L’eterno e il tempo. Due note sul pensiero di Emanuele Severino

di Marcello Croce

 

severino

Il pensiero di Emanuele Severino, spentosi il 17 gennaio 2020, sembra imporre la metafora di una ininterrotta guerra di posizione a difesa di un ridotto solitario ai confini del tempo, cui sta di fronte l’intero pensiero occidentale da Platone a Husserl e a Heidegger. Ed è con la meditazione e sui temi fondamentali di quest’ultimo, già tema della sua tesi di laurea a Pavia sotto la guida di Gustavo Bontadini (“Heidegger e il problema della metafisica”) che Severino si radica e si misura: Essere, occidente, oblio dell’essere, senso del pensare filosofico, linguaggio poetico, salvezza della terra; però a difesa a oltranza della verità originaria enunciata da Parmenide a Elea (“L’essere è, mentre il nulla non è”) e mettendo in radicale discussione la linea maestra lungo la quale Heidegger costruisce la relazione dell’Essere con la temporalità.
Alla base della verità, per Severino, sussiste inoppugnabile il suo senso originario, che è l’identità. E ciò che è identico a se stesso è eterno, immutabile, necessario. Questo è l’Essere, la cui positività assoluta si oppone al nulla ed esclude perciò da sé ogni differenza spaziale, ogni mutamento temporale. È incompatibile col niente. Non bisogna però pensare a qualcosa di pietroso e quindi carente di vita, di parole ecc., perché al contrario è invece compiutezza in cui ogni possibile è reale. Come tale non dipende da nulla, nemmeno dal tempo e dunque anche è ingenerato.
Un’ambiguità interpretativa originaria, tuttavia, segna il corso della storia della filosofia allorché questa pregnante esclusione del niente dall’essere si trasformò, con Platone e con Aristotele, in una semplice opposizione, in cui la positività dell’essere è relativizzata attribuendo al nulla una sorta di umbratile possibilità di essere, che ricade sullo spinoso problema del divenire.

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Abbiamo fatto cenno all’idealismo “classico”, cattolico e poi tomista di Bontadini, al quale spetta quel ritorno al “principio di Parmenide” cui riportava il “fatto” di esperienza del divenire, accertato dal senso comune. L’essere dell’esperienza, che si intreccia col non essere (nella forma del non essere ancora/più; infatti è temporale, molteplice, mutevole ecc.), risulta come “minato” da un’insuperabile antinomia, andando a cozzare contro il grande principio eleatico, che Bontadini reintegrava con “l’essere non può essere originariamente annullato”.
Mutamento e molteplicità (e quindi connessione di due contrari, essere e non essere) da una parte e principio di non contraddizione dall’altra. Questo, come si sa, afferma l’impossibilità che qualcosa allo stesso tempo sia e non sia quello che è. Invece nel divenire temporale ogni istante risulta essere a un tempo sia prima che poi. E il divenire stesso, in quanto teatro del nascere e del morire di ogni ente, palesemente contraddice il suddetto principio parmenideo. Due opposte “verità” sembrano annullarsi tra loro: quella “logica” propria della coscienza che afferma il principio eleatico, e quella esperienziale della vita che invece constata il divenire.
“Salvare i fenomeni” era stata l’antica espressione nella quale la filosofia greca post-eleatica aveva cominciato a “riformare” il pensiero dell’Essere che (solo) è, enunciato da Parmenide. Bontadini giungeva alla soluzione dell’antinomia richiamandosi alla dottrina cristiana della creazione ex nihilo, e quindi al postulato dell’esistenza di un Essere immutabile ed eterno, che è al principio e al di sopra del divenire. Il divenire non potrebbe mai essere qualcosa di originario, perché se lo fosse si sarebbe subito annientato; ma una volta creato partecipa all’Essere, che lo rende a un tempo diverso e identico rispetto al suo Creatore. Seguendo il pensiero dell’Aquinate, Bontadini risolve la contraddizione volgendosi decisamente alla teologia tomista, pur riconoscendo che l’eternità del Creatore non può non coinvolgere anche gli enti creati: “L’ente, che è temporale in quanto empirico, è eterno in quanto divino”.
Filosoficamente si era tornati sull’antico e intrigato nodo dell’inizio della Logica di Hegel, che era stato messo in discussione anche da Giovanni Gentile, la cui ascendenza su Bontadini rimase sempre profonda.

Ma a questo punto l’allievo di Bontadini Severino respinge l’attestazione del senso comune, secondo la quale l’esperienza del divenire sarebbe un fatto inoppugnabile: il divenire, osserva Severino, l’essere del quale è addirittura qualcosa di semplicemente possibile e viene continuamente annientato dal non essere, altro non è che un’interpretazione che deriva storicamente dall’equivoco originario della filosofia greca (e poi metafisico-cristiana): quello dell’immissione del mutamento e della molteplicità nel cuore dell’Essere, risalendo al “parricidio” compiuto da Platone con la dottrina delle idee, e dopo di lui da Aristotele che osa enunciare “È necessario che l’essere sia, quando è ... e che il non essere non sia, quando non è”, ecc.  Proprio Platone, dice Severino, è l’autore “dell’aberrazione più profonda e più antica” in quanto stabilisce “quell’astratta separazione che pone l’essere e il determinato [l’ente] come due assoluti, come due luoghi assolutamente irrelati, cosicché il determinato proprio per questa sua assolutezza, cade al di fuori dell’essere, nel nulla”.[1]
L’esperienza, dice Severino, non ci insegna affatto che qualcosa trapassi dall’essere nel non essere: ciò che ora è, può certo uscire dal mondo dei fenomeni, come un foglio di carta che venga bruciato e quindi scompaia per noi: ma non cessa affatto di esistere. Se l’essere è eterno, le cose della terra appaiono e scompaiono, ma non vengono distrutte: “’Nascere’, ‘morire’, crescere’, ‘mutare’, generarsi’, ‘corrompersi’, ‘distruggersi’, sono i vari modi in cui l’essere compare e sparisce” (cioè, sono i vari aspetti assunti dall’essere nel suo apparire e sparire). Il divenire dell’essere, quale è contenuto nell’apparire, non è affatto un venire dal nulla e far ritorno al nulla, ma il processo del comparire e dello sparire dell’eterno essere immutabile”.[2]
Tutto ciò che appare (e poi scompare) dunque è l’Essere eterno.
L’apparire è un lasciar venire alla luce, uno svelare: “All’opposto dell’apparenza, che nasconde, l’apparire scopre, mette in luce. Per questo lato l’apparire è un trarsi indietro, o in disparte, come è tratto in disparte il sipario perché lo spettacolo possa esser veduto. Solo che nell’apparire non v’è traccia di ciò che si è tratto in disparte: è uno svegliarsi o un essersi da sempre già svegliati a scena aperta. Una negatività, dunque”.[3]
Che cosa implica l’apparire? Una coscienza. L’apparire è fenomeno della coscienza, della sua visione. L’apparire è l’atto della visione, la veduta è il vedere dell’occhio. Qui a mio avviso si manifesta il suo vero debito col pensiero di Gentile[4], la cui concezione dell’immanenza, nell’autocoscienza, realizza l’identità assoluta fra l’esperienza del mondo e l’eterno Atto della coscienza, attraverso un processo di autonegazione. L’attualismo bandisce ogni realtà posta come presupposto dell’atto di pensare, mettendone in luce da un lato l’imprescindibile carattere originario rispetto ad ogni pensato, dall’altra facendo coincidere, nell’autocoscienza, l’origine del pensiero con il pensato. Ovvero, se l’origine del pensiero è irriducibile ai suoi oggetti empirici, essendo l’orizzonte universale in cui questi appaiono, essa tuttavia diviene manifesta nell’autocoscienza perché coincide con l’attività pensante. Cosa significa questo per Severino?
Scrive ancora Severino sempre in “Essenza del nichilismo”: “Di solito ci si presenta l’apparire (il ‘pensiero’, la ‘coscienza’, il ‘soggetto’) come ciò, cui sia consentito di non avere come contenuto sé medesimo: l’apparire, si ritiene, può essere apparire delle cose, senza essere apparire del loro apparire. Eppure l’apparire è un predicato che conviene necessariamente alle cose che appaiono... L’apparire dell’essere è insieme, necessariamente, apparire di sé medesimo”.[5]

L’apparire di cui parla Severino è dunque l’essere stesso, eterna rivelazione di sé, auto-apparire. L’essere consiste nel rivelarsi e perciò l’apparire ha sempre la struttura di una coscienza. L’al di là del pensiero, cioè ciò a cui la coscienza empirica limita il concetto di realtà, tuttavia è già “dentro” il pensiero. Nella visione c’è non solo il vedere (quello che si vede) ma anche la coscienza che il vedente ha del suo vedere, che è anche l’eterna totalità, di cui la coscienza che vede è una parte.
Così in una nota, riferendosi al kantismo: “L’apparire entra cioè tutto nel proprio contenuto, vi appare senza residui: l’assoluta soggettività è assoluta oggettività. Solamente il presupposto dell’inobiettivabilità del pensare porta a ritenere che, pensando, si formi sì, all’interno del pensiero, uno spettacolo, ma che l’apparire dello spettacolo non faccia parte dello spettacolo stesso, ma se ne stia dietro le spalle come una sorgente luminosa che illumina le altre cose, restando essa all’oscuro, Ciò che sta alle spalle è invece ciò che insieme sta innanzi, la volta che ci sovrasta è il terreno su cui camminiamo, la sorgente che illumina si trova in compagnia delle cose illuminate. Nella verità dell’essere, l’apparire non è dunque semplice coscienza (un porre che non sia un porsi), ma autocoscienza, e cioè coscienza dell’autocoscienza”.[6]
In ciò che appare, perciò, appare anche il suo apparire. La coscienza è sempre anche autocoscienza, è la parola originaria che coincide con ogni dire, benché gli uomini non se ne accorgano: “L’apparire dell’essere è il dire originario ... l’originariamente detto è l’essere che appare”[7]
Scrive Severino: “Gli enti traversanti l’intramontabile cielo dell’essere sono l’accadimento. Lo sfondo non accade, ma è il fermo luogo che accoglie l’accadimento. L’essere appare eternamente nella sua verità e in questo apparire accade la fioritura dell’essere. Nel chiaro silenzio della verità l’accadimento è il prodigioso. Per quanto atteso, è infatti l’imprevisto”.[8]
L’apparire dell’immutabile è dunque “processuale” e solo parzialmente si rivela, ”perché lascia venire in luce di volta in volta le determinazioni dell’essere. La categoria della possibilità infatti “non è nell’essere, ma nell’apparire dell’essere”. E la storia “è il processo del comparire e dello sparire dell’eterno” [9]. La parte è nel tutto ma, apparendo, non appare il tutto in cui essa dimora.
Perciò nell’apparire finito la verità eterna si presenta come contraddizione, perché viene lasciato apparire come ‘tutto’ quello che non è ‘il tutto’, ma solo il suo “significato formale”. Ciò che appare infatti è sempre finito. Allora, un “accadimento prodigioso” è destinato alla terra, dove ha luogo la non verità. La terra attende salvezza perché “l’uomo non solo è eterno, come ogni altro ente, ma è anche il luogo in cui l’eterno eternamente si manifesta”.[10]E “questo “accadimento della terra è l’orizzonte originariamente voluto, in cui è voluta ogni cosa che vogliamo”. [11]

La filosofia è il luogo in cui la verità dell’essere si manifesta come orizzonte trascendentale: “E la filosofia è l’emergere di questo ascolto essenziale – in cui appunto consiste l’essenza dell’uomo – una volta che sia stato deposto ogni altro ascolto”. [12]
Confrontiamo con un passaggio di Gentile, tratto dal secondo volume della Logica (Parte IV, VI) pubblicato nel 1922: “.. quel presente, che non si distende né nell’ultimo secolo, né nell’ultimo cinquantennio, …, e neanche nell’ultimo anno, o mese o giorno o ora; ma si ritrae e raduna e unifica, consolidandosi nell’unità attuale del presente eterno, fuori del tempo, là dove si attua il pensiero”.

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È però altrettanto vero, come abbiamo detto, che invece Severino poneva Gentile, con Nietzsche e con Leopardi, nel “sottosuolo” dei grandi maestri del nichilismo, distruttori di ogni illusione circa l’esistenza di “immutabili” che rendano plausibile il divenire. Maestri che pertanto rivelano “l’isolamento della terra” dalla sua verità. Il nichilismo si estende come un processo irreversibile, secondo il quale l’uomo convive con la certezza di essere mortale, pur nutrendo in sé stesso, nel profondo, il presentimento dell’eterno. Vi è, millenaria, una volontà degli uomini di credere che gli enti, in quanto sono, sarebbero potuti non essere (sono cioè soltanto come possibili). Follia suprema: volere che le cose che sono, siano un niente.
Diceva Severino che l’alienazione dell’Occidente in questa fase della sua storia, segnata dall’avvento della tecnica e perciò dalla dissoluzione della tradizione dell’uomo occidentale, celi nel suo sottosuolo i pensatori/profeti del suo destino, l’annuncio (prima Leopardi, poi Nietzsche) dell’impossibilità di “trattenere” la “morte di Dio” con l’appello ai valori millenari del passato. In questa terra bruciata, sostiene Severino, Gentile compie la storia del pensiero occidentale mettendo l’uomo davanti a una libertà assoluta, all’Atto che attribuisce all’uomo la creatività divina perché “in che modo lo incontreremmo [Dio] se in esso non fossimo noi stessi con la nostra persona, che ha fuor di sé cose e persone e Dio”? (Logica, IV, VIII). Bruniano, l’uomo di Gentile diviene il centro di un’eterna cosmogonia.
La “protesta” della metafisica contro “le presunte esorbitanze della tecnica” nascondono il fatto che la tecnica “porta alle ultime conseguenze”, cioè nella forma estrema di nichilismo, ciò che sta alla radice della stessa protesta. E’ questo il senso dell’isolamento della terra: “La scienza è infatti il supremo criterio operativo della tecnica, e la scienza moderna nasce sulla base della più rigorosa fedeltà all’assunto metodico di porre la terra (l’accadimento) come l’unico terreno sicuro di indagine. La scienza non vuole occuparsi di nient’altro che delle cose della terra.. Agli occhi della scienza, la metafisica fallisce perché si occupa dell’insicuro”[13]
Con il sopravvenire della progettazione tecnica dell’uomo degli ultimi secoli, in grado di proporsi la costruzione dello stesso orizzonte trascendentale del pensiero e della sua incorruttibilità, il “previlegio ontologico” dell’uomo, rispetto agli enti pensati, è dunque destinato al fallimento.
La terra, infatti, può apparire solo sullo sfondo della verità dell’essere: “Ciò vuol dire che l’apparire della terra, senza l’apparire dello sfondo, non è, ossia è un niente. Il pensiero, che pone la terra come la regione sicura, ossia come la totalità di ciò che appare, isola l’apparire della terra dall’apparire dello sfondo e quindi pensa il niente”.[14]

Severino evoca “il tempo sacro, dove l’uomo vive da ‘immortale’ e si lascia alle spalle il tempo profano dello sviluppo biologico” per concludere: “Quando i popoli non sono più capaci di vivere il tempo sacro, gli uomini restano solamente dei mortali e le azioni sacrali della vita diventano tèknai, aventi soprattutto il compito di assicurare e proteggere lo sviluppo biologico (id. pag.236).
Si schiude allora in queste pagine l’alternativa di un “tramonto” non della terra, ma della solitudine (cosmica) e dell’essenza mortale dell’uomo, allorché “non tramonta il soggiorno dell’uomo sulla terra, ma tramonta il mortale, e gli eterni custodi della verità dell’essere abitano sulla terra come immortali”. [15]Una salvezza? Da sempre tutto è stato già tratto in salvo. Gentile dichiarava il suo cattolicesimo; invece Severino vedeva nel monoteismo la concezione di un ordine eterno che domina tutto ciò che, tratto dal nulla, è destinato al nascere e al morire.
Ma se la storia del nichilismo si presenta come una interpretazione, allora “rimane la possibilità (e forse trapela il ricordo) di un’interpretazione diversa, e anche radicalmente diversa, di ciò che appare – e quindi la possibilità di un’interpretazione che non consenta di affermare il senso nichilistico della storia occidentale – beninteso “«possibilità» significando ormai l’incapacità, in cui ancora si trova il linguaggio che testimonia il destino della necessità, di testimoniare ciò che è destinato ad accadere”.[16]

marcello croce

           

 

[1] Essenza del nichilismo, Poscritto, pag. 71

[2] cfr. “Il sentiero del giorno”, in Essenza del nichilismo, pag. 161.

[3] id. pag. 162, corsivo mio.

[4] In realtà, come vediamo più avanti, l’orientamento di Severino è quello di considerare Gentile come la punta più avanzata in Europa della demistificazione nichilista, che mette in luce attraverso l'assolutizzazione del divenire l’impossibilità di “eterni” illusori atti a nascondere il processo dissolutore della storia.

[5] Poscritto, op.cit. pag.95,96.

[6] La terra e l’essenza dell’uomo, in op.cit. pag. 239.

[7] La terra e l’essenza dell’uomo, in op.cit., pag. 237, corsivo mio.

[8] (id. pag. 201, corsivi miei).

[9] (“id., pag. 197).

[10] La terra e l’essenza dell’uomo, in op.cit., 198.

[11] id., pag. 202.

[12] id., pag. 200.

[13] id. pag. 229.

[14] La terra e l’essenza dell’uomo, in op.cit. pag. 233, corsivo mio.

[15] id. pag. 235.

[16] Parte aggiunta, in Essenza del nichilismo, pag. 442.

 

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