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Religione o filosofia?

assortoQuando, sul finire del secolo scorso, il riferimento all’Oriente e in particolare al Buddhismo parve assumere in Occidente un rilievo socialmente significativo, ci si domandò se il trapianto di dottrine e pratiche di vita che si erano sviluppate altrove, in tutt’altro contesto culturale, avrebbe dato luogo a indirizzi nuovi, capaci di segnare una svolta nell’ambito della cultura occidentale. Ci si domandava insomma se, dal Buddhismo tibetano, giapponese o indocinese, sarebbe nato un Buddhismo propriamente occidentale, e quali conseguenze ciò avrebbe comportato sull’Occidente stesso.

Con il nuovo secolo la domanda sembrò perdere gran parte della sua importanza, perché altre questioni si imponevano. L’Occidente doveva soprattutto confrontarsi col mondo islamico: l’Oriente propriamente detto tornava ad allontanarsi nell’immaginario collettivo più immediato.

D’altra parte, forse anche per non aver saputo compiere un certo salto culturale, la diffusione del Buddhismo in Occidente mostrò di arrestarsi. Di fronte alle gravi lacerazioni internazionali e ai problemi sociali e politici di cui l’Islam si faceva portatore, oppure al ruolo che la Chiesa veniva assumendo rispetto agli indirizzi mondiali, i piccoli gruppi buddhisti parvero esprimere una parte abbastanza irrilevante della società occidentale: l’orientamento di ristrette minoranze, dedite a una pratica che visibilmente ne sottolineava l’estraneità alla vita sociale più ampia. Di fatto finirono per essere sempre più indistinguibili da quel diffuso clima culturale comunemente noto come New Age; nel quale i riferimenti all’Oriente sono costanti, ma senza alcun rigore nella selezione delle fonti, e col rischio di una deriva nella dimensione più direttamente commerciale.

Ai giorni nostri la domanda intorno a un possibile Buddhismo occidentale non ha sicuramente più alcun significativo rilievo. Il fatto che l’Occidente debba confrontarsi in modo sempre più serrato con ben altri universi culturali, per i quali la religione è un forte elemento di identità, sembra escludere lo spazio per l’elaborazione del rapporto con un fenomeno così difficilmente afferrabile in termini sociali come quello buddhista. Parliamo strettamente del Buddhismo, perché invece l’Hinduismo si trova a essere coinvolto in tutt’altri problemi, relativi al suo uso ideologico in funzione dell’identità nazionale indiana. Il fondamentalismo hindu non è da meno di quello islamico.

D’altra parte l’Occidente pare molto più incerto che in passato rispetto alla sua identità; e anzi lo scontro oggi in atto restringe il campo delle alternative possibili a una fondamentale: la civiltà che in Europa ha preso forma, e che oggi viene duramente contestata a livello mondiale, ha radici spirituali sue proprie, in particolare nella tradizione ebraico-cristiana, oppure è il risultato dello sradicamento?   

Dovrebbe esser chiaro che dalla risposta scaturisce la possibilità o meno di qualsiasi altro discorso. Nel primo caso il confronto con le altre civiltà è possibile, perché c’è il riconoscimento di un linguaggio comune. Nel secondo tutto invece diventa problematico. Quello che infatti agli altri risulta intollerabile non è che l’Occidente abbia una propria specifica identità, ma che neghi di averla, ponendosi come il superamento di ogni tradizione. In questa pretesa di universalismo non possono che cogliere un’inaccettabile affermazione di tracotante superiorità.

Ebbene, va osservato fin da ora che una ragione profonda dell’autoemarginazione del Buddhismo in Occidente sta nel non aver compreso ciò che a tal proposito è in gioco, oppure nell’essersi collocato dalla parte sbagliata. Ciò può essere avvenuto in base a un grossolano equivoco, perché la non-identità buddhista ha un senso su ben altro piano; ma soprattutto per un dato storico su cui vale la pena di riflettere.

I Buddhisti occidentali sono infatti per lo più diventati tali sulla base di un loro originario rifiuto del Cristianesimo, e la condizione che si sono trovati a vivere presenta una radicale ambiguità. Da un lato si tratta semplicemente della via, diversa da quella usuale diventata però per loro impraticabile, di accedere a un’irrinunciabile dimensione spirituale. Dall’altro, per la natura stessa dell’insegnamento buddhista, che andrà dunque urgentemente indagata, tale via li espone al rischio di una complicità profonda con il nichilismo, talora apertamente ammessa senza consapevolezza di ciò che implichi. Questo spiega la profonda diffidenza che talora affiora da parte cristiana. Ma soprattutto getta una luce inquietante sul ruolo culturale che il Buddhismo potrebbe svolgere in un futuro anche prossimo.

Personalmente, sulla base di un percorso ben interno alla questione, ma in linea con un insegnamento forse un po’ particolare, mi permetto di formulare un giudizio.

Penso che ciò che comunemente chiamiamo Buddhismo sia, colto nel suo senso più corretto, il più potente antidoto verso il nichilismo. Ma, come spesso accade ai farmaci, assunto in modo errato, può rivelarsi letale: cioè diventare la più devastante forma di coscienza nichilistica.

Mi sembrano ragioni sufficienti per affrontare un confronto che contro ogni apparenza è più che mai urgente.

 

Iniziamo con una considerazione preliminare.

Il concetto stesso di “buddhismo”, come a maggior ragione quello di “hinduismo”, è in larga misura una creazione occidentale. Nell’epoca del colonialismo, quando gli Europei si volsero ad assoggettare gli altri continenti, ne interpretarono la cultura in analogia con quanto era loro più familiare. Sul piano religioso dunque, avendo l’esperienza di tradizioni fortemente strutturate come quelle monoteistiche, che si erano reciprocamente definite attraverso conflitti molto duri, cercarono l’analogo in Oriente, pur trovandosi di fronte tutt’altro tipo di situazione.

In particolare in India gli Inglesi, volendosi sostituire alla dominazione islamica, si posero il problema di identificare nel suo insieme la cultura religiosa preesistente all’Islam, che doveva intendersi come originariamente caratterizzante l’India. Nacque così l’Hinduismo. Era plausibile pensare che tutto un mondo ben diversificato di culti avesse un fondamento comune in certi testi sacri, i Veda, analogamente a quel che nel contesto ebraico accade con i testi biblici.

Allo stesso modo, osservando che una certa tradizione originaria dell’India ma pressoché scomparsa da essa si era invece estesa in vaste parti dell’Asia, seppure dando luogo a indirizzi profondamente differenziati, venne naturale identificarla nel suo insieme richiamandosi al nome di quello che pareva indiscutibilmente un comune fondatore. Nacque così il Buddhismo. Sulla base dello stesso procedimento presero forma concetti come quelli di “confucianesimo” o “taoismo”. Tra Hinduismo e Buddhismo fu poi ovvio pensare un legame analogo a quello che abitualmente si coglie tra Ebraismo e Cristianesimo: da un lato una matrice originaria legata a un certo contesto etnico, dall’altra una svolta che rende possibile la fuoriuscita da esso.

È significativo che nello stesso Oriente gli Hindu e i Buddhisti iniziarono a considerarsi tali solo nell’Ottocento, quando, sotto la pressione del colonialismo, sorsero movimenti di rivendicazione della propria identità. Nei fatti poi l’Hinduismo, senza trascurare l’attrazione esercitata in Occidente, in quanto percepito addirittura come alveo originario dell’intera spiritualità umana, è diventato soprattutto il fondamento dell’identità nazionale indiana. Il Buddhismo invece, data una più ampia e diversificata diffusione, più ancora dell’Hinduismo è apparso fin da subito come una potenziale alternativa culturale ai monoteismi, venendo incontro a esigenze profondamente insite nello spirito moderno.

In questo modo di procedere, in cui si riflette un atteggiamento classificatorio tipico della cultura occidentale, parve trascurabile una differenza, peraltro assai visibile, rispetto all’Occidente: che in Oriente le diverse tradizioni coesistevano, intrecciandosi e influenzandosi a vicenda. Anche perché diverso era il rapporto col potere, e ciò a sua volta perché quest’ultimo non si è trovato a usare la religione per cementare l’identità sociale.

In India la vita individuale e collettiva si colloca entro strutture sociali interamente plasmate dalla tradizione, che prescindono dall’esercizio del potere e anzi lo includono. Ciò che chiamiamo Hinduismo è in realtà difficilmente scindibile da un’organizzazione sociale, notoriamente basata sulle caste, che ha consentito all’India di mantenersi nei secoli anche in presenza di poteri statali spesso inconsistenti. In Cina invece lo Stato tende a prevalere su ogni aspetto della vita sociale, e quindi a imporre un controllo sui culti religiosi; ma tra le due realtà non si è mai aperto uno scontro così profondo come quello che si aprì tra le comunità cristiane e l’Impero Romano, dando luogo piuttosto a un equilibrio che richiede di essere di volta in volta ridefinito. L’ordinamento dello Stato deve essere in armonia con le leggi cosmiche, e queste ultime si riflettono in ogni aspetto della vita personale. Molto di ciò che intendiamo con Confucianesimo e Taoismo è riassumibile in quei termini.

Quanto a ciò che intendiamo con Buddhismo, esso ha in effetti una configurazione sociale più rigorosamente definita, ma è propriamente quella della comunità monastica. Il Sangha non ha mai preteso di estendersi all’intera società: vi arreca benefici spirituali, e in compenso riceve mezzi di sostentamento. I laici partecipano solo parzialmente di ciò che nella vita monastica trova piena realizzazione. Non foss’altro che per questa ragione si tratta di un fenomeno non del tutto comparabile con il Cristianesimo e in genere coi monoteismi. Anche qualora, soprattutto in ambito cristiano, sia prevista l’esperienza monastica, la Chiesa, a differenza del Sangha, è la comunità di tutti i fedeli.

 

Oltre a ciò, emerge un problema.

I monoteismi appaiono sistemi di credenze relative al senso ultimo della vita, veicolate dalle narrazioni contenute nei testi sacri, che modellano la comprensione e i comportamenti delle persone. Esse possono venire supportate da filosofie che le illustrano e le giustificano, ma che non fanno parte del loro nucleo profondo, tant’è vero che possono mutare a seconda delle diverse circostanze storiche. In particolare il Cristianesimo è stato interpretato in chiave platonica e aristotelica, ma il Vangelo non è riducibile ad alcuna filosofia. Vi si dice addirittura che la sua comprensione è riservata ai semplici, e che un alto grado di cultura potrebbe essere d’ostacolo.

Questo aspetto, che ha nei secoli consentito l’adesione degli umili, si trova oggi a costituire un nodo problematico. Sembra infatti in contrasto con tutta l’enfasi che si attribuisce al senso critico, e richiedere quell’adesione passiva a un’autorità esterna che la coscienza moderna, plasmata dall’Illuminismo, visceralmente rifiuta. 

Il Buddhismo si presenta invece in tutt’altro modo: come un insegnamento di vita espresso in termini che appaiono puramente razionali. Il che gli ha attirato le simpatie della Modernità, e soprattutto delle élite culturali che dall’Illuminismo discendono. Addirittura qualcuno sostiene che se ne possa parlare come dell’Illuminismo dell’Oriente.

Una simile lettura presenta in realtà aspetti incongruenti, perché il fine della pratica buddhista, indicato come Illuminazione, o Risveglio, o Liberazione, rimanda a un piano comunque trascendente; ma il fatto che esso non venga espressamente nominato, cioè come noto non si parli di Dio, sembra autorizzare a considerare la cosa trascurabile. Tant’è vero che la pratica buddhista, che si risolve generalmente negli aspetti meditativi, viene normalmente coltivata in vista di benefici sul piano psicofisico e relazionale. Il che a sua volta induce, dal punto di vista cristiano, a vedere in essa, più che un vero e proprio percorso spirituale, un’utile preparazione a esso.

Tutto ciò comunque sembra confermare una convinzione largamente diffusa: che il Buddhismo, più che una religione, sia una disciplina di vita, oppure propriamente una filosofia, se nel concetto di filosofia si considera originariamente incluso l’aspetto della disciplina di vita.

Il che pone davvero il Buddhismo in una condizione contraddittoria. Da un lato, trascurando differenze di non poco conto, viene considerato una religione dotata di una configurazione in tutto e per tutto analoga al Cristianesimo; dall’altro, prendendo in considerazione le differenze, si conclude di non poterlo considerare tale. Ciò spiega l’ambiguità che talora si osserva nei Buddhisti occidentali: da un lato si considerano parte di una religione tra le altre, anche perché ciò consente di avere un ruolo nelle sedi istituzionali del dialogo interreligioso; dall’altro alimentano il pensiero di essere al di là della coscienza religiosa, entrando in sintonia con tendenze profonde della Modernità.

Non è forse comunemente diffusa la convinzione che il Buddhismo sia l’unica tradizione spirituale a essere davvero in grado di dialogare con la scienza, mostrando anzi profonde affinità con essa? Sotto questo aspetto potrebbe darsi la possibilità di una sintesi culturale davvero unica. L’uomo moderno potrebbe trovare nel Buddhismo una visione che non contraddice affatto, come in genere le religioni, la visione dominante, aggiungendovi peraltro ciò che manca: la percezione di un cammino spirituale. Il che ovviamente è a sua volta fonte di sospetto. Come si può esser certi che non si tratti di una forma di ateismo solo più raffinata di quelle consuete?

Va ricordato che Joseph Ratzinger, ben prima di diventare Papa, vide nelle culture dell’Oriente una fondamentale matrice del fenomeno che caratterizza così diffusamente le società occidentali allontanandole dalla fede e dalla ragione stessa: il relativismo. La sua riflessione mirava a ricucire la moderna lacerazione tra ragione e fede riproponendo una filosofia in fondo di tipo platonico. La ragione, a cui la scienza stessa si riferisce, è un ordinamento della realtà non convenzionale ma inscritto nella struttura delle cose: è quel Logos, la legge divina che regola l’universo, che è al contempo oggetto della fede.

 

Personalmente ho a lungo resistito all’idea che il Buddhismo dovesse venire considerato una filosofia anziché una religione. La ritenevo una soluzione troppo facile per l’enigmatica situazione in cui mi trovavo a vivere, nel solco di esperienze in qualche modo paradigmatiche del nostro tempo, a cominciare da quella di Raimon Panikkar: l’esperienza di chi incontra il Buddhismo senza rinunciare al Cristianesimo, anzi trovando in esso il modo di affrontare gli ostacoli culturali che distolgono oggi dalla fede.

Troppo facile mi pareva quella soluzione perché sottovalutava gli aspetti indubbiamente religiosi presenti nella pratica buddhista dei vari indirizzi, e tanto più in quello tibetano che meglio conoscevo. Ma soprattutto mi pareva viziata da un atteggiamento nuovamente tipico della cultura occidentale: la presunzione di sapere in astratto cosa fosse religione e cosa filosofia, sulla base del cattivo platonismo di cui tutti siamo impregnati, che troppo disinvoltamente fa coincidere la nozione delle cose con le cose stesse.

Mi era dunque chiaro come il fenomeno che in qualche modo possiamo dire religioso sia molto più complesso e vario di quanto comunemente pensiamo, sulla base in fondo delle esperienze più dirette. Ero però ancora vincolato a un pregiudizio per quel che riguarda la filosofia. Per quanto mi fosse chiaro da tempo che le letture della storia del pensiero occidentale sono orientate a giustificare la Modernità, non avevo del tutto affrontato il nodo originario, relativo a cosa sia la filosofia nel suo sorgere nella Grecia antica. Non avevo confutato, innanzitutto in me stesso, la convinzione comunemente data per scontata, che la nascita della filosofia coincida col tramonto della tradizione religiosa. Una convinzione che è deleteria per la filosofia stessa, in quanto la riduce a momento di passaggio nel cammino tra religione e scienza, secondo quella triplice scansione della vicenda umana che è teorizzata in una delle peggiori filosofie mai apparse: quella di Comte.

 

Per quanto l’idea che la filosofia sia un frutto esclusivo della cultura greca, mentre gli altri popoli hanno solo mito e religione, stia perdendo rapidamente credito, non è facile cogliere le implicazioni che scaturiscono dal rinunciarvi.

Potrebbe non essere sufficiente pensare, come fa generalmente l’attuale filosofia interculturale, che quello che in Occidente si è inteso con “filosofia” trovi corrispondenze in ciò che le altre culture hanno prodotto. Anche se forse nessuno più si esprime in questi termini, si potrebbe infatti ancora dire che altrove non si verifica quel che invece è avvenuto in Occidente: cioè la separazione della filosofia dall’originario alveo della tradizione religiosa.

Mi permetto dunque di proporre di pensare che quella separazione, tra mythos e logos, che costituisce il mito fondante dell’Occidente, non sia in realtà davvero avvenuta; che l’Occidente sotto questo aspetto non sia così diverso dalle altre culture mondiali, se non per una maggior propensione a qualcosa che però non si è davvero compiuto.

Cioè è vero che nel V secolo avanti Cristo si verifica una crisi nella tradizione, dovuta forse soprattutto all’avvento della scrittura alfabetica quale medium dominante nella comunicazione sociale; ma ciò riguarda in fondo una ristretta élite, che non considera inoltre la cosa come un fatto irreversibile, tant’è vero che si sviluppa al suo interno un vero e proprio scontro culturale. È la Sofistica a rappresentare una cultura di tipo nuovo, tendenzialmente sganciata dalla tradizione, ma sarebbe sbagliato identificarla con la filosofia in quanto tale; la quale va piuttosto prendendo forma con la risposta socratico-platonica, che mira a riallacciare, sia pure con diverso linguaggio, i legami con la tradizione, e che non a caso accusa la Sofistica di essere “falsa filosofia”.  

Una lettura di questo tipo ha il vantaggio di concedere alla filosofia quello che indubbiamente è il suo elemento tipico, cioè il carattere problematico del suo procedere, la messa in discussione dialettica di ogni certezza e il sapere di non sapere socratico; salvaguardando però lo scopo che è intrinseco alla parola stessa che la designa: cioè  amore, e quindi ricerca, della Sapienza. La quale non può essere identificata con un sapere qualsiasi, tanto meno di carattere strumentale, ma è la relazione con le strutture ultime della realtà, da cui discende la comprensione del senso della vita. È ciò di cui non si può dare conoscenza oggettiva, ma che è comunicato nella tradizione attraverso narrazioni, simboli e riti; entrata in crisi la quale deve essere fatto emergere attraverso un lavoro di estremo affinamento della coscienza.

In realtà, laddove la tradizione è riconosciuta, i suoi contenuti non è sufficiente che vengano recepiti, ma devono essere autenticamente compresi: bisogna passare insomma dalla Lettera allo Spirito. A maggior ragione dunque bisogna fare ciò quando ogni contenuto diventa discutibile: aprirsi a forza un varco al di là di ogni contenuto. Sotto questo aspetto la filosofia è una via spirituale essa stessa, che si snoda coraggiosamente sui bordi della tradizione affrontando il rischio di una caduta nel vuoto, ma consentendo, qualora sia possibile, di riallacciare il rapporto con elementi vivi della tradizione stessa; la quale, quando rimane integra, in realtà si rinnova costantemente. Si capisce, sotto questo aspetto, come la filosofia greca si sia saldata con il Cristianesimo, pur essendo i due fenomeni distinti e aperti anche ad altri incontri.

 

Sulla base di ciò, si può senz’altro riprendere in considerazione il rapporto tra Buddhismo e filosofia. Non per concludere che il Buddhismo sia una filosofia, ma per suggerire che tra il nucleo profondo di ciò che chiamiamo “buddhismo”, al di là delle sedimentazioni lasciate dalle diverse culture dell’Oriente, e la Filosofia, intesa come esperienza spirituale configuratasi all’interno del mondo occidentale, ci sia senz’altro affinità. Direbbe Wittgenstein, c’è “un’aria di famiglia”.

Può darsi che l’esperienza personale e la predicazione di colui che venne chiamato Buddha nascano da una crisi della precedente tradizione in qualche misura analoga a quella conosciuta dalla Grecia antica, anche se non avremo mai sufficienti elementi storici che lo confermino; in ogni caso è presumibile che nell’India antica il Sangha, cioè la comunità dei monaci, abbia custodito in forma nuova ed “eterodossa” un legame con la dimensione trascendente per molti evidentemente non più accessibile nelle forme precedentemente conosciute e accettate. Non a caso una modalità tipica dell’insegnamento del Dharma, così come della filosofia occidentale, è la dialettica: cioè la messa in discussione radicale di ogni certezza, che lascia privi di sostegno verso il mondo e quindi aperti a una trascendenza così assoluta da non poter in alcun modo essere oggettivata.

La differenza principale è che il Sangha ha costituito, nell’arco di due millenni e mezzo, una continuità nella dottrina e nello stile di vita che le comunità filosofiche non sono state in grado di realizzare; e non solo perché sommerse e inglobate dal Cristianesimo, ma per una qualche debolezza intrinseca che andrebbe capita. Tant’è vero che, dopo la fine della Cristianità, la filosofia moderna non è stata e non è in grado di contrastare l’avvento del mondo tecnocratico, riducendosi spesso a ideologia, ovvero regredendo a nuove forme di sofistica.

Può essere che sotto questo aspetto l’incontro col Buddhismo, o in genere con l’Oriente, perché il Dharma ha impregnato in profondità la cultura di tutta l’Asia, rappresenti una svolta di grande portata, le cui implicazioni sono ben lungi dall’essere esplorate.

 

La ragione che forse rende la via della grande filosofia occidentale non più oggi praticabile è che, per evitare la deriva nel relativismo intrinseco all’esperienza, ha dovuto postulare un fondamento stabile della realtà su un piano trascendente che si rende conoscibile dalla mente umana. Come più sinteticamente dice Panikkar, ha presupposto l’identità di pensiero ed essere, dischiudendo un percorso che da Parmenide e Platone conduce alla scienza moderna. Si tratta di una via efficace però sottilmente contraddittoria, perché la trascendenza, proprio in quanto giustificata dal pensiero, è con ciò stesso annullata: ecco perché, come anche direbbe Heidegger, la metafisica antica si rovescia nel moderno ateismo e nel dominio planetario della tecnica.

La via seguita dalla filosofia buddhista procede invece nella direzione opposta. Ammette la relatività non solo dell’esperienza ma anche dei concetti, attingendo la trascendenza attraverso un’esperienza radicalmente aconcettuale. In questo modo distingue l’assoluto dal condizionato, pur senza separarli. Ogni categorizzazione è infatti contraddittoria, e deve essere negata senza che mai la negazione possa rivestire carattere affermativo. Cioè nulla si può dire che esista in modo separato, e tanto meno il nulla: questo esclude, inteso correttamente, un esito nichilista. Si tratta anzi di un pensiero aderente alla vita, che è differenza irriducibile, novità continua e interdipendenza.

Si tratta di un pensiero notevolmente adatto a intendere la complessità delle relazioni e dei livelli, di tipo olistico e sistemico, che l’Occidente sta assimilando in realtà da tempo ed è in sintonia con alcune sue potenzialità latenti, contribuendo a farle emergere. Pensando ad esempio all’enciclica Laudato si’, appena pubblicata da Papa Francesco, essa riflette un’ispirazione autenticamente cristiana, ma che non avrebbe potuto esprimersi se non in un contesto della cultura occidentale notevolmente mutato rispetto a un passato anche recente, a cui non può non aver contribuito un incontro con l’Oriente in atto da tempo ai livelli profondi della coscienza culturale. Viene da dire che la reciproca fecondazione delle culture di cui parla Panikkar è visibilmente all’opera.

 

 

 

 

 

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