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Panikkar nel contesto della teologia cristiana dell’India

panikkar anzianoLa teologia indiana da oltre un secolo è particolarmente “esplosa” come entità e qualità di studi, di ricerche e di orientamenti: ci sono varie catalogazioni che oggi cercano di interpretare quali siano i filoni della teologia indiana, secondo criteri che talvolta provengono dalla stessa teologia cristiano-indiana e talvolta dalla dialettica con altre teologie. Ad esempio si tende a raggruppare alcuni filoni teologici che vanno sotto le teologie della conoscenza. Poi vengono le teologie che privilegiano la via della Bhakti, poi quelle della reciprocità del dialogo, oppure, a volte, del pluralismo. Tali suddivisioni cercano evidentemente una consonanza e allo stesso tempo una reazione al contesto hindu.
Ci sono poi altre suddivisioni: mi limito a enunciarle.
Ad esempio ci sono coloro che parlano e catalogano, raccolgono sottovoce, bisogna pur fare l’eccezione alla relatività delle categorie, parlano di corrente mistica nella teologia indiana, poi parlano di teologia kali, teologia che si rifà a coloro che hanno assunto con contestualizzazione indiana molti dei suggerimenti e anche delle propulsioni della teologia della liberazione e sono particolarmente possenti in certe aree della teologia indiana. Si parla proprio di una teologia dalit che sostiene essa stessa di essere specifica. Poi c’è una teologia consona ma si distingue anche qui per radicamento contestuale, la teologia dei tribals, parte di popolazioni autoctone antiche non inserite nel sistema delle caste, polemicamente emarginati dalla tradizione e hanno sviluppato una loro teologia a partire dall’identità etnica. Poi c’è un altro filone che rientra sotto il nome di teologia ecumenica e qui abitualmente collocano Panikkar. Poi c’è una teologia che è sensibile alla ermeneutica e punta alla de-semitizzazione e risale alle sorgenti del cristianesimo per riporle ad altezza esegetica con le istanze del pensiero e della cultura indiani.

L’emergere della questione teologica in India avviene in condizioni aproblematiche, lungo la grande ondata di espansione dell’Occidente in India e Raimon Panikkar filosofo e teologo del dialogosoprattutto con alcune propaggini della teologia europea. Questa teologia si trasmette primariamente nella confessione anglicana, fortemente influenzata dalla concezione liberal, dominante all’inizio dell’Ottocento. In India si serviva delle strutture intermedie potenti del colonialismo inglese nella formazione elementare media e superiore e poi universitaria.
A questo punto il cristianesimo non aveva nulla da imparare dall’hinduismo, semmai ne criticava le sue varie espressioni. La reazione dei locali in prima battuta è disorientata: “la nostra cultura non è organizzata come quella degli inglesi, il nostro futuro sarà il cristianesimo, diventeremo come loro”. Questa convinzione corre nella prima metà dell’Ottocento, ma già verso la fine di questa prima metà emergono alcune significative reazioni di contrasto da parte di intellettuali hindu. In una seconda fase crescerà la consapevolezza di avere qualcosa da dire rispetto a ciò che viene trasmesso dal cristianesimo. Si sviluppano nuove tendenze a doppio versante: di assimilazione e di reazione critica, si tenta di prendere quanto è veicolato dalla presenza coloniale e dalla tradizione cristiana per riproporlo autonomamente in base alla propria visione del mondo.
Nella prima metà dell’Ottocento si comincia ad offrire una definizione/interpretazione dell’essenza del cristianesimo, di cui potersi appropriare anche come hindu, una sintesi per molti versi analoga a quella che aveva appunto proposto il cristianesimo nella versione liberal che contraeva il cristianesimo prevalentemente in grandi istanze etiche. Agli occhi di molti hindu esse si potevano accettare prescindendo dal fatto di essere o meno cristiani credenti. Quindi, presa di distanza e allo stesso tempo assunzione critica.
Nella seconda metà dell’Ottocento prende consistenza una fase di lavoro silenzioso che è anche di elaborazione teologica dapprima in forma del tutto embrionale, di letture che partono da una più profonda considerazione della tradizione hindu da parte dei cristiani e del cristianesimo da parte dei pensatori hindu.
In questa fase apparentemente silenziosa sembra che tutto continui senza mutare nulla, la teologia cristiana è ufficialmente sempre quella che si assume in Occidente, appare aproblematica: questo è il cristianesimo, “o prendere o lasciare”. Ma cattolici, protestanti, anglicani cominciano ad introdurre l’idea che bisogna conoscere più a fondo il mondo hindu. Potremmo dire che è qui l’humus da cui emergerà la grande serie di intellettuali occidentali che hanno una conoscenza altissima della lingua, curano pubblicazioni scientifiche, sono in grado di proporre all’Occidente una visione ignota dell’hinduismo. Si trasmette una quantità di ricerche e di analisi scientifiche impressionanti per mole e profondità, carenti nella stessa tradizione hindu, poco incline alle costruzioni sistematiche e ancor meno dal punto di vista della ricerca storico-critica e testuale di cui era invece ricchissimo l’Occidente.
Dall’interno dell’hinduismo cominciano a pervenire reazioni non più accomodanti ma di più profondo confronto e di più esplicita istanza spirituale. Qui si colloca tutta una serie di tentativi, di cui cito solo la “Rāmakŗșņa Mission”, che parte dall’esigenza di fare esperienza complessiva spirituale del cristianesimo e di altre religioni, e poi dirsi come hindu (qualcosa di Panikkar era già presente in questa impostazione di Rāmakŗșņa): “farsi e restare”, che Panikkar poi definirà dialogo intraculturale. Non si hanno ancora interpretazioni analoghe dal punto di vista cristiano nelle correnti dominanti, ma una persona va citata: Brahmabandhab Upadhyay (1806-1907)[1]. Appartenente lui stesso alla casta alta e colta della società, accetta il cristianesimo e fa un percorso in cui comincia a formulare la possibilità di capire se stesso come cristiano a partire dal profondo della propria realtà hindu. Rimane tuttora una delle stelle polari della teologia indiana, al punto tale che, se si dovesse adoperare un termine che corre, ad esempio, nella tradizione teologica cinese così impalpabile oggi, è una sua ‘colonna’. ‘Colonne’ sono infatti chiamati tre teologi laici del Seicento che secondo alcuni sono a tutt’oggi gli unici veri teologi cinesi. Così Upadhyay riesce a formulare la propria fede cristiana senza perdere il fondo della propria realtà hindu. È lui che formula un Credo che viene ancora oggi recitato in alcune chiese dell’India, l’Inno Trionfale:

“Mi inchino a Lui che è l’Essere, Coscienza e Beatitudine.
Mi inchino a Lui che spiriti mondani detestano, a cui animi puri aspirano,
Suprema Dimora.
Egli è il Supremo, L’Antico dei giorni, il Trascendente,
Plenitudine indivisa, Immanente eppure al di sopra di tutte le cose,
Triplice relazione, pura, irrelata,
conoscenza oltre ogni conoscere.
Il Padre, Sole, Supremo Signore, ingenerato,
la Radice senza radice dell’albero dell’esistenza,
la Causa di tutto, Creatore, Provvidenza, Signore dell’universo.
La Parola infinita e perfetta,
la Suprema Persona generata,
Partecipe della natura del Padre, Consapevole per essenza,
Datore di vera Salvezza.
Lui che procede dall’Essere e dalla Coscienza,
ripieno dello spirito di perfetta beatitudine,
il Purificatore, il Capace, il Rivelatore della Parola, il Datore di vita” 

[2]

Queste le sue idee ispiratrici fondamentali:

  • La rivelazione cristiana è la rivelazione perfetta di Dio, perciò unica.
  • Quando tuttavia si tratta di interpretarla razionalmente occorre riconoscere pari dignità sia al pensiero teologico occidentale (tomistico, in definitiva) sia a quello orientale (Śankara).
  • Anzi, per certi aspetti, la visione non-duale hindu si dimostrerebbe addirittura il migliore strumento di accesso alle verità soprannaturali della rivelazione cristiana.
  • Da Śankara egli trae la definizione dell’Assoluto in termini (che poi avranno largo seguito) di Sat (Essere esistente di per sé) - Cit (Intelligenza autocosciente) - Ānanda (Beatitutdine di se stesso).

Nella seconda metà del secolo XIX l’hinduismo esprime una dinamica nuova con Vivekānanda, discepolo della scuola di Rāmakŗșņa, il quale al Parlamento delle Religioni di Chicago per primo dà voce ad un hinduismo che per la prima volta si fa sentire direttamente fuori dall’India e ritiene di dover dire la propria visione anche delle altre religioni a livello universale. Una specie di violazione di quell’enclave dell’hinduismo per cui si è hindu solo all’interno del suo mondo, né è possibile esserlo venendo da fuori. Punto scottante ancora oggi. L’intervento di Vivekānanda non è previsto nel calendario degli inviti nel Parlamento delle Religioni, ma appena egli prende la parola, appare chiaro che non si tratta di un semplice intervento accademico. L’hinduismo nelle sue parole e nello spirito con cui viene proposto, uscito dal suo isolamento secolare e dal predominio della erudizione dell’Occidente, entra in dialettica spirituale con le altre tradizioni. Da oggetto di studio diviene soggetto attivo di proposta religiosa universale. Rimane aperto l’interrogativo se la sintesi dell’hinduismo in quella occasione e poi in seguito ribadito da Vivekānanda corrisponda all’autentico e all’unico modo di intenderlo nella sua essenza. Impresa peraltro quasi improponibile proprio per pluralità delle sue manifestazioni.

Sorprende alcuni rappresentanti piuttosto critici verso le proprie fedi, che si aspettano toni polemici verso le tradizioni religiose occidentali, quando afferma risolutamente che ciascuno deve approfondire le proprie convinzioni religiose, eventualmente crederci più seriamente, in modo che, così facendo, possa scoprire meglio quanto tutte le unisce. Aggiunge, in questo senso, che l’hinduismo, proprio per la capacità di ospitalità plurima, sarebbe preparato a diventare la religione mondiale, mentre altre religioni prevalentemente esclusiviste incontrerebbero maggiori problemi. Vivekānanda significativamente spesso tiene in mano il Vangelo di Giovanni, che ama citare in particolare dal Prologo, dove è enunciata la natura divina del Logos: di Gesù conta soprattutto non il suo profilo storico, il Logos che si è fatto carne ricade infatti sotto il regno del relativo, del contingente; Gesù è innanzitutto colui che era ‘prima che il tempo fosse’. I Vangeli di Matteo, Marco e Luca sono raramente presenti. Le religioni sarebbero divise solo nella realtà ingannevole della storia, dai loro culti, dai dogmi, dalle istituzioni.

Il modo di accostarsi al cristianesimo di Vivekānanda, proprio al seguito dell’irrilevanza della prospettiva storica, così tipica della tradizione biblica e cristiana, apre alcuni problemi in vista della possibile comprensione reciproca tra cristiani e hindu. E saranno precisamente quelli di cui si occuperà molto intensamente la teologia indiana a partire dalla seconda metà del Novecento. Nello stesso tempo anche sul versante hindu sorgono interrogativi appunto in merito alla convinzione che le religioni siano solo un percorso variegato, ma diretto allo stesso fine; non un passaggio dall’errore alla verità, ma solo da verità parziale a verità piena, e questa coinciderebbe con la non-dualità indifferenziata che soggiace e unifica tutto il reale: proprio la visione non-duale hindu si presenterebbe come l’orizzonte finale e auspicabile per tutte le religioni. [3]

Nella prima metà del secolo XX si rafforza la corrente del conoscere scientificamente, che induce una forma di rispetto che privilegia i piani alti del confronto. Ci sono infatti autori che cominciano a formulare per conto loro una tipologia di dialogo che verrà poi classificato da altre teologie come “alta”; che ritiene che il confronto tra l’induismo e il cristianesimo debba avvenire attraverso un discorso che miri, anche questo, al “prima che il tempo fosse” .

Il libro che rese inizialmente noto R. Panikkar fu “Il Cristo sconosciuto dell’induismo[4]. R. Panikkar è pienamente inserito tra i non molti pensatori e mistici che possiedono una familiarità diretta non solo con tutta la gamma della riflessione filosofica e teologica occidentale, ma anche con il mondo dell’hinduismo e del buddhismo, e - soprattutto – sempre sorretta da una forte tensione mistica[5].

La sua prima, originale esegesi, parte da un passo delle Upanişad, in cui egli riteneva di aver scoperto - dunque all’interno delle stesse Scritture hindu - l’attestato di una presenza, di una figura intermedia (Īśvara) tra l’Assoluto Inattingibile e la realtà mondana[6], un ponte verso la rivelazione del mistero trinitario cristiano, e della possibile divino-umanità, non per via di mediazioni teologiche astratte ma attraverso una prefigurazione vedica del Logos-Cristo. Questa analogia di ruoli di Cristo e di Īśvara – precisa Panikkar - rimane tuttavia occulta sia ai cristiani sia agli hindu. Ai primi perché chiusi in una ideologia che esalta la unicità esclusiva della figura di Gesù e i secondi perché portati alla contemplazione dell’Assoluto tendenzialmente senza relazione con il mondo e la storia.

Da questa istanza parte l’impegno fondamentale di Panikkar di rifondare anche la tradizione cristiana su una solida teologia contemplativa e trinitaria[7].

Occorre, in questo senso, rimuovere un’immagine imprecisa di Gesù che lo rende precluso agli hindu, quasi fosse il Dio dei cristiani come altri hanno il loro Dio, prescindendo dalla Trinità. Invece proprio nella Trinità si concentra l’Ultima Verità dell’universo: un Dio senza vita in sé non potrebbe generare vita, non renderebbe possibile una relazione qualsiasi con lui o riconciliare infine anche la pluralità delle esperienze religiose. È la fonte trinitaria dell’essere che garantisce l’unità fondamentale di tutto ciò che esiste, attraverso e non nonostante la sua molteplicità.

Dalla seconda metà del Novecento la teologia o, meglio, le teologie indiane più o meno tutte si troveranno di fronte ai seguenti interrogativi, non i soli, certamente però fondamentali e tuttora in aperta discussione: se si possa operare all’interno delle correnti di pensiero indiano analogamente a quanto avvenne all’interno del cristianesimo primitivo a fronte della cultura greca. Benedetto XVI sostiene ripetutamente che l’inculturazione del cristianesimo nella grecità fa parte in un modo privilegiato della tradizione originaria della fede perché in greco fu trasmessa; è la rivelazione cristiana che non è più solo semitica, ma anche greca. La cultura indiana parrebbe, secondo questa sottolineatura, non potersi collocare allo stesso livello di quella greca; oppure deve considerarsi subalterna alle categorie che da quella cultura furono trasmesse, anche nel modo di pensare la fede? Interrogativo aperto.

Inoltre, all’interno delle teologie indiane e sempre in stretta relazione con il punto precedente, ci si interroga su fino a che punto si possa parlare di incarnazione esclusiva in Gesù. È il problema della unicità e della esclusività della rivelazione di Dio nel concreto della persona e dell’insegnamento di Gesù. Un’unicità specifica irripetibile, non analogamente riscontrabile altrove? E se riscontrabile, fino a che punto?

Terzo punto: le Sacre Scritture. Si può parlare di Scritture anche per le altre tradizioni religiose?

Infine: Giovanni Paolo II nel 1986 disse di aver “pregato con” altre fedi nell’incontro iter religioso di Assisi. Alcuni all’interno della Chiesa cattolica ritenevano che avesse semplicemente pregato “nello stesso luogo”, non “pregato con”. Allora il Papa dedicò un lungo discorso di fronte al concistoro dei cardinali a bilancio di fine anno, affermando che sarebbe stato necessario riporre meglio l’accento sulla rivelazione primaria, che è quella che si esprime dalla e nella creazione, a partire dalla quale, senza rinnegare la quale, si colloca la seconda rivelazione operata da Gesù e si apre la possibilità e il senso del dialogo del cristianesimo con le altre fedi, le quali in vario modo si fondano sulla rivelazione primaria.

Da AAVV (a cura di E. Beccarini, C. G. Torrero, P. Trianni),“Raimon Panikkar filosofo e teologo del dialogo”, Aracne, Roma 2013

 

[1] Nato da una famiglia influente di brahmini del Bengala, educato in un clima rigorosamente ortodosso, all’età di 30 anni si converte al Cristianesimo mentre è ancora profondamente coinvolto nella militanza della rinascita hindu. Quando riceve, a trent’anni, il battesimo nella Chiesa Anglicana egli cambia il suo nome (Bhavani Charan Banerji) con quello programmatico di Brahmabandhab (amico di Brahman), traduzione in sanscrito di Theophilos. Riceve in seguito (sub conditione) il battesimo cattolico.

[2]Cfr Sophia, October 1998. Testo inglese nel Prayer Book and Hymnal, Bombay (III Eucharistic Congress) 1964.

[3] Vivekānanda ritiene che questa sia anche la visione della non-dualità di Śankara. Ma Śankara intese nel suo tempo proporre una visione non-duale in chiara contrapposizione con altre correnti che apertamente e anche fermamente contrastò dichiarandole non compatibili con il suo pensiero. Non le considerò letture parziali e riconducibili, in ultima analisi, alla sua interpretazione della realtà. In merito cf. Cf. Anantanand Rambachan, One Goal, Many Paths? The Significance of Advaita Apologetic Norms for Interreligious Dialogue, in Catherine Cornille (ed.), Criteria od Discernment in Interreligious Dialogue, Interreligious Dialogue Series / 1, pp. 155-181.

[4] The Unknown Christ of Hinduism, Darton, Longman & Todd, London 1964 (traduzione italiana: Il Cristo sconosciuto dell’induismo, Vita e Pensiero, Pubblicazioni dell’Università Cattolica, Milano 1976).

[5] Cf D. Veliath sdb, Christ and Religious Pluralism - Raimundo Panikkar, in Jeevadhara, n. 165, 1998, p. 208.

[6] Cf R. Panikkar, The Unknown Christ of Hinduism, London 1964 (edizione riveduta e corretta: The Unknown Christ of Hinduism. Towards an Ecumenical Christophany, Orbis Books, N. Y. 1981).

[7] Cf The Trinity and the Religious Experience of Man. Icon-Person-Mystery, London 1973.

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