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La via del pluralismo

di Claudio Torrero (Bhante Dharmapala)

 

panikkar a tavertet

Questo mio intervento muove da una duplice premessa.
Da un lato il pluralismo può davvero dirsi la condizione spirituale del nostro tempo, in quanto è ormai nel senso comune che la propria tradizione culturale e religiosa coesista con altre, e sia ben difficile far valere, rispetto a esse, un valore di verità maggiore. Qualora lo si rivendichi, è quasi inevitabile il sospetto che si perseguano altri scopi che non la verità.
Dall’altro si tratta di una condizione per la quale ancora mancano categorie interpretative adeguate. Soprattutto c’è la paura di cadere nel relativismo. Se quello in cui io credo non ha un particolare rilievo rispetto a quello che altri credono, finisce per apparirmi destituito di valore. Il fatto di sapere che ciascuno crede in qualcosa non aiuta più di tanto a orientarsi nella vita.
Tutto ciò richiede un quadro culturale nuovo, ma prima ancora un cammino personale che ne illumini dall’interno il senso. E poiché tra i due aspetti non è scontato che vi sia coincidenza, tanto maggiore ammirazione merita Raimon Panikkar, la cui vita e la cui opera sono davvero un simbolo di questo nostro tempo.   
È plausibile che di tutto ciò egli si sia reso cosciente a poco a poco, e per lo più allusivamente l’abbia comunicato.
Quello che innanzitutto è lecito vedervi è un’esperienza – e la volontà di riconoscervi un significato. Un’esperienza inscritta già nella condizione di nascita, con quel padre indiano giunto per singolari vie a Barcellona - e la condizione in cui nasciamo si ritiene in India che già contenga il karma, cioè le propensioni, gli ostacoli e le opportunità in cui si colloca il cammino di questa vita.
Non può quindi stupire che il giovane Raimon, avvertita in sé la vocazione a diventare sacerdote nella religione cattolica materna, abbia poi deciso di partire per l’India. A quale scopo? Sul piano del progetto consapevole, per scoprire il Cristo che gli hindū non sanno di conoscere, e che in verità conoscono sotto altri nomi e forme. Su un piano più profondo - possiamo ora dire - per perdere se stesso anche come cristiano, al fine di ritrovarsi in un più ampio orizzonte spirituale, dove l’identità cristiana si unisce ad altre non più ormai incompatibili. La sua frase più famosa, con cui descrive la propria vicenda umana e spirituale, è: “Sono “partito” cristiano, mi sono “scoperto” indù e “ritorno” buddhista, senza avere mai cessato di essere cristiano”[1].
Si tratta di un’esperienza che Panikkar non esitò a qualificare come “l’avventura mistica di vedere la verità dall’interno di più di una tradizione religiosa”[2]; il cui valore non doveva intendersi soltanto sul piano personale. “Sembra che con me inizi una nuova linea”[3], scrisse infatti nel suo diario, con trepidazione vicina allo sgomento, il 5 agosto del 1977.

Si può oggi dire con certezza che effettivamente Panikkar abbia identificato la sua vicenda con un punto di svolta nella storia delle religioni e della coscienza culturale umana. Qualcosa di cui è ben difficile parlare, ma a cui quel che si dice, se inteso nel verso giusto, allude. Come una tessera volutamente non collocata nel mosaico, che tutte le altre però in qualche modo presuppongono.
Come diversamente intendere la sua scelta di compiere grandi atti simbolici, come il pellegrinaggio insieme all’amico Le Saux alle sorgenti del Gange e quell’altro, ormai in tarda età, intorno al monte Kailaśa, sacro a varie tradizioni asiatiche?
In ogni caso la coscienza di ciò che la sua vicenda implicasse dev’essere davvero maturata gradualmente. Non a caso l’interpretazione più ampia e profonda del senso del suo percorso si trova nel libro a cui lavorò per quarant’anni, e che uscì nell’edizione definitiva solo nel 2006, quattro anni prima di morire. Parlo de Il silenzio del Buddha. Un a-teismo religioso. Così egli scrive:

Quando all’inizio degli anni sessanta cominciai a lavorare alla stesura di questo libro, avevo già raggiunto la confluenza del cristianesimo con l’induismo, ma non si era ancora sufficientemente delineata la mia identità personale, né mi ero liberato di certi elementi circostanziali non assimilati. Mi mancava ancora di integrare con profondità intellettuale e intensità esistenziale il grande fenomeno post-cristiano, noto con il nome di ateismo, e il grande fenomeno post-hindū, noto con il nome di buddhismo. Soltanto ora, dopo molti anni, mi rendo conto del significato profondo della mia odissea.[4]

Merita osservare che in questo libro addirittura non si parla più dell’induismo, e la triplice identità dell’autore viene in altro modo definita. Queste le sue parole:

Vorrei nello stesso tempo essere fedele all’intuizione buddhista, non allontanarmi dall’esperienza cristiana e non separarmi dal mondo culturale contemporaneo.[5]

È lecito supporre che, avendo egli “già raggiunto la confluenza del cristianesimo con l’induismo” – e sicuramente in ciò si collegava al percorso di Le Saux -, sentisse di poterli tranquillamente collocare in un unico alveo: quello di una religiosità universale che nelle sue diverse forme scorre nelle vene dell’umanità.
Il punto invece ora cruciale è che vengono posti in stretto rapporto due fenomeni apparentemente lontani nello spazio e nel tempo: “il grande fenomeno post-cristiano, noto con il nome di ateismo, e il grande fenomeno post-hindū, noto con il nome di buddhismo”. Ciò che li collega viene espresso nel sottotitolo dell’opera: Un a-teismo religioso.
Se di per sé la cosa non stupisce, si deve al fatto che sia ben consolidata nella cultura occidentale la visione del buddhismo come religione atea: la quale, per quanto discutibile, acquista tuttavia in Panikkar un significato inedito.  

Può esistere, a rigore, una religione atea? Se per ateismo s’intende anti-monoteismo la risposta del Buddha è drastica: solo una religione atea può essere veramente religione; il resto è pura idolatria, adorazione di un Dio opera delle nostre mani o della nostra mente.[6]

Sono parole che scavano un abisso. Andrebbe per inciso ricordato che per Panikkar il cristianesimo a rigore non è un monoteismo, perché il suo fondamento è trinitario. Ma in primo piano è l’affermazione sconvolgente che una religione autentica non può che essere atea, altrimenti è idolatria; affermazione che viene ricondotta al Buddha, dove però il senso di tale attribuzione, non avendo essa letteralmente fondamento storico, è tutto da capire.

Manca il tempo per ricostruire in questa sede il grande affresco che in quell’opera, Il silenzio del Buddha, Panikkar delinea dell’intera vicenda umana. Un affresco che è possibile tracciare perché quel che si sta oggi vivendo è un momento decisivo di trasformazione, alla cui luce i passaggi precedenti acquistano significato.
In estrema sintesi si potrebbe dire che la grande impresa dell’Occidente, di cui sono espressione tanto il monoteismo quanto la scienza, ha la sua radice nella duplice identificazione del divino con l’Essere e dell’Essere col pensiero umano. Ne è scaturita la potente convinzione che la mente umana possa cogliere in modo univoco e completo la realtà. Una convinzione che è alla base di un grande successo storico, ma di altrettanto grandi conflitti – tra cui in epoca moderna quello tra religione e scienza - e che comunque è destinata a crollare quando a un certo punto la crisi dell’Essere, inteso come identico col pensiero, trascina con sé anche Dio, determinando così l’evento della morte di Dio quale è rappresentato da Nietzsche.

Dio è morto perché era stato identificato con l’Essere ed ecco che risulta che questo Essere dell’ontologia scompare e diventa problematico. Il significato primo della morte di Dio significa il rifiuto di qualsiasi meta-fisica, la negazione cioè di qualsiasi realtà che vada oltre a quanto i sensi certificano. [7]

Per meglio comprendere questo passaggio occorre pensare al moderno ateismo come un ateismo religioso, in quanto caratterizzato da una ricerca di salvezza che è normalmente tipica delle religioni.

Intendiamo dire che è un ateismo che «salva» l’uomo dagli artigli di una trascendenza alienante (senza la corrispondente immanenza), che lo libera dalla superstizione come dalla credulità nella scienza. E una delle funzioni di ciò che chiamiamo «religione» è quella di cercare una «salvezza», comunque la si voglia intendere. Si tratta di un ateismo che, vincendo l’illusione del passato e il miraggio del futuro, si trova nuovamente di fronte al presente e si vede obbligato, in un modo o nell’altro, a riconoscergli tutta la consistenza che gli «eternalisti» vorrebbero conferirgli senza però sostanzializzarlo, senza convertirlo in eternità, in altro (aliud), in idolo. [8]

In quest’ultima citazione c’è un esplicito accoglimento della critica della religione espressa dall’Occidente moderno, con un senso però mutato, in quanto paradossalmente dischiude un nuovo tipo di esperienza religiosa. Un’esperienza il cui carattere è di essere radicalmente volta all’immanenza del presente, senza più lasciarsi distogliere dall’idea di trascendenza e neppure dall’idolo dell’eternità. Un’esperienza che, colta in questo nucleo profondo, presenta singolari analogie con ciò che colleghiamo, nell’India di due millenni e mezzo or sono, al Buddha.  

È per questo che l’incontro col Risvegliato acquista valore epocale. Perché svela il senso profondo della condizione spirituale odierna; andando oltre quell’accoglimento banale della morte di Dio che genera la caduta nell’antropocentrismo.

A che serve demitizzare Dio, ci sembra dire il Buddha, se poi mitizziamo l’Uomo? Che vantaggio si ha nello scoprire che Dio può benissimo mutarsi in idolo se poi mettiamo al suo posto l’uomo? [9]

Tanto profonda e creativa è la comprensione che Panikkar ha dell’ispirazione buddhista, da poterla trasferire nel cuore del pensiero occidentale, cogliendone addirittura il nodo più cruciale. Se ciò in cui l’uomo occidentale è rimasto imprigionato è la sua pretesa di afferrare l’Essere, la liberazione scaturisce dalla rinuncia ad essa. Si può dire, in termini classicamente buddhisti, che le cose sono intrise di sofferenza (dukkha), impermanenti (anicca) e senza identità (anatta), proprio perché il pensiero umano vive la costante frustrazione dell’impossibilità di afferrarle. Solo la piena consapevolezza di tale impossibilità, e la rinuncia che ne consegue, può pacificarlo.
Si tratta di una rinuncia che ha implicazioni decisive ai vari livelli: dalla vita personale alle sorti planetarie. In questo Panikkar si inserisce in un’ampia corrente di pensiero che riflette sulle conseguenze distruttive dell’atteggiamento appropriativo tipico dell’uomo occidentale, e sotto questo aspetto non è difficile cogliere un costante confronto con Heidegger. Ma c’è ancora di più.
Si può dire senza mezzi termini che egli si sia posto il problema se la comprensione della condizione dell’uomo moderno non debba tradursi in un nuovo tipo di cammino spirituale, capace di dar forma a esigenze e aspirazioni sotto alcuni aspetti diverse dal passato. È molto significativo che così scriva:

Nonostante siano già comparsi in questi ultimi secoli grandi figure profetiche e pensatori di notevole importanza, non si è visto nessuno che, come un Śākyamuni, un Zarathustra o un Confucio, sia stato in grado di personificare questo movimento e di dirigerlo, di «sublimare», di «far precipitare» (nel senso chimico della parola) o, per lo meno, di aiutare a venire alla luce questo «uomo nuovo» ancora in lenta gestazione. Sino a ora si è cercato soprattutto di gettare le basi di un comportamento sociale, sociologico ed economico, ma non si è quasi affrontato il problema da un punto di vista profondamente religioso, teologico-filosofico e antropologico che tenga conto di questa mutazione umana in senso strutturale. [10]

Sono parole che gettano una luce molto chiara sulla consapevolezza che egli ebbe del senso della sua opera: quell’avvertire che da lui avesse inizio “una nuova linea”.
Il fatto che il contesto in cui sono inserite sia quello del confronto con il Buddha dovrebbe rendere i buddhisti particolarmente consapevoli del senso dell’insegnamento che è stato loro affidato, anche al di là delle forme culturali attraverso cui si è tramandato lungo i secoli; ma questo porsi radicalmente “di fronte al presente… vincendo l’illusione del passato e il miraggio del futuro” non è che la forma spirituale oggi emergente, su cui nessuno ha diritti di proprietà e che al tempo stesso può esprimersi nel linguaggio di ciascuno.
In termini cristiani infatti la rinuncia alla pretesa del pensiero di afferrare l’Essere, che mette in grado
finalmente di accoglierlo, non è altro che la Grazia.

L’Essere è Grazia, nel senso più profondamente filosofico (e, per i conservatori, teologico).[11]

La nuova forma è insomma necessariamente pluralistica. Non può non esserlo, proprio perché, avendo rinunciato a esprimere l’Essere in modo univoco, si può e si deve accogliere il suo manifestarsi nella pluralità dei linguaggi umani.
Panikkar ha vissuto l’esperienza del pluralismo nell’intimo della sua persona. È stata “l’avventura mistica di vedere la verità dall’interno di più di una tradizione religiosa”. Come tradizionalmente si ritiene che la ricerca di Dio culmini nel naufragio della propria mente in Lui, con analoga esperienza estatica egli ha vissuto la compresenza delle diverse prospettive spirituali, che non si escludono ma misteriosamente si compenetrano. Scrive in una pagina di straordinaria intensità:

Posso comprendere e anche parlare più di una lingua come se fosse la mia. Vale a dire che posso pensare all’interno di un dato universo linguistico senza bisogno di tradurre da un altro. Ciò naturalmente si applica anche alle religioni in quanto lingue.
(…)
Sono un cristiano che Cristo ha condotto a sedersi ai piedi dei grandi maestri dell’induismo e del buddhismo diventando anche loro discepolo. (…)
Ma questo non è tutto. All’altro estremo dello spettro posso compiere passi analoghi. Sono un hindū portato dal suo karman a incontrare il Cristo e un buddhista che grazie all’impegno personale ha conseguito risultati simili nelle altre due tradizioni.
(…)
Qual è allora la mia religione? Non appartengo simultaneamente a tutte e tre? O piuttosto non vengono armoniosamente trasformate in me? Non sono forse le acque del Bhāgirāthī, dell’Alaknanda, del Gomati, dello Yamunā, del Ghaghra, del Son, dell’Assi, del Varuņa, tutte acque del Gange dopo un certo punto? (…) [12]

Non può sfuggire che sia le lingue sia le acque sono potenti metafore dello Spirito.
Quel che si può con chiarezza dire è che la scoperta di riuscire a intendere e parlare più di una lingua spirituale ha il potere di strappare da un’identificazione che, per quanto generalmente indispensabile affinché il cammino personale non si disperda, può facilmente diventare troppo angusta e altrettanto facilmente trasformarsi in idolo.
Sembra di udire le parole del Buddha in un celebre sutra[13], quando paragona il proprio insegnamento a una zattera che serve per raggiungere l’altra riva. Quando l’attraversamento sia compiuto, è il caso di procedere caricandosela sulle spalle?
Dobbiamo allora forse chiederci: a cosa mira il cammino spirituale? Ad attraversare il fiume o a compiacersi della propria zattera?

Può darsi che, nella coscienza del nostro tempo, la questione stia davvero maturando. Una spontanea e sempre più diffusa tolleranza e accettazione della fede altrui, unita al rifiuto di ogni esclusivismo, potrebbe esserne il segno. Non bisogna pensare solo a derive relativistiche conseguenti all’indebolimento della fede, come accusano i nostalgici di separatezze comunque non più proponibili; ma davvero a una nuova condizione spirituale, coi pericoli e anche le risorse che le sono proprie.
Sotto questo aspetto un’esperienza come quella di Panikkar, apparentemente legata all’unicità della sua persona e comunicabile nella sua interezza a ben pochi, potrebbe in verità testimoniare quel mutamento della coscienza collettiva che dal punto di vista propriamente religioso non è stato ancora adeguatamente interpretato. In questo davvero si configurerebbe come un cammino spirituale di tipo nuovo.
In cosa si può pensare che consista? Bisogna provare ad esplorare quel che Panikkar intende con mutua fecondazione delle tradizioni.

Si legge ne Il silenzio del Buddha:

Nessuna cultura, nessuna religione può da sola risolvere il problema umano. (…) Da qui la necessità urgente di una mutua fecondazione fra le tradizioni umane, fecondazione che da vari decenni vado difendendo. Siamo vicendevolmente relazionati e la soluzione non potrà mai essere unilaterale. «Salus ex judaeis» (la salvezza viene dai giudei) poteva forse valere di fronte ai samaritani, ma non è un principio universale.[14]

Il testo dice di più di quanto paia a prima vista.
Non è solo il prendere atto di una condizione storica che richiede una soluzione creativa sul piano operativo, tipo: data la debolezza in cui oggi si trovano le varie tradizioni religiose rispetto a un mondo dominato da una logica ad esse estranea, non resta che collaborare. C’è invece una presa di coscienza globale, che riguarda ciò che le tradizioni sono in se stesse: dove si afferma che non sono autosufficienti, e nessuna pretesa di primato ha un valore davvero universale. L’universalità è data dall’essere “vicendevolmente relazionati”.
La mutua fecondazione scaturisce dunque dal riconoscimento di quella condizione, per cui tra l’altro ciascuna identità, essendo originariamente in relazione con altre, le influenza e ne è influenzata. Ma la consapevolezza di ciò non ha come conseguenza inevitabile la perdita del valore di verità di ciascuna, bensì può indurre a coglierlo in modo più diffuso e ricco. La prospettiva altrui diventa in qualche modo mia in quanto mi consente di vedere ciò che nella mia non avevo visto. E la verità altrui conferma e approfondisce la mia, anziché smentirla, proprio per il fatto di presentarmela in altra forma.
Non si deve pensare a una lingua nuova che sostituisca le esistenti, bensì a una nuova capacità di intendere più lingue secondo il senso loro proprio, cioè di significare quel che si trova al di là di esse. Dove i soggetti dialoganti si aiutano reciprocamente a distinguere la zattera dall’altra riva.
La mutua fecondazione diventa così un progetto esplicito e una pratica: il nuovo cammino spirituale, la “nuova linea” a cui Panikkar è consapevole di aver dato inizio.

Ciò richiede una reinterpretazione del senso della fede.
In un testo anch’esso dell’ultimo periodo, La porta stretta della conoscenza[15], nel quale ridefinisce il confronto tra cristianesimo e scienza moderna come confronto tra due cosmovisioni[16], Panikkar afferma che la fede è conoscenza, sia pure una conoscenza del tutto particolare, in quanto priva di oggetto.

La fede è un’esperienza cosciente e quindi è anche conoscenza, ma è una conoscenza che non ha oggetto, non è oggettiva, senza per questo essere solo soggettiva. (…) La fede non è conoscenza di una verità oggettiva; è piuttosto consapevolezza di una vacuità non soggettiva. È l’apertura all’invisibile (Eb XI, 1). [17]

Così intesa, la fede va distinta dalla credenza, sebbene di essa comunque si rivesta.

La fede è quella «facoltà» propria dell’uomo di aprirsi coscientemente (non necessariamente con la riflessione) a… l’Infinito, Dio, il Nulla, lo Sconosciuto, il Vuoto, ecc., dove ogni nome è già di troppo perché la fede a rigore non ha oggetto. Per menzionare l’«oggetto» della fede lo si deve interpretare secondo le categorie proprie di ogni cultura. Queste interpretazioni costituiscono le credenze che caratterizzano le diverse visioni della realtà secondo le differenti religioni e cosmovisioni. Anche l’espressione «fede cristiana» è fuorviante, poiché indica l’interpretazione cristiana della fede, cioè la credenza cristiana. Se si parla di fede cristiana, hindū, islamica, atea, scientifica… vuol dire che il sostantivo (fede) deve avere un senso a se stante in relazione trascendentale con i rispettivi aggettivi. La fede si manifesta sempre in una credenza. [18]

Si può senz’altro dire che la nuova via che Panikkar ha tracciato, pur snodandosi attraverso il multiforme scenario delle credenze così come si è configurato nei secoli e i millenni, e senza mai prescindere da esse e dalla collocazione personale di ciascuno, è indirizzata all’apertura originaria da cui tutte scaturiscono. Oppure, riprendendo la metafora dei corsi d’acqua, al grande fiume in cui tutti gli affluenti confluiscono.

 

Pubblicato in Ritorno alla Sorgente. Raimon Panikkar tra filosofia, teologia e missiologia, Urbaniana University Press, Roma 2019

 

[1] Raimon Panikkar, Il dialogo intrareligioso, Cittadella Editrice, Assisi 1988, p. 60

[2] Raimon Panikkar, op. cit., p. 133

[3] Raimon Panikkar, L'acqua della goccia. Frammenti dai Diari, Jaca Book, Milano 2018, p. 89.

[4] Raimon Panikkar, Il silenzio del Buddha. Un a-teismo religioso, Mondadori, Milano 2006, pp. 25-26

[5] Ibidem, p. 5

[6] Ibidem, p. 164

[7] Ibidem, p. 207

[8] Ibidem, p. 170

[9] Ibidem, p. 162

[10] Ibidem, pp. 165-166

[11] Ibidem, p. 135

[12] Raimon Panikkar, Identità religiosa e pluralismo, Opera Omnia, VI/1, pp. 89-90

[13] Majjhima Nikāya, 22 (Alagaddūpamasutta)

[14] Ibidem, p. 31

[15] Raimon Panikkar, La porta stretta della conoscenza, ed. it. Rizzoli, Milano 2005

[16] Raimon Panikkar, op. cit., cap. I,II,III

[17] Ibidem, pp. 211-212

[18] Ibidem, pp. 25-26

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