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Famiglia e totalitarismo tecnocratico

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Mentre vicende inquietanti e rovinose incalzano su vari scenari mondiali, di cui il flusso ininterrotto di profughi nel Mediterraneo è testimonianza, uno scontro non meno profondo si è aperto nel cuore della civiltà occidentale, dal cui esito dipende la sua stessa identità. Non a caso la questione di cui si dibatte, con una certa diffusa consapevolezza della posta in gioco, è la famiglia. E poiché prescindendo da essa qualsiasi discorso sul confronto interculturale sarebbe oggi futile, iniziamo a prendere posizione in merito, almeno sul piano che ci compete.

 

Trattandosi di questione da cui l’essere stesso dell’uomo è chiamato in causa, deve venire esaminata innanzitutto sul piano filosofico. Dove si tratta di operare una scelta, e prima ancora di avere consapevolezza di quali orientamenti si confrontino.

 

 

 

Diciamo che, su ciò che l’uomo è, si possono distinguere nella cultura occidentale due grandi linee di pensiero.

 

La prima fa dell’uomo “misura di tutte le cose”, ma al tempo stesso ciò che si risolve interamente nelle circostanze storiche, sociali e culturali in cui si trova implicato. Secondo questa prospettiva, che appare per la prima volta nella Sofistica antica e poi diventa dominante nel Moderno e ancor più nel Postmoderno, ogni riferimento a una verità delle cose è arbitrario, o relativo a contesti di volta in volta determinati. La sua vocazione è nichilista o comunque antireligiosa, la sua prassi lo sradicamento. Oggi trova un potente alleato nella tecnica, che a sua volta trova in essa un’efficace sostegno al suo dominio planetario.

 

La seconda linea di pensiero sorge, con Socrate e Platone, originariamente come risposta culturale alla prima. Ridefinendo la condizione umana in riferimento a un piano trascendente, consente di riallacciare il rapporto con la tradizione religiosa, ovvero di concepire l’uomo in un orizzonte di senso sovraordinato, sia pure variamente definito. Essendo stato, dopo il crollo del mondo antico, medioevale e ancora rinascimentale, progressivamente emarginato dall’incedere della Modernità, si ripresenta oggi come la domanda mai sopita sulla Verità. Una domanda più che mai attuale, ora che la manipolazione tecnica della realtà sembra non trovare limiti. Senza dimenticare che il concetto medesimo di filosofia, come “amore per la sapienza”, implica il riferimento fondante alla Verità, senza il quale la parola stessa potrebbe essere indebita. Fu Platone ad accusare i sofisti di essere “falsi filosofi”.

 

Si aggiunga che, mentre la prima linea esprime un radicalismo tutto interno all’Occidente, che pone quest’ultimo in contrasto con se stesso e le altre culture, la seconda invece consente propriamente il dialogo. Paradossalmente, il relativismo si autoassolutizza, mentre l’apertura all’Assoluto relativizza i propri costrutti culturali.

 

 

 

Giuseppe Riconda è professore emerito di Filosofia Teoretica dell’Università di Torino, e soprattutto una delle grandi figure della filosofia italiana. Il fatto che il suo nome non sia così noto al grande pubblico come qualche altro testimonia della confusione culturale in cui viviamo.

 

Generalmente si pensa che la filosofia torinese sia legata soprattutto a nomi quali Bobbio o Vattimo, mentre pochi sanno che il maestro di Vattimo fu Luigi Pareyson, uno dei maggiori filosofi del Novecento: che ridefinì ogni pensiero autentico come interpretazione della Verità. Il fatto che quest’ultima non sia attingibile se non nelle interpretazioni non autorizza a negarla, ovvero a pensare, come direbbe Vattimo seguendo Nietzsche, che non esista verità ma solo interpretazioni. Si tratta invece del rapporto, fecondo e inesauribile, tra un piano trascendente, in quanto tale inafferrabile dall’uomo, e il piano della sua traduzione in pensiero e linguaggio umani. La capacità di vivere autenticamente quel rapporto fonda la tradizione: la quale non è ripetizione di un dato immutabile, ma continuo rinnovarsi della relazione costitutiva con la Verità.

 

Giuseppe Riconda dice di rifarsi soprattutto a due maestri: Augusto Del Noce, cioè la critica, nella prospettiva cattolica, degli indirizzi dominanti nella Modernità; e, per l’appunto, Pareyson. E dichiara senza mezzi termini che il senso stesso del suo percorso è un ritorno alla tradizione: “… affascinato dall’avventura del pensiero moderno, ha ritrovato la tradizione, convincendosi sempre più che non vi sono motivi per abbandonarla”.

 

Si tratta di un ritrovamento che può senz’altro intendersi in chiave pluralistica: non solo il Cristianesimo, ma anche le altre culture religiose sono in rapporto con la Verità. Quello che anzi Riconda sottolinea spesso è che le diverse religioni sono chiamate oggi a incontrarsi per resistere a ciò che egli chiama “totalitarismo tecnocratico”; perché il venir meno del rapporto con la Verità conduce a un pensiero puramente strumentale, per il quale l’umanità non è più fine ma solo mezzo.

 

 

 

Ci sono dunque valide ragioni per proporre all’attenzione un libro piccolo ma prezioso uscito sei mesi fa: Filosofia della famiglia. In esso Riconda, confrontandosi con lo scenario del nostro tempo, chiama alla scelta tra modelli di pensiero di cui vanno valutati presupposti e implicazioni.

 

L’idea che la famiglia sia un costrutto convenzionale, che può quindi essere liberamente ridefinito, presuppone un’idea dell’uomo in cui si mette in discussione tutto ma non la convinzione che il movente fondamentale sia la ricerca del piacere individuale. Si presuppone insomma un’antropologia utilitaristica; e, per quanto grande sia oggi il suo potere persuasivo, potrebbe esser questo il vero pregiudizio da scalzare.

 

A molti apparirà che il punto debole del libro di Riconda sia che l’assunzione della famiglia, in tutto ciò che implica, sessualità compresa, come “comunità d’amore” fondata sull’originaria apertura all’Essere che ciascuno costitutivamente è a partire dalle differenze che lo caratterizzano, innanzitutto quella tra uomo e donna, presuppone una visione spirituale della vita. Ma perché tale visione dovrebbe ridursi a un’opinione che ciascuno può avere o non avere su di sé, anziché essere la traduzione, in codici culturali di volta in volta diversi, di un’esperienza davvero originaria e universale, incomparabilmente più di quanto non lo sia l’utilitarismo? E perché non pensare a un senso della libertà più profondo di quello che la tecnocrazia attuale induce, il cui esito in realtà è una nuova schiavitù?

 

 

 

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