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Riflessioni di un teologo sul cristianesimo di Raimon Panikkar

Premessa

cristianesimo 1La lettura dei due volumi di Raimon Panikkar sul cristianesimo mi è stata dolcemente imposta dal mio priore George e dall’amica comune Milena Carrara Pavan proprio mentre ero alle prese, per impegni accademici, con le diverse vicende della storia della teologia cristiana che hanno interessato ben due millenni di quella che il Panikkar chiamerebbe Cristianità.

Il che ha comportato ovviamente una prospettiva di lettura tutta particolare. Ero da tempo consapevole delle conseguenze nefaste, vissute nella storia mediterranea, dalla separazione tra la Sinagoga e la Chiesa iniziata con il Primo Concilio di Gerusalemme, rivisitata seriamente dalle chiese cristiane soltanto dopo la tragedia della Shoà – e dunque quasi duemila anni dopo - e sfociata nel famosissimo paragrafo IV di Nostra Aetate.

Panikkar stesso aveva scritto che, in fondo i due millenni della storia cristiana potrebbero “riassumersi a partire da una invariante visibile in tutti i Concili Ecumenici e in altri momenti decisivi nella storia della Chiesa- Così che si potrebbe dire che, in sintesi, si tratti sempre dello stesso problema animato dalla stessa dinamica, trovando sempre la stessa soluzione e tutto questo sempre per la stessa ragione. Si può prendere, ad esempio, il caso del cosiddetto Concilio di Gerusalemme (Atti 15) (Cristianesimo, o.c., pp.282-283).

Panikkar enumera quindi una per una le singole parti di questa sua tesi sottolineando che si è trattato sempre di:

-          Una stessa “problematica”. Se non vi fate circoncidere secondo l’usanza di Mosè, non potete essere salvati (At 15,1);

-          Una stessa “dinamica”. La chiesa si trovò a proprio agio nel giudaismo, finché la sua stessa crescita non creò il disagio…Più avanti i muricristianesimo 2 geografici, politici, culturali, filosofici etc diverranno insostenibili con l’arrivo di troppe persone extra muros, appartenenti a mondi diversi;

-          Una stessa “soluzione”. Da una parte, un passo in avanti, addentrandosi in territori nuovi con abbandono ovvio delle vecchie posizioni, perché Non si debbono importunare quelli che dalle nazioni si convertono a Dio (At 15,19). Dall’altra l’inevitabile compromesso per salvare la continuità (cfr At 15,20 su gli animali soffocati e sul sangue);

-          Una stessa “ragione”. La distinzione tra essenza ed esistenza, che il Panikkar esplicita in questi termini: se non affermerete che Dio è l’Essere, non potrete comprendere il Padre di Gesù Cristo e quindi non potrete partecipare al mistero sacramentale della salvezza. Dichiarazione che suppone, nel preambolo, il superamento dell’identificazione della fede cristiana con un determinato culto o dottrina o filosofia o cultura…o religione (cfr o.c., p. 284).

Leggendo questa pagina di Raimon Panikkar mi è venuto subito in mente l’ipotesi che qualcosa di analogo si fosse prodotto anche a proposito di tante altre problematiche giudicate ereticali dall’una o dall’altra confessione cristiana autodefinitasi ortodossa, che aveva proseguito a vivere di vita propria nello stesso arco mediterraneo e non solo.

Mi aveva molto impressionato, per esempio, – e l’ho documentato nel mio secondo volume delle Lezioni di Teologia Trinitaria (pp.246-247) – una identità perfino letterale tra la formula ariana condannata dal Concilio di Nicea (325) e la Sura CXII del Corano sul Puro Monoteismo - che secondo gli esperti potrebbe risalire alle ipsissima verba di Mahomed – che recita:

In nome di Allah, il Compassionevole, il Misericordioso, dì:

  1. Egli Allah è Unico;
  2. Allah è l’Assoluto;
  3. Non ha generato, non è stato generato;
  4. E nessuno è uguale a Lui”.

Non avevo però ancora preso adeguata coscienza del fatto che anche altre tesi, giudicate “ereticali” dalle chiese, potessero essere state vettori di problematiche altrettanto incisive nell’evoluzione della storia umana e non soltanto della teologia e della storia cristiana. E questo non solo nella linea della cosiddetta provvidenzialità per cui le tesi eretiche diventano - come ci ha insegnato Karl Rahner - una sorta di motore dello sviluppo della conoscenza della verità teologica, ma anche nella linea di qualcosa più propriamente esistenziale, e di scelte di vita, nella storia dell’umanità.

Ora, proprio questo mi si è posto prepotentemente davanti leggendo Raimon Panikkar.

Intendiamoci: da sempre mi era stata insegnata la necessità di coordinare la fides quae con la fides qua, così come da sempre mi era stata posta la lex orandi in strettissima connessione con la lex credendi e viceversa.

E tuttavia non mi era sembrata mai così impellente la necessità di scendere più in profondità in queste cose, fino a toccare alcuni punti concreti di questi due aspetti della riflessione teologica, in modo tale da distinguere adeguatamente tra ciò che in essi corrisponde all’Essenza e ciò che in essi corrisponde all’Esistenza; oppure tra ciò che in essi corrisponde all’Identità e ciò che in essi corrisponde all’Identificazione, per dirla con gli stessi termini di Raimon Panikkar.

Così, per esempio, è stata una scoperta per me leggere in Cristianesimo (tomo 2, p. 740) che

“L’equivalente omeomorfico di Cristo, in uno studio comparativo, non è quello di un avatara, inteso come discesa del divino per sostenere il dharma e salvare un particolare kalpa (eone)”.

Mi sembra di aver capito infatti che

avatara è una manifestazione vera del divino in forma docetica, ma non un essere reale nel mondo del samsara” (ivi).

Così come leggere che

Krisna non è un uomo, (ma piuttosto) è un Dio, (o meglio) una manifestazione di Dio, in forma umana” (ivi).

Chiarimenti giocati tutti – almeno così mi è sembrato di capire - sulla differenza tra manifestazione (epiphania) nell’Esistenza e realtà dell’Essenza. Cosa che mi è sembrato essere una sorta di radice indù del movimento gnostico mediterraneo che ebbe ed ha tuttora molta influenza non tanto nell’enunciato teorico quanto nell’esperienza pratica dei tanti modi di essere che hanno avuto, e hanno tuttora, piena cittadinanza nel cristianesimo contemporaneo.

Una simile “scoperta” mi è sembrata ancora più preziosa perché mi permetteva di stabilire le distanze tra questo rischio gnostico che pensavo presente in certe proposte teologiche di cristiani in dialogo con l’induismo, e ciò che leggevo adesso in Panikkar che scrive, per esempio:

Cristo, agli occhi della chiesa cristiana, non è né un membro del pantheon, né un individuo divinizzato; la sua divinizzazione non è un accidente. Cristo è l’incarnazione stessa di Dio, il suo primogenito”.

Una confessione di fede integralmente ortodossa che corrisponde a ciò che i Padri contrapponevano alle varie proposte ereticali dei primi secoli del cristianesimo, e che mi sembrava essere assente in certi tentativi di dialogo con le grandi religioni contemporanee che partivano da prospettive più o meno analoghe a quelle già combattute nell’antichità dai padri cristiani. 

Il Panikkar, pienamente cosciente di tutto questo, non rinunzia perciò, e giustamente, a ribadire che “all’interno di una visione trinitaria la centralità del Cristo nei confronti di tutta la realtà è conseguenza diretta dell’incarnazione” e che, pur non trattandosi di “cristocentrismo perché la Trinità non ha centro” non per questo permette di dimenticare che per il cristiano “niente di umano e di creato sta al di fuori di quella Parola attraverso la quale tutte le cose furono fatte” (ivi).

Certi modi di presentare le sue tesi, da parte del Panikkar, mi hanno chiesto però una fatica particolare per stargli dietro, perché ho avuto l’impressione, qualche volta, di essere di fronte a strani contorcimenti difficili da seguire con i miei abituali schemi mentali.

Mi sono reso conto però che, provvidenzialmente, lo stesso Panikkar aveva piena consapevolezza della novità metodologica con cui proponeva le sue tesi, per cui si è preoccupato lui stesso di spiegare di tanto in tanto la sua metodologia di ricerca e il significato di vocaboli apparentemente ovvii, ma caricati di significati diversi nella manifestazione del suo pensiero.

E devo dire che proprio la lettura di questi due volumi mi è divenuta guida preziosa per accedere con maggiore cognizione di causa al pensiero del teologo indo-catalano.

Faccio degli esempi partendo dall’affermazione tradizionale, richiamata dallo stesso Panikkar, che “non vi è salvezza al di fuori di Cristo”. Affermazione condivisa da tutti nel Cristianesimo, ma che il Panikkar considera di fatto quasi una tautologia.

Nell’interpretare questa frase, Raimon Panikkar ne approfitta infatti per precisare che per lui: “Salvezza significa realizzazione piena o, in termini tradizionali, divinizzazione, precisando che una divinizzazione avviene solo quando c’è unione con il divino”. Non solo, ma anche che “nel linguaggio cristiano, simbolo di tutto questo è Cristo”.

L’uso che fa lui del vocabolo simbolo non corrisponde però al modo abituale di utilizzarlo nella cultura occidentale. Anche di questo egli è pienamente consapevole e perciò spiega:

“Se questa theōsis non è un aspetto illusorio ma una reale partecipazione alla natura divina (2Pt 1,4), essa si realizza solamente se diventiamo uno con Cristo, cioè se diventiamo parte del Christus totus, così da essere ipse Christus, come suggerisce san Paolo, quando tenta di interpretare l’invito del Vangelo a essere perfetti come il Padre che è nei cieli”.

E dunque – conclude il Panikkar -  “il mistero trattenuto nel silenzio sino dai tempi antichi” (ere: chronois aiōniois) non è altro che ciò che i cristiani comprendono come Cristo”.

In pochissime righe mi ha fatto capire così cosa intenda dire quando parla di simbolo, di Christus totus, di divinizzazione, di salvezza e finalmente di mistero.

Né il Panikkar si ferma a questi chiarimenti, perché aggiunge anche un’altra cosa che sembra stargli molto a cuore: la sua fedeltà alla dichiarazione del Concilio di Calcedonia (451), sottolineando che: “Cristo è umano e divino senza confusione delle due nature e tuttavia senza scissioni di alcun tipo”.

Da qui un primo chiarimento, per me molto importante, sul pensiero teologico di Raimon Panikkar che l’Autore spiega adesso così: 

“Quando si dice che “Cristo è il simbolo di tutta la realtà” si intende dire che in Cristo sono racchiusi “tutti i tesori della divinità”, ma anche che sono nascosti in lui “tutti i misteri dell’uomo” e tutto lo spessore dell’universo. Egli non è soltanto il primogenito ma anche l’unigenito, il simbolo della realtà stessa, il simbolo cosmotheandrico per eccellenza. Cristo è il simbolo di tutta la divinizzazione dell’universo, la theōsis dei padri greci (in nota citazioni di Nazianzeno, Damasceno, Cirillo di Alessandria). Per ipsum, cum ipso, in ipso, tutte le dimensioni del reale si incontrano e tutto ha in lui il suo sostegno (Col 1,17)”.

In questa conclusione sintetica c’è però l’aggiunta dell’aggettivo cosmotheandrico che Panikkar ricava da una sua interpretazione di Col 1,17 e che permette al lettore delle sue opere di accostare il suo pensiero a quello di Paolo e dei Padri della Chiesa, particolarmente sviluppato da Ireneo di Lione, che risponde a vocaboli come recapitulatio o anachephalaiōsis.

Tutto liscio e consequenziale per un lettore occidentale? Probabilmente sì. Senonché Panikkar aggiunge adesso un’altra precisazione che non può non lasciare perplessi. Infatti aggiunge, in questo contesto, un altro vocabolo estremamente pregnante: perichōrēsis.

Ora questo vocabolo (perichōrēsis = intersessio o intercessio), è stato inteso abitualmente, almeno a partire da Giovanni Damasceno (VII secolo) in poi, soprattutto per indicare il mistero della vita interna alla Trinità Santa (Haghia Triada).

L’estensione dunque di questo vocabolo in modo tale da fargli descrivere l’unione di Dio con l’umanità, e addirittura con il kosmos, non può fare a meno di creare qualche problema relativo, per esempio, a ciò che gli antichi chiamavano aeternitas mundi con qualche rischio di panteismo che potrebbe nascondersi dietro l’angolo.

Anche di questo sembra però consapevole il Panikkar, il quale chiarisce che questa estensione applicativa del vocabolo greco è presente già nel pensiero patristico per cui, in questo caso, “Alcuni parlano del Cristo cosmico e altri del Christus totus”. Lui però e lo dichiara esplicitamente, preferisce parlare di Cristo cosmotheandrico, o semplicemente di il Cristo” (o.c., pp.740-741).

Una scelta che fa nascere qualche perplessità, anche se non si può fare a meno di riconoscere la genialità del Panikkar nel citare un bellissimo testo poetico di san Bonaventura, che, a suo parere, “riassume la tradizione del passato ed è anche una intuizione valida per il futuro” (o.c., 741).

Qualche osservazione

Il pensiero teologico di Raimon Panikkar – ovviamente per quel che ho potuto capire in questo minimissimo approccio - è indubbiamente esplosivo. Ma è del tutto convincente per un lettore occidentale?

Per quel che mi riguarda mi sono reso conto che il mio apprendistato nella conoscenza del suo pensiero ha ancora molta strada da fare. Nel poco tempo che ho avuto a disposizione mi sono accontentato, per ora, a riprendere in mano le pagine appena lette alla ricerca di una maggiore consapevolezza della sua metodologia teologica e, ancora una volta, del significato preciso di almeno alcuni dei termini da lui utilizzati. E non sono stato deluso.

La metodologia espositiva di Panikkar

Ho potuto rendermi conto con maggiore consapevolezza che il teologo indo-catalano procede, nella sua esposizione teologica, in modo diverso da tutti gli altri teologi occidentali. Lui stesso non soltanto ne è consapevole, ma cerca anche, in tutti i modi, di renderne consapevoli i suoi lettori.

Li ha scioccati utilizzando, per esempio, le sottodivisioni del suo lavoro, articolandolo non in capitoli o paragrafi, ma in sūtra, che ovviamente sente il bisogno di spiegare.

Il vocabolo sūtra significa – spiega - semplicemente filo. Il filo di un ragionamento? No. Piuttosto il filo di un tessuto. 

Panikkar propone i suoi fili (sūtra appunto) ricordando che essi fanno parte di un tessuto molto più vasto e articolato ovviamente con altri sūtra o fili.

Ma Panikkar ha scioccato i suoi lettori anche utilizzando in modo nuovo vocaboli in uso corrente nella riflessione filosofica e teologica dell’Occidente. Uno di questi vocaboli che, come abbiamo visto, ha già utilizzato con riferimento a Cristo, è il vocabolo simbolo.

Panikkar sente il bisogno di spiegare che quando usa il vocabolo simbolo lo fa “per esprimere un’esperienza della realtà nella quale soggetto e oggetto, interpretazione e interpretato, fenomeno (phainomenon) e noumenon sono inestricabilmente congiunti, perché la conoscenza simbolica è irriducibile all’evidenza razionale e a ogni tipo di dialettica. Dio, essere, materia, energia, mondo, mistero, luce, uomo, spirito, idea sono esempi di simboli.

Il simbolo simbolizza il simbolizzato nel simbolo stesso e non altrove. Perciò esso è diverso da un semplice segno (“Cfr Dupuis 81989) 187 e Wong (1984) 624, che interpretano il mio uso della parola “simbolo” come se io fossi un epigono della modernità” (o.c., p.737).

Quindi prosegue: “Chi, fedele alla mentalità illuminista, confonde il segno, di natura epistemica, con il simbolo, di carattere ontologico, potrebbe fraintendere questo sūtra come se esso difendesse un’interpretazione gnostica di Cristo”.

E spiega che il suo sūtra, fa uso della parola simbolo nello stesso senso in cui lo impiega la tradizione cristiana quando si  riferisce ai sacramenti” (ivi). Significato assolutamente lontano da coloro che lo usano da epigoni della modernità.

Poi però, avventurandosi in motivazioni che vanno oltre il semplice riferimento filologico, aggiunge: “La tradizione cristiana, emergendo da un certo monoteismo giudaico e confrontandosi con un certo politeismo greco, da una parte, e monismo filosofico, dall’altra, ha riconquistato la più antica tradizione trinitaria della realtà come: Cielo-terra-Uomo, o come: Dio-mondo-Umanità, o anche come: Spirito-materia - Coscienza”...

Confesso che, a questo punto, mi ritrovo in contesti assolutamente difficili, per me, da seguire, perché non riesco a capire in che senso stia parlando di antica tradizione trinitaria, con riferimenti chiaramente storici, e cosa intenda dire quando polemizza con il monoteismo giudaico, il politeismo greco e il monismo filosofico.

Discorsi simili li ho trovati nel Commento al Padre Nostro di San Massimo il Confessore (VII secolo), ma non rintraccio alcun riferimento a questo Padre della Chiesa nel contesto di questi pensieri da parte del Panikkar.

Il quale prosegue nel sottolineare da parte sua che “Cristo è quel simbolo centrale che incorpora tutta la realtà”. Salvo poi sentire il bisogno di aggiungere: “Con questo non vogliamo dire che la nozione di Trinità cristiana (senza la quale il simbolo “Cristo” perde il suo senso pieno) sia la stessa di quella delle altre tradizioni religiose (ogni cultura è un mondo simbolico). Affermiamo però che l’esperienza della realtà come trinitaria, benché molto diversamente intesa, sembra essere praticamente universale” (o.c., pp. 737-738).

Confesso che avrei voluto saperne di più a proposito di quel benché molto diversamente intesa. Si tratta di un intendere l’Esistenza della Trinità? Oppure, restando all’interno del vocabolario dell’indo-catalano, dell’Essenza della Trinità? Oppure, sempre restando all’interno del suo vocabolario, si tratta di Identificazione? oppure di Identità? Oppure dobbiamo accontentarci di osservare che si tratta di un metodo semplicemente triadologico di osservare la realtà?   

Resta in ogni caso oscuro, almeno per me, ciò che il Panikkar dichiara immediatamente dopo questa serie di chiarimenti, quando scrive, forse con un certo sapore di neoplatonismo: “L’avventura della realtà è un egressus (uscita) spaziale e temporale da Dio e un regressus (ritorno) alla sorgente procedendo oltre, costantemente, all’infinito, per opera dello Spirito che ‘impedisce’ che la realtà diventi dualità. Il “ritorno” non riporta al punto di partenza perché Dio non è un punto geometrico ma actus purus, energeia (pura attualità, dinamismo). Questa ex-tensione (spaziale) e dis-tensione (temporale) viene riunita nella tensione (umana) dell’uomo in “crescita fino alla misura di Cristo” (Ef 4, 13). Dio si fa uomo perché l’uomo possa diventare Dio, abbiamo detto e ripetuto con la patristica. Questo “diventare” è un cammino che non porta altrove, perché Dio è ovunque. La frase di Gesù io sono la via, la verità e la vita (Gv 14,6) non va necessariamente intesa in senso oggettivo e nemmeno concettuale. La via è precisamente la verità della vita dell’uomo. Il senso del cammino è la meta ma, nel cammino della vita, la meta si trova in ogni passo quando è autentico. Questo è il simbolo “Cristo”, che la cultura cristiana ha spesso omologato alla bontà, alla verità e alla bellezza”… (o.c., p. 738).

Ritorna invece, almeno per me, la chiarezza, quando, al termine della sua tessitura Panikkar sintetizza così il suo tappeto prodotto dai suoi sūtra:

“Il punto centrale della comprensione cristiana della realtà è proprio l’uomo Cristo Gesù, mediatore (1Tim 2,5) (e non intermediario), vale a dire, “pienamente divino e pienamente umano”, “inseparabile eppure distinto” dalla divinità (o.c., p.739).

È un ritorno, alla grande, ai quattro avverbi di Calcedonia (inconfuse, immutabiliter, indivise, inseparabiliter).

Si potrebbe non essere d’accordo?

L’ultima precisazione del Panikkar che mi sembra opportuno segnalare è quella relativa al significato dell’eikon, o icona. E lo faccio perché mi dà anche l’occasione per indicare una necessaria mediazione – così la penso io – della teologia orientale cristiana che avrebbe permesso, se fosse stata tenuta presente in modo più significativo dal teologo indo-catalano, di avvertire la possibilità di altre prospettive cristiane dalle quali partire per dialogare con i mondi delle grandi religioni asiatiche.

Dichiara il Panikkar proseguendo nella linea degli enunciati calcedoniani: “Sottolineiamo l’in e l’attraverso di questo nostro sūtra per evitare possibili fraintendimenti: Gesù è il Cristo, ma Cristo non può essere identificato con Gesù” (o.c., p.745).

La dichiarazione è estremamente seria ma anche assai problematica. Il teologo indo-catalano se ne rende conto e si accorge che è necessario chiarirsi bene per non essere frainteso come se si trattasse di qualcuna delle conseguenze dellantica eresia nestoriana.

Perciò spiega: “Il fraintendimento deriva dall’indebita estrapolazione del metodo scientifico moderno, applicato a una realtà che non può essere ridotta a una formula algebrica così che si possa scrivere sulla lavagna: Se A è B, B è A. Ma Gesù non è A e Cristo non è B. L’effetto pars pro toto, che in questo contesto viene riferito alla conoscenza simbolica, nel nostro sūtra viene applicato alla coscienza iconofanica” (ivi).

Ecco un altro vocabolo che Panikkar sente bisogno di spiegare, attingendo, questa volta alla tradizione teologica cristiana d’Oriente. E infatti chiarisce: “L’icona A (Gesù) non è l’originale B (Cristo), ma non è nemmeno una semplice immagine. L’icona vista nella luce taborica (ha forse sentito parlare di Gregorio Palamas? In ogni caso non c’è alcuna referenza al palamismo nel suo testo) è la rivelazione, lo svelamento dell’originale, il simbolo che lo rappresenta, che lo fa presente a chi lo scopre come icona e non come copia”. E conclude: “Gesù è il simbolo del Cristo, ma ovviamente (solo) per noi cristiani” (ivi).

Non c’è chi non sia tentato di concludere che allora si tratta soltanto di una prospettiva dalla quale si legge una realtà, ma non della realtà stessa!

Di nuovo il Panikkar si rende pienamente conto di una obiezione simile, piuttosto scontata. Perciò tenta di spiegare ulteriormente il suo pensiero, passando dal riferimento alla categoria dell’icona al riferimento alla categoria del sacramento col rischio di compiere un passaggio tra ciò che in teologia viene chiamato un sacramentale (come è una icona appunto) e ciò che invece viene chiamato sacramento (come i 7 sacramenti individuati dal Concilio di Trento), dichiarando, e certo con precisione teologica esemplare, che: “L’Eucarestia è la presenza reale del Cristo, di Gesù risorto, ma non contiene le proteine di Gesù di Nazareth” (ivi).

Cosa ovviamente vera. Ma allora come interpretare i continui riferimenti al “corpo”, alla “carne”, e i riferimenti a Gesù come uomo ebreo ed ebreo per sempre, o i riferimenti all’Ascensione di Gesù al cielo, all’Assunzione di Maria e alla Resurrezione della carne, che sono parte integrante della tradizione cristiana o almeno della tradizione cattolica?

Se di transustanziazione si dovrebbe trattare, come si crede a proposito dell’Eucarestia, in che senso dovrà essere intesa allora questa seconda transustanziazione che ha come oggetto un corpo storico concreto come quello di ciascuno di noi che si unisce sacramentalmente al corpo glorioso dell’ebreo Gesù di Nazareth? Oppure questo riferimento, così realistico, al corpo, alla carne umana e alla storia dovrà essere inteso come sostanzialmente secondario?

Una risposta precisa a una simile domanda non l’ho ancora trovata nei testi che ho appena letti. I quali invece mi hanno meravigliato molto per l’assenza in essi di un riferimento preciso non soltanto all’unità dei due Testamenti (Antico e Nuovo), ma anche alla scelta misteriosa, e tuttavia determinante, compiuta da Dio di scegliere Israele tra tutti i popoli della terra.

In esso infatti Dio ha indicato Gesù di Nazareth come Via, Verità e Vita. E noi cristiani siamo convinti che l’unione con Dio, così centrale nella proposta teologica del Panikkar, passa inevitabilmente attraverso la storia concreta, compresi il corpo e la carne, dell’ebreo per sempre che porta il nome di Gesù di Nazareth.

Raimon Panikkar ripete solennemente con tutti i cristiani che “in nessun altro nome c’è salvezza” e tuttavia quando cerca di essere un po’ più articolato in questa sua solenne professione di fede, lo fa con metodi e terminologie certamente assai accattivanti, e tuttavia ancora non del tutto chiare, così da liberare totalmente il campo da ogni tipo di fraintendimenti.

Ma, ripeto, sono soltanto all’inizio della mia lettura. Le Opera Omnia raccolte da Milena Carrara Pavan saranno piene di talmente tanta acqua di fonte che non basterà certo una vita per continuare ad attingere a questo pozzo di Raimon Panikkar che, una volta accostato, non ti sazia mai.

Discorso pronunciato 9 aprile 2016 alla presentazione a Roma, a san Gregorio al Celio, dei volumi sul Cristianesimo nell’Opera Omnia di Raimon Panikkar

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