Le nuove schiave
Le celebrazioni dell’8 marzo ogni anno portano alla luce uno dei grandi miti della civiltà moderna: l’emancipazione della donna. Usiamo la parola “mito” come la usava Panikkar: per intendere lo sfondo valoriale spesso inconsapevole entro cui collochiamo ogni nostro argomento razionale.
In tale prospettiva la donna non è solo infatti, come fu scritto, “il secondo sesso”, ma tutto ciò di cui simbolicamente la cultura e la spiritualità umana l’hanno rivestita: la natura, l’anima, la sapienza, la vita. Per questo alla coscienza umana oggi è intollerabile pensare che la donna sia in alcun modo oppressa e umiliata: perché ne va dell’umanità in quanto tale.
Al di là di quel che pensiamo di essere o dover essere, la donna è quel che di più prezioso è in noi, e che a ogni costo va difeso.
Ma se così è, se tale è il sentimento di cui partecipiamo, perché ridurci ad espressioni solo di circostanza?
Vogliamo limitarci a constatare quanto lontani ancora si sia dalla parità, come se non fosse in gioco ben più dell’uguaglianza di opportunità sociali?
Oppure ci ostiniamo a insistere sulla violenza di cui spesso le donne sono oggetto, senza però andare alla radice del fenomeno? Non vediamo che il rapporto tra donne e uomini è trascinato nella più sconvolgente mutazione che mai abbia conosciuto?
Non ci sentiamo il coraggio e l’onestà di andare più a fondo, a cercare il senso di quel che si agita nel nostro tempo?
Per capire abbiamo per lo più bisogno di immagini concrete.
Anche se frutto di un equivoco, l’immaginario mediatico persiste a evocare il rogo nella fabbrica d’inizio Novecento. Ma le fabbriche da noi stanno sparendo, insieme agli operai di entrambi i sessi. Quando riaprono in aree lontane, il nostro sguardo non le raggiunge più, anche perché impedito dal profluvio delle merci a basso costo che ci inonda.
Abbiamo bisogno di un’altra immagine, per mettere alla prova la nostra buona fede. E non è difficile trovarla.
Se lo scandalo da cui i socialismi nacquero era che il lavoro umano fosse ridotto a merce, cosa dire oggi, che un nuovo modo di produzione si sta imponendo mercificando la riproduzione stessa?
Cosa dire dei cataloghi di “donatrici d’ovuli”, attraverso cui è possibile ordinare un figlio? E delle gestanti a pagamento, che porteranno a termine la sua fabbricazione?
Abbiamo la spudoratezza di parlare di conquiste di civiltà, anziché di una nuova, ripugnante forma di schiavismo?