dell’invisibile, del cielo e della terra. Ogni cosa è l’ambito di questa fecondazione. E ne è il frutto”[13]. E altrove, in Il Vangelo e lo Zen: “La comprensione di Dio come persona (o tre persone) lascia l’impressione di ridurre Dio alle categorie dell’esperienza dell’uomo. Dio persona si pone davanti all’uomo come un superessere o un supercapo che resta fuori e al di sopra delle creature, che le domina, anche se viene chiamato Padre. [...] La centralità che la dottrina della Chiesa rivolge all’uomo e alla sua storia, asserendo che tutta la creazione è al servizio del progetto dell’uomo, oggi non convince più nessuno, nemmeno tra i cristiani. [...] L’antropocentrismo cristiano non regge e si rivela illusorio. [...] Ci si chiede perché si possa affermare con tanta sicurezza che l’animale, per volontà del Creatore, è al servizio dell’alimentazione umana [...] Nella Chiesa il regno dei cieli inaugurato da Cristo è sempre stato presentato come riservato agli uomini”[14].
Ed ecco come, assimilando la lezione buddhista, trova formulazione su questa base il concetto dell’interdipendenza: “Se c’è un Dharma [Legge, Ordine] a sostenere quanto esiste, esso è piuttosto la correlazione originaria di tutte le cose, per cui nulla esiste come a sé stante, ma come anello dell’infinita catena dei rapporti che costituiscono l’universo”[15]. E, sul piano più strettamente teologico, è così riletto il tema della generazione divino-umana: “La festa di Maria Vergine è la festa della generazione di Dio nell’uomo, dall’uomo. Ogni concepimento nato dall’amore è puro. La verginità di Maria è da intendersi come l’umanità nella sua natura verginale, incorrotta: essa sempre genera Dio. Dio ci genera come noi generiamo Dio[16].
Non è, quest’ultima, una formula peregrina e di dubbio senso teologico: è invece, esattamente, la dottrina teologica dell’interdipendenza di creatore e creatura, ben presente nella tradizione mistica cristiana, e in formulazioni di grande rigore teorico. Eckhart la enuncia in questo modo: “Dio si forma dove tutte le creature esprimono Dio: là si forma Dio”[17]; “Dio può fare a meno di noi tanto poco, quanto noi possiamo fare a meno di lui [...] La sua natura e il suo essere sono tali che Egli deve dare. Chi volesse togliere questo a Dio, lo priverebbe del suo proprio essere e della sua propria vita”[18].
Quando si rilegga il pensiero cristiano delle origini (al di qua delle grandi teologie della patristica!) ridimensionando la rilevanza in esso della concezione teologica vetero-testamentaria, e si prescinda da quanto la successiva speculazione derivò da alcune filosofie greche per fondarvi la propria “teologia cristiana” (come il dualismo platonico, il sostanzialismo e la gerarchia cosmo-teologica di Aristotele), diviene allora possibile la visione a cui abbiamo accennato, che si ritrova in Eckhart non meno che nel Cusano, il quale non si muove in direzione diversa: il “facere” e il “fieri” - il “creare” e il “creari”! - coincidono nella vita divina; la “complicatio” e l'“explicatio” - l'”exire et intrare” da Dio alle creature, e viceversa - non sono che una sola pulsazione eterna.

Vengo alla seconda puntualizzazione, chiedendo ancora venia per l’estrema sintesi: la necessità di un cristianesimo “gnostico” anziché “pistico”.
Parlando di “gnosi” cristiana non intendo qui riferirmi al ben noto fenomeno, ellenistico più che cristiano, che prese avvio ad Alessandria d'Egitto nel sec. II della nostra era, e che i primi teologi della nascente “grande chiesa” ebbero ben ragione a combattere e ad arginare, ma al tema, già presente nel cristianesimo più antico, del primato della “gnosis” sulla “pistis”, di una “conoscenza” salvifica che è interrogazione della propria vita a partire dalle parole del Cristo: “conoscenza di sé” che ci apre al “Regno” e ci libera dalla “povertà”, ridestandoci alla consapevolezza della nostra vera identità: col Cristo-Luce nel Padre. È al vangelo di Tommaso che mi richiamo[19], vale a dire ad una prospettiva “pancristica”, come si espresse il Puech, che ripone il Cristo-Soter e la “Luce” della “Vita” nel cuore di ogni essere[20]. In quest’ottica, è cristiano non chi “crede” in Cristo, ma chi lo “cerca” attivamente nelle sue parole messe alla prova nella propria vita: “senza desistere”[21], senza ritenere d’averlo mai racchiuso in un “credo” o in una precettistica presunti “cristiani” (e non è questa, a ben considerare, la forma più profonda di “fede”?).
Ben diverso è il modello “pistico” che si ritrova nel cristianesimo giovanneo, che elegge il “Logos” incarnato in Gesù a unica mediazione fra noi e il Padre, richiedendone il riconoscimento del “credere”: “Chi crede [o pisteuon] nel Figlio ha vita eterna, chi invece rifiuta di credere al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio rimane su di lui” (Gv. 3, 36)[22]. È questo il modello che, attraverso la prassi e l’idea ignaziana della Chiesa[23], ha finito col predominare nella storia del cristianesimo. È una visione che fonda, inevitabilmente, una teologia “della dipendenza”: dall'unica Parola incarnata anteriore al creato, suo tramite esclusivo e salvatore nel riconoscimento della “fede”; e, coerentemente, dalla mediazione dell’unica Chiesa, da cui si richiede l’adesione fideistica nel “credo” e nella gerarchia della comunità.
Una “teologia dell’interdipendenza” che voglia davvero essere tale non può non mettere in questione questo modello, che il confronto con la modernità e, nell’era globale, con la varietà e la verità delle vie religiose umane svuota sempre più di senso. La “Parola” deve essere riconosciuta, coerentemente con Tommaso evangelista e col Cusano, onnicentrica ed interiore ad ogni essere, ad ogni comunità e via dell’esperienza religiosa, così uscendo dalla logica delle adesioni confessionali, delle esclusioni, delle “dipendenze” con cui si è troppo a lungo identificato il cristianesimo delle chiese.

Riassumo per punti:

  • “Interdipendenza” è, anzitutto, la consapevolezza della vicendevole appartenenza delle vie religiose dell'umanità. Non la generica aspirazione al “dialogo”, scansando con “correttezza” le pietre d’inciampo, né il volenteroso disporsi a pregare insieme, ma il riconoscimento che la propria verità dipende dalla verità dell'altro: il “mio” cristianesimo non è vero senza la verità del buddhismo - o dell'Islam, dell'induismo, dello shintoismo! - tanto che nella responsabilità della mia propria verità mi assumo la responsabilità della verità dell’altro. È un salto di coscienza che qui si richiede: la pietra d’inciampo, lo “scandalo” di un Dio che nonci” appartiene, è la pietra angolare!
  • “Interdipendenza” è, coerentemente, riconoscere il “proprio” Dio - il “Dio” della rivelazione a cui si fa riferimento, dell'appartenenza da cui si fa dipendere la “propria” verità - come una “cifra della trascendenza”. È il linguaggio della teologia negativa riletto, col Cusano, come “teologia poligonale” e, con Jaspers, come infinità dell’interpretazione nella tensione mai terminata all’Uno: “Nell’Uno sta, per così dire, ciò che ci salva dall’ottusità del mero esserci in cui si trova ognuno di noi. Esso è il momento salvifico sulla Via dove ognuno di noi si trova senza mai terminarla”[24]; solo la tensione alla trascendenza può, per il filosofo tedesco, operare autenticamente come forza unificante nel mondo: “Chi avverte il Dio come uno o l’Uno della trascendenza, può avvicinarsi nel mondo all’Uno solo mediante la realizzazione dell’unità nel mondo”[25]. Il riconoscimento del “Dio” della rivelazione, della creazione, della salvezza come “cifra della trascendenza” è già da sempre compiuto nel buddhismo e nell'induismo, ma non meno, a me sembra, nella mistica delle religioni abramiche, per quanti sospetti e ostilità abbia suscitato da parte delle loro “teologie positive”.
  • “Interdipendenza” vuol dire rileggere nel giusto modo la prospettiva teistica, creazionistica, rivelazionistica, fuori da una logica della “dipendenza” nei rapporti fra il creatore e la creatura, e fra la creatura privilegiata – unica portatrice dello “spirito”, nella declinazione moderna l'unica insignita della signoria del “cogito” - e ogni altro essere creato, così muovendo dal teocentrismo e dall'antropocentrismo ad una prospettiva “cosmoteandrica” (Panikkar).
  • “Interdipenenza” delle vie religiose è spostare il centro dell’esperienza spirituale dal “credo” confessionale al “conoscere”, “cercando” la Parola e il suo significato nella propria vita: dalla “pistis” alla “gnosis”[26]. E la “Parola” è in ciascuno, onnicentrica: lo “Spirito” non cessa di parlare, non ha alcun “sigillo” in una rivelazione ultima e si compiace di parlare dentro come fuori dei recinti delle nostre piccole “ortodossie”. Si dice nello Zen che non appena hai creduto d’aver delimitato l’area del “sacro”, del “vero” e del “bene”, ponendoti al suo interno e al sicuro, col tuo credo e le tue pratiche di “purificazione”, ecco che lo Spirito ti stupisce manifestandosi dall'altra parte, fuori dai limiti che hai così bene segnato e difeso; ma anche, e non meno: quando credi d’esserti posto al riparo dai “falsi profeti” uscendo dalle loro chiese, alzando la bandiera della tua indipendenza e “purezza”, ecco che lo Spirito ancora salta fuori dall'altra parte, proprio all’interno di quelle chiese che hai deprecato! Alla venuta degli angeli mietitori, si legge nel vangelo di Tommaso, sarà salvo chi avrà saputo “deporre gli abiti e calpestarli, felice come un bambino”, “pronto a lasciare il campo”[27]!

 2. “Interdipendenza”, “Vacuità”, “Cristicità”

Concludo con una considerazione, più specificamente buddhista e cristiana, sui temi dell’“interdipendenza” come “vacuità” e “cristicità”.

Leggiamo in Nagarjuna, il grande teorico della “Via di mezzo” (“Madhyamika”) o “dottrina della Vacuità” (“Shunyavada”) del buddhismo mahayana: “Una cosa non in relazione con un’altra dove, come può esistere?”[28]; “La produzione condizionata degli esseri, questa, noi diciamo, è la vacuità. Le cose che si producono condizionatamente sono infatti prive di natura propria”[29].
La “produzione condizionata” o “genesi interdipendente” è, propriamente, la catena causale dei dodici fattori dell’esistenza fenomenica (“pratityasamutpada”), dottrina già del più antico buddhismo, che proclama l’“impermanenza” (“anicca”) e l’“insostanzialità” (“anatta”) degli esseri, tutti “prodotti condizionatamente”. Non si tratta, com’è noto a chiunque si occupi di buddhismo, di una forma di “nichilismo”: tutti gli esseri sono perfettamente esistenti e reali, ma la loro realtà non consiste in una presunta identità e permanenza, che nessun essere possiede, né nella loro esistenza separata, ovvero nell’illusione di un “sé” su cui si fonda l'egoismo e la cecità morale, l'opposizione alle altre esistenze e, non ultimo, la preoccupazione di un aldilà personale.
La “vacuità” è, positivamente, la comunione di tutti gli esseri nell’esistenza interdipendente: nulla si genera da sé, in sé sussiste e si conclude con sé. Il noto paragone ricorrente nella tradizione buddhista è l’oceano e le sue onde: ogni onda è tutto l’oceano mentre si conforma in quel suo movimento e figura passeggera. Ne deriva anzitutto uno degli principi morali più centrali del buddhismo: “nekkamma”, “non agire” imponendo il tuo bisogno, la tua esigenza, il tuo progetto agli altri esseri[30]; ovvero, “non agire” concependo te stesso come realtà separata, contrapposta a tutte le altre (individualmente o nel “noi” delle comunità, l'”ego” collettivo!).
Vivere comprendendo appieno l’insostanzialità e l’impermanenza, inverandola nella pratica meditativa e nella disciplina di vita, è l’insegnamento del “lasciare se stessi” (“aprire le mani del cuore e della mente”, è detto nello Zen), così singolarmente consonante con la nostra mistica renana: “sich lassen”, come si legge nell’eckhartiano Enrico Suso[31]. “Vacuità” (“Shunya”) e “compassione” (“karuna”) si manifestano allora le due facce della stessa medaglia: la realtà dell’una è la verità dell’altra, la loro vissuta comprensione è la regola del retto vivere, nel rapporto non solo con gli altri esseri umani, ma con tutti gli esseri.
È un atteggiamento che si accompagna, già nel buddhismo più antico (e più ancora in seguito, nel buddhismo zen!), al rifiuto di ogni “credo”, di ogni presunto possesso del vero in un sistema morale-religioso o filosofico, effetto della vanità e della volontà di predominio: “Di coloro cui piace tuffarsi in discussioni tra la gente, ciascuno considera l’altro ignorante; disputano sulla base di assolutismi, questi cosiddetti esperti bramosi di lode”[32]; “Non in un sistema, o Magandiyo, non in una tradizione, in una gnosi o in un codice morale si trova la purezza, e nemmeno nel negare il sistema, la tradizione e il codice morale”[33]. Dirà Nagarjuna, icasticamente: “La Vacuità, han detto i Vittoriosi, è l’eliminazione di tutte le opinioni”, avendo sgombrato il cuore da ogni “possesso” e presunzione di verità.
In questa ottica, di “Dio” non si può e non si deve parlare: il buddhismo è rigorosamente a-teologico. I molteplici Buddha e Bodhisattva che popolano gli universi del grandi sutra del Mahayana non sono più che figurazioni e “cifre” della Vacuità nel suo volto compassionevole e salvifico: il loro apparire e dileguarsi, la loro moltiplicazione infinita (tutto è una “buddhofania” inesauribile!), è il bisogno e la “verità” del cuore che cerca se stesso. La “via della negazione” è sottesa a tutta la “buddhologia positiva” del Mahayana: la Vacuità, la vita del Realizzato (il “Tathagata”, il “Così andato”), la “Natura di Buddha” nel linguaggio zen, è la condizione assoluta, per sempre sciolta da ogni limitazione fenomenica, coincidente con la realtà ultima di ogni cosa, oltre ogni possibile qualificazione della parola e del pensiero, oltre l’opposizione stessa di identità/alterità, permanenza/impermanenza, esistenza/inesistenza: “Tutto è vero o non vero, vero e non vero insieme e, del pari, né non vero né vero. Tale l’insegnamento degli Svegliati. Non dipendente da altri, pacificata, non dispiegata dallo spiegamento del pensiero discorsivo, priva di rappresentazioni soggettive, senza diversità: tali i caratteri della realtà”[34]; “Né uno né molteplice, né ambedue né non ambedue, privo di sostrato, immanifesto, impensabile, invisibile, senza arresto, senza nascita, senza annientamento, senza eternità - simile all’etere, trascendente pensiero e parola”[35].
Scriveva R. Otto ne Il sacro: “La mistica porta al limite estremo il contrasto dell’oggetto numinoso come ‘totalmente altro’, in quanto essa non si limita a contrapporlo a tutto ciò che è naturale e mondano, ma lo contrappone assolutamente all’essere e allo stesso esistente, designandolo come ‘il nulla’. Intende così non solamente ciò che non è in alcun modo dicibile, ma ciò che è recisamente, essenzialmente altro e contrastante in rapporto a tutto ciò che è e che può essere pensato. Ma, sebbene spinga fino al paradosso la negazione e il contrasto, soli mezzi concessi alla riflessione concettuale per cogliere il mistero, la mistica in pari tempo conserva le qualità positive del ‘totalmente altro’ fortemente vive nel sentimento e nella sua esuberanza. E quel che vale ed è vero per il singolare ‘nihil’ dei nostri mistici occidentali, vale egualmente per il ‘shunyam’ e il ‘shunyata’, il ‘vuoto’ e la ‘vacuità’ dei mistici buddhisti.
Agli occhi di chiunque non possegga una simpatia intima per la lingua dei misteri o per gli ideogrammi e i simboli della mistica, simili aspirazioni buddhistiche al ‘vuoto’ e al processo che conduce al vuoto, come le aspirazioni dei nostri mistici al ‘nulla’ e al processo che conduce al nulla, devono sembrare una sorta di demenza, e perciò tutto il buddhismo sembrerà loro un morboso nichilismo. In realtà il ‘nulla’ e il ‘vuoto’ sono un ideogramma numinoso del ‘totalmente altro’. Il ‘shunyam’ è il mistero assoluto, portato fino al ‘paradosso’ e all’ ‘antinomia’. A chi non reca in sé tale conoscenza, tutto quel che riguarda i Prajnaparamita[36], esaltazione a loro volta del ‘shunyam’, deve apparire come una follia. E completamente chimerico e incomprensibile deve restare per lui proprio quel che su infiniti altri ha agito come un incanto”[37].
La lettura immanentistica della “vacuità” che, attraverso alcuni maestri giapponesi, è filtrata in occidente facendo da supporto ad una concezione irreligiosa dello Zen, più in sintonia con il naturalismo ingenuo ed il laicismo della nostra cultura, perde la dimensione della trascendenza e fallisce il senso più intimo dell’insegnamento di Nagarjuna[38].
Il punto più alto della speculazione sulla Vacuità nel mondo cinese, negli ambienti e nei secoli in cui si formava il buddhismo chan, a me sembra vada cercato nella scuola Huayan, poco nota ai nostri “maestri zen”, ma in cui è, per gli studiosi informati, la matrice “teologica” più vera e profonda del Chan. In virtù del principio della “non-ostruzione”, ovvero dell’onnipresenza e dell’onnipervadenza della Vacuità, l’intero “Dharmadhatu” (la “Natura-dei-dharma”, l’assoluto Essere sciolto da ogni limitazione, che si sottrae al linguaggio catafatico) è presente in ogni singolo fenomeno della realtà, in ogni suo “granello di polvere”[39].
Il rischio che la dottrina della “vacuità”, intesa come un radicale fenomenismo, possa vanificare il valore assoluto delle “persona” spirituale, irrinunciabile nell’antropologia cristiana, è scongiurato dagli sviluppi del buddhismo più maturo: la dottrina del “Tathagatagarbha”, il seme prezioso della “buddhità”, vettore della Liberazione nel cuore di ogni vita, e la matura concezione huayan della Vacuità, per cui ogni essere, nella sua puntualità esistenziale e stupefacente realtà di un attimo, porta sempre in sé tutto l’Essere ed è, perciò, Trascendenza di sé all’infinito, riaffermano il valore assoluto dell’individualità vivente nell’interiore tensione alla “salvezza” (“Bodhicitta”). È una visione che ritroviamo, in non casuale coincidenza, nel Cusano: “Poiché risulta chiaramente [...] che Dio è in tutte le cose in modo che tutte sono in Dio e, ora, vediamo che Dio è in tutte le cose per la mediazione dell'universo, ne consegue che tutto è in tutto e che qualunque cosa è in qualunque cosa. [...] In una creatura qualunque, l’universo è questa stessa creatura, così che ogni cosa accoglie tutte le cose affinché in essa siano l’universo stesso in modo contratto. [...] Essendo l'universo contratto in qualsiasi cosa esistente in atto, è chiaro che Dio, che è nell’universo, è in qualunque cosa e che qualsiasi cosa esistente in atto è, come l’universo, immediatamente in Dio. Dire, dunque, ‘qualunque cosa in qualunque cosa’, non è altro che dire: ‘Dio è in tutto attraverso il tutto’, e ‘tutto è in Dio attraverso il tutto’”[40].

Ciò che mi ha condotto, nel mio personale percorso, a ripensare la visione cristiana è il valore irrinunciabile della “persona spirituale”, che nella tradizione buddhista, così varia nelle sue vie storico-geografiche, è insieme decisamente negato e puntualmente riaffermato, sempre alla ricerca del difficile equilibrio fra l’originario assunto “anatma”, la negazione del “sé” (inteso tanto come personalità fenomenica che come “in-dividuo” spirituale), e il bisogno di recuperarne il significato più vero: come “coscienza” ultima, trans-personale, oltre tutti i livelli fenomenici dello psichismo per i “vijnanavadin”; come “seme” del Risveglio e “natura-di-Buddha” immacolata nel cuore di ogni essere, per la tradizione “tathagatagarbha”; come “mente” profonda e “specchio” perennemente terso dalla “polvere” dell’illusione, per il Chan e lo Zen. La “compassione” buddhista diviene autenticamente “carità” quando, dinanzi alla gioia e alla sofferenza altrui, si veda non un “aggregato fenomenico” ma il volto umanissimo e verissimo di Dio e si riconosca il valore redentivo della sofferenza.
È una verità che nella via buddhista si rischia di perdere, ma senza di cui la pratica della meditazione, così centrale, diviene non più che uno “yoga” della consapevolezza e del distacco (dall’attaccamento, dall’illusione...), così mancando il valore stesso della vita[41], la capacità di piangere e di gioire che le dà senso nei nostri rapporti, sempre tesi fra il bisogno e il rifiuto, l’“appropriazione” e il “dono”. Ma è questo il nostro pane quotidiano, che sempre torniamo a spezzare insieme, volenti o nolenti, e che nel cristianesimo si apprende come condivisione cristica della propria vita: un’altra accezione, e non certamente la meno importante, dell’“interdipendenza”.
Nell’insegnamento di Vangelo e Zen la “Vacuità”, come impermanenza e interdipendenza, è la vita che “si lascia” e si dona, che fa di sé “cibo” per ogni altra vita: gratuità assoluta del dono o “per-dono” nella “mensa” universale dell’esistenza, la sua immanente “cristicità” ed “eucaristicità”: “Perdono è accoglienza intima, che prescinde da qualsiasi calcolo. Il termine italiano perdono è particolarmente adatto a indicarne tale senso profondo: Per dono! Perdonare è quindi come donare gratuitamente. [...]
L’esperienza del perdono modella l’anima umana all’audacia di sostare davanti al mistero della realtà con fiducia, sapendo che la realtà non è prigioniera dei suoi meriti o demeriti, ma esiste per dono in una economia di grazia che frantuma la catena del merito e demerito e suscita a novità di vita”[42]. Non la giustizia remunerativa di un “Dio” creatore e giudice, che assegna a ciascuno secondo il merito, premiando alcuni col paradiso di una felicità personale e lasciando irredento il male di altri: questa è ancora una teologia (piuttosto, una mitologia!) “della dipendenza”. Nella croce, la sofferenza dell’innocente riscatta il suo assassino, oltre la logica del merito e del demerito. In un passo del Talmud si dice che nell’aldilà avremo ciascuno due posti: quello che ci saremo meritati per le nostre buone o malefatte, e quello del nostro vicino: la verità e la responsabilità dell’altro erano, evidentemente, la nostra propria verità e responsabilità[43].
L’“eucaristicità” della vita, la sua “cristicità” vanificano “la tentazione di interpretare la vita come un mio possesso”[44], restando chiusi dentro la logica di opposizioni irrisolubili: “L’eucaristia [...] è domanda di perdono e riconciliazione, lode e preghiera, ascolto e proposito, offerta e sacrificio, vita che muore, e morte che risorge a nuova vita. I sentimenti religiosi dell'esperienza umana sono purificati e fatti vivere offrendo, consacrando, spezzando e mangiando un pezzo di pane; benedicendo e condividendo un calice di vino”[45]; “L’eucaristia non è solo opera dello spirito che transustanzia la materia; è anche la materia che dà corpo allo spirito: ed ecco il Cristo!”[46]; “Il Cristo è la qualità profonda di tutto ciò che esiste, perché tutto è chiamato ad esistere nella santificante croce della relazione che unisce il cielo e la terra e gli opposti orizzonti dell'esistenza. Tutto, nella sua esistenzialità profonda, è Cristo”[47].

La sapienza cristica e cristiana, dell’insegnamento di Gesù e della più antiche comunità cristiane, la sapienza umano-divina, ha forse bisogno delle teologie “della dipendenza”? Del teismo creazionista del vecchio testamento, la cui base è un “mythos” che non sentiamo più vero, per quanto numerose e profonde possano essere le verità custodite nella sapienza ebraica, in cui si formò lo stesso Gesù, della cui Legge volle essere riformatore? O delle teologie che la patristica elaborò così faticosamente, fra mille dispute, utilizzando metafisiche greche tanto estranee, nel linguaggio e nei concetti, alla letteratura cristiana più antica?

Riassumo:

  • “Interdipendenza” è, nella visione buddhista, la trama illimite degli esseri, tutti “coprodotti condizionatamente” e perciò privi di “natura propria”, di chiusa identità e permanenza. La Vacuità è, al tempo stesso, insostanzialità (“anatta”), impermanenza (“anicca”) e “ideogramma numinoso del totalmente altro” (R. Otto), o “cifra della trascendenza” (K. Jaspers). La pratica buddhista (nello zen soto, la sessione meditativa o “zazen”) è “vedere in profondità” (“vipassana”) la realtà della vita “aprendo le mani del cuore e della mente”; nel linguaggio della mistica renana, è “lasciare sé” (“sich lassen”) fino a “lasciare Dio” e ogni idea di sopravvivenza personale[48]. Il seme della Liberazione nel cuore di ogni vita (“Tathagatagarbha”) e l'attualità di tutto l'Essere in ogni sua manifestazione (Dushun, Cusano) conferiscono all'esistenza, in ogni forma e grado, il suo valore inviolabile e sacro.
  • “Interdipendenza” è, nella visione cristiana, il “per-dono” nella mensa universale dell’esistenza, condivisione “cristica” di sé o “pane” spezzato insieme della Vita. La pratica buddhista diviene, in quest'ottica, la vita che “si lascia” donandosi, gioia di riconoscersi da sempre insieme nel banchetto del Regno, il quale, insegna il Gesù di Tommaso, non è nei cieli né nel mare, “ma è dentro di voi e fuori di voi”, e la cui via di accesso è la “conoscenza di sé”: “Quando conoscerete voi stessi, allora sarete conosciuti e saprete che siete Figli del Padre, il Vivente, ma se non conoscerete voi stessi, allora sarete nella povertà e sarete voi stessi povertà”[49].

Ignoro quali consensi possa incontrare questa mia riflessione, ma credo valga a mettere sul tavolo, per una prima discussione, qualche tema più specificamente “teologico” (recuperando il significato greco e filosofico del termine!).
Non nascondo che nell’ambito di Interdependence mi è parso di avvertire un diffuso imbarazzo verso l’idea di una ennesima “teologia” e speculazione su “Dio”. Piuttosto, è stato detto, parliamo di “spiritualità dell'interdipendenza”, lasciamo da parte “Dio” e concentriamoci su temi e impegni più puntuali, più concreti. Ma il passaggio verso un nuovo linguaggio cristiano, che sia all’altezza di quanto affermato nella Laudato si’, non può che affrontare la prova di una “teologia” nuova (il linguaggio tradizionale delle chiese è duro a cambiare, e non fingiamo che parole pronunciate tanto in alto abbiano già ‘sistemato’ tutto, tanto che tutto resti come prima!).
“Teologia dell’interdipendenza” a me sembra una sfida grande, che ci mette in gioco tutti: buddhisti, cristiani, induisti, musulmani, ebrei, che ci provoca a ripensare “Dio” in un mondo sempre più dimentico d’aver dimenticato Dio, che sembra ormai consegnato alla supremazia della tecnica e alla “plutocrazia demagogica” (come diceva Pareto!), una questione assai più grande e grave delle nostre sacrosante “appartenenze”. Ciò che dobbiamo e possiamo opporre a quel dominio è in verità molto più potente di tutto il suo vistoso apparato: la consapevolezza del senso religioso della vita, di cui nessun uomo nel profondo è privo.
La diffusa insensibilità alla “teologia” può certo anche essere intesa come il segno positivo di un’epoca “post-teologica” (come, in generale, “post-ideologica”), stanca delle “teologie” come bandiere di militanza, ma prendiamo atto che l’età delle contrapposizioni religiose (sempre strumentalizzate!) non è per nulla finita, e facendosi puntualmente schermo dietro una “proprietà” del vero (della “Parola”!) che ci lascia sempre meno convinti. È da dirci francamente, come religiosi prima che uomini di “chiesa”, e in cuor nostro, cosa poi davvero riluttiamo a perdere “deponendo gli abiti”.

 

[1] Adolphe Tanquerey, Brevior synopsis theologiae dogmaticae, ed. Typis Societatis Sancti Joannis Evang., Desclée et Socii, Parigi-Tournai-Roma 1949, p. 211.

[2] Aristotele, Metaph., A, 3, 983 b 29. Ricordiamo che la forma attributiva (“divino”) è nel linguaggio dei presocratici (“physiologoi” e “theologoi”!) assai più rilevante della nominativa maschile, “o theos”.

[3] K. Jaspers, Filosofia, UTET, Torino 1978, p. 947.

[4] K. Jaspers, Ragione ed esistenza, Marietti, Genova 1971, p. 75.

[5] Fra le altre, K. Jaspers, I grandi filosofi,  Longanesi, Milano 1973, p. 855-856: “Nella speculazione il trascendimento non ha mai fine. Quando in un concetto, in un’intuizione, in un atto di pensiero compare la pretesa di avere già in possesso la verità ricercata, questa si sottrae sempre al pensiero e lo attrae di nuovo a sé. Quest’insoddisfazione presente in ogni momentanea soddisfazione, questa inquietudine che s’impone nonostante ogni soddisfacimento passeggero del pensiero, domina su tutta la speculazione del Cusano”.

[6] De docta ignorantia I, 26. Ivi, I, 24: “I nomi affermativi che attribuiamo a Dio gli convengono solo approssimativamente e all’infinito”; “Qualunque cosa si dica di Dio grazie alla teologia affermativa, si fonda sul rapporto con le creature. [...] Anche i nomi della Trinità e delle Persone, e cioè di Padre, di Figlio e di Spirito Santo, sono dati a Dio per la sua disposizione verso le creature”.

[7] K. Jaspers, Filosofia, cit., p. 946. Cfr. Id., Cifre della trascendenza, Marietti, Genova 1974, p. 64: la “diabolicità” è “precisamente il fatto che si prende in proprio possesso il Dio come uno, che è realmente l’uno, e si crede di dover lottare per lui contro gli altri e di dover uccidere gli altri per lui”. La diabolicità “si trova nella religione biblica attraverso tutti i tempi”, ed è “legata all’idea dell’esclusività” (e si confronti il Cusano, De visione Dei XIII: “Se qualcuno mi dicesse che Ti chiami con questo o quel nome, so già, dal fatto che Ti denomina, che questo non è il Tuo nome. […] E se qualcuno avesse concepito una certa maniera per pensarti, so che quel concetto non è il Tuo”).

[8] Filosofia, cit., pp. 1076-1077, il corsivo è mio. 

[9] Ivi, p. 1077.

[10] Ivi, p. 1106.

[11] Ordinato sacerdote nel 1962, Luciano Mazzocchi è stato missionario in Giappone dal 1963 al 1982, dove si è accostato allo zen attraverso il frate domenicano Oshida Shigeto. Dagli anni ‘90 ha collaborato al “laboratorio di dialogo” Vangelo e Zen (comunità Stella del Mattino), esperienza che nel 2000 ha ricevuto il beneplacito della Congregazione della Dottrina della Fede, cui Prefetto era il cardinale J. Ratzinger.

[12] L. Mazzocchi, Delle onde e del mare. L’avventura di un cristiano in dialogo con lo Zen, Ed. Paoline, Milano 2006, p. 233. Cfr. Nicola Cusano, De possest (ed. Santinello, p. 309): “Cos’è il mondo se non l’apparizione del Dio invisibile? E che cosa è Dio se non l’invisibilità delle cose visibili?”.

[13] Ivi, p. 223.

[14] L. Mazzocchi, A. Tallarico, Il Vangelo e lo Zen. Dialogo come cammino religioso, EDB, Bologna 1994, pp. 14-18.

[15] L. Mazzocchi, Delle onde e del mare, cit., p. 222.

[16] Lectio divina del 1.1.2015 a Desio.

[17] Meister Eckhart, Sermoni tedeschi, a cura di M. Vannini, Adelphi, Milano 1985, p.80.

[18] Ivi, pp. 75-76.

[19] Logia 115 e 90 della numerazione del Craveri. Per il testo, il mio commento e la relativa documentazione, cfr. Il Vangelo di Tommaso. Danza pasquale di Cristo, Ed. Clandestine, Marina di Massa 2017. Ricordiamo che il vangelo di Tommaso è coevo a quello di Giovanni e include un nucleo antichissimo di “logia” o detti di Gesù, una raccolta che, circolando in diverse redazioni, fu utilizzata non meno nei sinottici.

[20] Tm 84: “Gesù disse: Io sono la Luce: quella che sta sopra ogni cosa; io sono il Tutto: il Tutto è uscito da me e il Tutto è ritornato in me. Fendi il legno, e io sono là; solleva la pietra e là mi troverai”.

[21] Tm 2: “Chi cerca non desista dal cercare fino a che non abbia trovato. E quando avrà trovato, sarà commosso, e quando sarà stato commosso, si meraviglierà e regnerà sul Tutto”; Tm 3: “Gesù disse: Se coloro che vi guidano vi dicono: ‘Ecco! Il Regno è nel cielo’, allora gli uccelli del cielo vi saranno prima di voi. Se essi vi dicono: ‘Il Regno è nel mare’, allora i pesci vi saranno prima di voi. Ma il Regno è dentro di voi ed è fuori di voi. Quando conoscerete voi stessi, sarete conosciuti e saprete che siete Figli del Padre Vivente. Ma se non conoscerete voi stessi, allora sarete nella povertà e sarete voi stessi la povertà”; Tm. 73: “Colui che conosce tutto, ma ignora se stesso, è privo di tutto”.

[22] Se Tommaso scrive perché chi legge o ascolta l'insegnamento di Gesù s’impegni da sé a “cercare la spiegazione” (Tm. Incipit e 1), Giovanni affinché si “creda” per i “segni miracolosi” (semèia): “Ora Gesù [risorto] fece in presenza dei discepoli molti altri segni miracolosi, che non sono scritti in questo libro; ma questi sono stati scritti affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e affinché, credendo, abbiate la vita nel suo nome” ( Gv. 20, 30-31). Il “segno” appena narrato (Gv. 20, 26-29) è il celeberrimo episodio dell’incredulo Tommaso, che conclude con le parole di Gesù: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che pur non vedendo, crederanno”. “Vedere” o “udire” la Parola e accoglierla sembra talvolta in Giovanni esperienza pneumatica; più spesso, è constatare l’eccezionalità dei “segni” miracolosi o dar credito a chi ce ne fa narrazione (cfr. Gv. 4, 42). Il cristianesimo di Giovanni, per quanto difforme dai sinottici, era su questo punto con essi coerente, cfr. Mc. 16, 15-18, che riferisce le istruzioni di Gesù risorto ai discepoli: “Andate per tutto il mondo, predicate il vangelo a ogni creatura. Chi avrà creduto e sarà stato battezzato sarà salvato; ma chi non avrà creduto sarà condannato. Questi sono i segni [“semèia”, segni miracolosi] che accompagneranno coloro che avranno creduto: nel mio nome scacceranno i demoni; parleranno in lingue nuove; prenderanno in mano dei serpenti; anche se berranno qualche veleno, non ne avranno alcun male; imporranno le mani agli ammalati ed essi guariranno”.  Osservava Hegel come qui il Gesù di Marco parli un linguaggio ben diverso da quello delle beatitudini e dell’annuncio del Regno: “Ora Gesù pone un segno esteriore, il battesimo, come segno di discriminazione e di queste due cose positive, la fede e il battesimo, ne fa una condizione di salvezza, pronunciando condanna nei confronti della miscredenza”; cosa più inquietante, aggiungeva il filosofo, elencando i segni miracolosi della conversione Gesù qui fa del miracolo la dimostrazione dell’autenticità della fede. E’ questa la voce, concludeva, di una comunità che già intraprende la fondazione di una “religione positiva” (cfr. La positività della religione cristiana, in G.W. Hegel, Scritti teologici giovanili, ed. it. Guida, Napoli 1972, p. 248).

[23] Perché si abbia ben chiaro a cosa mi riferisco, riporto qualche passo significativo dalle lettere di Ignazio di Antiochia, scritte negli anni 110-118: “Conviene procedere d’accordo con la mente del vescovo, come già fate. Il vostro presbitero ben reputato degno di Dio è molto unito al vescovo, come le corde alla cetra. […] È necessario per voi trovarvi nella inseparabile unità per essere sempre partecipi di Dio” (Ef. 4, 1-2); “Nessuno s’inganni: chi non è presso l’altare, è privato del pane di Dio. […] Stiamo attenti a non opporci al vescovo per essere sottomessi a Dio” (ivi, 5, 2-3); “Chiunque il padrone di casa abbia mandato per l’amministrazione della casa, bisogna che lo riceviamo come colui che l’ha mandato. Occorre dunque onorare il vescovo come il Signore stesso” (ivi, 6, 1); “Voi [fedeli] siete pietre del tempio del Padre preparate per la costruzione di Dio Padre, elevate con l’argano di Gesù Cristo che è la croce, usando come corda lo Spirito Santo. La fede è la vostra leva e la carità la strada che vi conduce a Dio” (ivi, 9, 1); quanto a coloro che insinuano falsi insegnamenti creando “separazioni” (col parola greca, “eresie”), “bisogna scansarli come bestie feroci. Sono cani idrofobi che mordono furtivamente: occorre guardarsene, perché sono incurabili” (ivi, 7, 1). Ricordiamo che agli inizi del sec. II la triade carismatica della funzione missionaria (apostoli, profeti, maestri) del sec. I, testimoniata in Paolo di Tarso e nella Didachè, cedeva il posto alla triade degli uffici istituzionali, non necessariamente carismatici (vescovo, presbiteri, diaconi). Per Ignazio solo al vescovo competeva la celebrazione dell’eucaristia, e per “chi non è presso l'altare” non c'è salvezza. Cfr. A. Nicoletti, L’evoluzione della liturgia, in Aa Vv, Storia del cristianesimo, a cura di E. Prinzivalli, Carocci, Roma 2015, vol. I, p. 387 segg. Per quanto il modello autoritario di Ignazio possa suscitare il nostro disappunto, non dimentichiamo che fu proprio tale rigidità a impedire che nel II secolo il cristianesimo venisse assorbito dalla religiosità ellenistica.

[24] K. Jaspers, Cifre della trascendenza, cit., p. 63. 

[25] Ivi, p. 59.

[26] Tm 1: “Egli disse: Chiunque trova la spiegazione  di queste parole non gusterà la morte”; Tm 2: “Gesù disse: Colui che cerca non smetta di cercare fino a che non abbia trovato”. In nessun detto si fa appello, nel vangelo di Tommaso, al “credere” o ai “segni” miracolosi.

[27] Tm 42. L'”abito” è il segno dell'appartenenza e della distinzione sociale, il “campo” gli averi e il 'luogo' proprio, individuale e comunitario.

[28] Nagarjuna, La sterminatrice dei dissensi, 22, in Id., Le stanze del cammino di mezzo (Madhyamaka karika), Boringhieri, Torino 1979, p. 145.

[29] Cfr. Nagarjuna, Laude dell’Inconcepibile, ed. it. in Le stanze..., p. 171.

[30] Dhammapada 181, dove si dice de “i saggi che traggono diletto dalla quiete del lasciar andare [nekkhamma]”. La “ri- nuncia” (nekkhamma), la “benevolenza” (abyapada), la “non violenza” (avihimsa) sono nel Dvedhavitakkasutta i caratteri propri della “mente salutare” (kusalacitta), coltivando la quale si potrà recidere la brama e l'attaccamento (ed. it. ne La rivelazione del Buddha, A. Mondadori, Milano 2001, vol. I, p. 387). Nel buddhismo chan il “nekkamma” indiano si integra nel “wu wei” taoista. Nel linguaggio di Eckhart tale atteggiamento è “Gott leiden”, lasciar operare Dio, o “divina pati”, lasciar Essere. In questo ‘rimettersi’ a Dio (Gelassenheit) deve aver fine, per il mistico renano, ogni “differenza”, ovvero ogni preferenza e rifiuto, lo spirito di appropriazione e di opposizione che abitualmente ci motiva e ci muove (cfr. Sermoni tedeschi, cit., p. 100).

[31] Enrico Suso, Il libretto della verità, ed. it. a cura di M. Vannini, A. Mondatori, Milano 1997, p. 40: “Percepisci con precisa distinzione queste due parole: lasciare sé [sich lazsen]. E se tu puoi pensare esattamente queste due parole e indagare a fondo sul loro ultimo significato e considerarlo con giusta distinzione, allora potrai essere istruito rapidamente sulla Verità”.

[32] IV 824- 825; ivi, IV 796-799: “L’uomo il quale, fermo nelle sue opinioni, ritiene eccelso quel che egli stima di più al mondo, per la stessa ragione giudica volgari tutte le altre cose […]. Quel che egli trova pregevole nei dati dei sensi o in un codice morale o nel pensiero, a questo aggrappandosi ogni altra cosa considera vile. […] Perciò il bhikkhu non si fissi su ciò che vede, ode o pensa, o su di un codice morale. Non si abbandoni a speculazioni d’ordine teorico o pratico intorno al mondo”.

[33] Sutta nipata, IV 839. Si noti: “e nemmeno nel negare…”, che è la forma inversa, e speculare, dell’attaccamento e dello spirito di parte.

[34] Madhyamaka karica, XVIII, 8-9.

[35] Nagarjuna, Laude all’Inconcepibile, III, 36-37, ed. in Le stanze..., cit., p. 174.

[36] La letteratura shunyavada che precede la sistemazione di Nagarjuna.

[37] R. Otto, Il sacro, ed. Se, Milano 2009, p. 44.

[38] Disturba non pochi pensare, nel nostro zen occidentale, che la tematica della “Vacuità” debba avere a che fare con la “trascendenza” e la mistica. La “Vacuità” diviene allora, secondo una lettura inaugurata nel mondo cinese in relazione col neotaoismo e di lì passata nello zen giapponese, la “totalità” interdipendente e autosufficiente dei fenomeni (l'”autogeno” di Wang Bi e Guo Xiang), conclusa in se stessa, in una sorta di panteismo naturalistico che ha perso la “via negativa” e la tensione alla trascendenza di Nagarjuna. È da noi la “vulgata” corrente dello zen fra non pochi “maestri” di formazione, diretta o indiretta, giapponese (tutto è l’universale “energia” e le sue mobili configurazioni, cui “legge” è l’interdipendenza, “en gi”, si può leggere in Deshimaru, cfr. T. Deshimaru, Le sutra de la grande sagesse, ed it. a cura dell’AZI, Parigi 2011, p. 69). Rinvio, su questi punti, al mio Itinerari zen e oltre, Ed. clandestine, Marina di Massa 2015, p. 142 segg.

[39] Tu-shun, Kunan-men, III, 2: “Poiché il Dharmadhatu nella sua interezza pervade tutti i dharma [fenomeni], questo singolo granello di polvere, essendo esso pure come il Principio [“Li”, ovvero il “Dharmadhatu”], è anche interamente presente in tutti i dharma. Come per il più piccolo granello di polvere, così è anche per tutti i fenomeni”. Il Kuan-men è il testo fondamentale della scuola Huayan, opera del suo fondatore, Tu-shun (o Dushun). Per l'edizione italiana (che riprende il testo inglese di R. Gimello), cfr. Vertici della metafisica tra Cina e Occidente. Testi di tu-shun e di Nicola cusano, Ed. Clandestine, Marina di Massa 2018. In questa edizione, da me curata, sono messi a confronto Tu-shun e Nicola Cusano, di cui è fornita un'ampia antologia di testi.

[40]  De docta ignorantia II, 5; la “contractio” di cui qui si dice, termine desunto da Duns Scoto, è l'individuazione, per cui la “forma” comune, generica e specifica, “contrahitur ad hanc rem”, “è contratta ad essere questa cosa”, costituendone l'”haecceitas” e fondandone il valore assoluto, come in Tu-shun tutto l'oceano è “contratto” in ogni sua singola onda. Cfr. anche Apologia, ed. Federici-Vescovini, in N. Cusano, Opere filosofiche, UTET, Torino 1972, p. 409: “Chi spinge l'occhio della mente nella singolarità assoluta di tutte le singolarità, vede che l'universalità assoluta coincide con la singolarità assoluta, come il massimo assoluto coincide con il minimo assoluto, in cui tutte le cose sono Uno”.

[41] L. Mazzocchi, Le onde e il mare, cap. IV (Lettera di Padre Marco al monaco Heizen), pp. 48 segg.: “Il buddhismo appare come una serie interminabile di pratiche, una dietro l’altra per non lasciar trapelare la nudità della vita così com’è. Appare come un’attenzione portata alle stelle per tenere in piedi un’apparenza di vita che però non è la vita stessa. […] Quasi un gioco degli specchi attraverso le pratiche di meditazione, per cui il buddhista vede il suo sé riflesso infinite volte, da specchio a specchio, e chiama questa fuga di riflessi, che moltiplica il sé a perdita d’occhio, il Sé universale. [...] Il buddhismo, dopo tutto, rimane inquinato di narcisismo, perché fin dall’inizio il buddhista scioglie l’alterità dell’altro dentro il suo sé e non può più instaurare un vero confronto con l’altro, dato che l’altro non gli è più un vero altro. Nel buddhismo non c’è, infatti, un attimo in cui l’altro sia consistente, da trattare con la serietà con cui si tratta ciò che è esistente come se stesso. [...] Quando [voi buddhisti] toccate con mano che non è del tutto reale che l’altro sia solo una proiezione o un prolungamento del proprio sé – forse perché qualcosa realmente si oppone ostinatamente alle vostre aspirazioni più profonde – procedete oltre a dichiarare che nemmeno l’io che si scontra con tali ostacoli è consistente. Non esiste né l’altro, né l’io. Così vi ritirate dentro la tranquilla convinzione che tutto è 'vuoto'; così spegnete il colorito dei volti, la varietà delle cose”. Non si fraintenda questa pagina: Padre Mazzocchi è tanto cristiano quanto buddhista. Ciò che qui è preso di mira è un rischio profondo nella pratica buddhista di vita, un limite non accidentale, in cui si incorra per un superficile travisamento, ma inerente nel profondo alla visione buddhista. Nello stesso libro, nella Lettera del monaco Heinzen a Padre Marco sono messi a nudo impietosamente, nel confronto col buddhismo, i limiti della visione cristiana tradizionale. 

[42] L. Mazzocchi, ivi, pp. 211-212.

[43] Agamben così riferisce il passo in quesione, che vale la pena di meditare attentamente, proprio nell'ottica dell'”interdipendenza”: “Secondo il Talmud, ciascun uomo ha due posti che lo attendono, uno nell'Eden e l'altro nel Gehinnom [Geenna]. Il giusto, dopo che è stato trovato innocente, riceve nell'Eden il suo posto, più quello del suo vicino che si è dannato. Il malvagio, dopo che è stato giudicato colpevole, riceve all'inferno la sua parte, più quella del vicino che si è salvato. Per questo nella Bibbia è scritto dei giusti: 'nel loro paese riceveranno il doppio', e dei malvagi: 'distruggili con una doppia distruzione'” (G. Agamben, La comunità che viene, Bollati Boringhieri, Torino 2001, p. 23). La “doppia distruzione” credo sia da intendersi come la punizione del malvagio nella Geenna e la “distruzione” della sua malvagità nell'Eden.

[44] L. Mazzocchi, Pensieri di vita, cit., p. 96.

[45] Comunità Vangelo e Zen, di L. Mazzocchi e G.J. Forzani, edito in Kosho Uchiyama, La realtà della vita. Zazen in pratica, EDB, Bologna 1993, pp. 135-136. Ivi, p. 144: “Nella comunità Vangelo e Zen l’eucaristia è celebrata dopo lo zazen. Eucaristia e zazen: pratiche opposte, eppure vere! Lo zazen fa vivere in me la memoria che il qualcosa che è il mio esistere proviene dal nulla. Perciò io lascio ciò che è mio pensiero, parola, azione e mi restituisco al nulla immacolato dell’origine. Affinché il successo non mi inorgoglisca e il fallimento non mi conduca alla disperazione. Dopo aver fatto memoria viva del mio nulla, con profonda devozione prendo fra le mani il qualcosa che è il mio esistere e celebro l’eucaristia, rendo grazie. [...] Nello zazen l’uomo si restituisce alla sua origine, nell’eucaristia mangia la sua meta, il punto finale che dà senso all’esistere: mangia Cristo e diventa Cristo. Lo Zen e il Vangelo sono veri, perché ogni uomo è vero nulla e vero qualcosa che esiste. Più è profondo il senso religioso dell’essere nulla e più è totale l’offerta del proprio qualcosa nella carità. ‘Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date’, ha detto Gesù (Mt. 10,8)”. 

[46] L. Mazzocchi, Le onde e il mare, cit., p. 234.

[47] L. Mazzocchi, Pensieri di vita. Ascoltando il creato, Ed. Paoline, Milano 2014, p. 225.Sulla resurrezione, ivi, pp. 96-98: “Sì, risorgo in Cristo, ma il Cristo è in me, in ogni realtà, nel chicco di grano. Tutto l’esistente è permeato dalla legge cristica della resurrezione […] Quando [si accende nel nostro intimo] la visione che l’essenza di tutto non è alcun Io personale, ma è l’intima natura dell’amore di Dio da cui tutto proviene, in cui tutto scorre e a cui tutto tende, allora il passaggio, la Pasqua avviene. Tutto muore e tutto risorge: manifestazione cristica”; ivi, pp. 159-160: “Antonio Rosmini […] testimoniava che il corpo di Gesù, immolato sulla croce, risorse trasformato in pane, e il suo sangue in vino. E' la reincarnazione cristica di Gesù in cibo e bevanda, a sostegno della salvezza universale. […] I teologi inventarono una parola difficile: transustanziazione. Ossia interpretarono che il pane e il vino nella messa cambino sostanza e diventano il corpo e il sangue di Gesù. […] Chi nel suo pensiero pone la persona sopra la natura, fa fatica ad accogliere che Gesù sia risorto in cibo e bevanda. Gli pare un abbassamento di dignità, come se l'Io personale di Gesù fosse trascurato. Chi venera la natura come fondo ultimo di tutto quanto esiste, compresa ogni forma personale, riconosce con gioiosa semplicità che Gesù risorto è pane e vino eucaristico”. 

[48] Il “muni” (monaco-mendicante), per cui “non esiste né l’io né il non io” (Sutta nipata, IV 858), “ha rinunciato all’esistenza e alla non esistenza” (ivi, III 514), poiché è “nel desiderio, nelle passioni e nelle brame che si fondano la speranza e l’attesa di uno stato futuro da parte dell’uomo” (ivi, IV, 863).

[49] Tm. 3. Insegnava un filosofo e maestro gnostico del sec. II, Monoimo l'Arabo: “Lascia la ricerca di Dio, la creazione e altre questioni consimili. Cercalo partendo da te stesso. Apprendi chi è dentro di te a rendere ogni cosa propria e a dire: ‘Mio Dio, mia mente, mio pensiero, mia anima, mio corpo’. Conosci le fonti del dolore, della gioia, dell'amore, dell'odio […]. Se esamini attentamente tali questioni troverai Dio in te stesso” (Ippolito, Refut., VIII, 15, 1-2).

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