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Il liberismo liberticida.

Adam SmithL’attuale pensiero unico liberista, o neoliberista, dichiara di  trovare le sue prime radici e legittimazione negli scritti di  Adam Smith, in particolare nel suo lavoro La ricchezza delle nazioni, scritto nel 1767, e nel  senso del libero arbitrio regolato dalla mano invisibile del mercato. Ma il vero pensiero di Smith è totalmente asimmetrico a quest’interpretazione. Il liberismo in questa accezione diventa fine, non mezzo come Smith lo pensava, e contribuisce alla formazione di un modello di analisi economica votata in modo esclusivo ad un tecnicismo esasperato ed ad una finanza egemone che  ha tagliato i ponti con le radici morali e sociali di questa scienza.

 

Per capire il vero pensiero di Smith è necessario collocarlo nella storia del suo tempo e nella visione integrale dei suoi lavori, a partire da La teoria dei sentimenti morali, scritto nel 1759, prima de La ricchezza delle nazioni, la cui lettura è fondamentale.

Il Settecento, in cui vive Adam Smith, fu un secolo rivoluzionario dal punto di vista culturale e venne preparato dal secolo precedente, in cui il processo a Galileo e la rivoluzione di Newton  determinarono l’indipendenza della scienza da quell’unità di vita e di pensiero che era stata prodotta dalla religione.

Il Settecento è il secolo dell’illuminismo – il tempo dei lumi -  in cui il pensiero speculativo affermerà la libertà dell’uomo nella sua autorealizzazione, il ruolo della ragione ed il principio di razionalità, non assoluto ma sottomesso a un ordine morale superiore. Kant scriverà la Critica della ragion pura e preparerà la strada all’idealismo tedesco ed al materialismo storico. Le rivoluzioni americane e francese chiuderanno il secolo con le dichiarazioni dei diritti universali dell’uomo – la libertà, l’uguaglianza e la fraternità come fini assoluti, ben lontani dall’esclusivo ed egoistico interesse personale.

Smith, illuminista scozzese, condivide con David Hume il ruolo del “principio di simpatia” come regolatore delle relazioni umane e capacità di immedesimarsi nell’altro. Afferma il libero arbitrio, ma le scelte individuali, pur perseguendo l’interesse personale, devono sottostare all’interesse collettivo. Infatti, scrive, il panettiere vende il pane per seguire l’interesse personale, ma deve immedesimarsi nei bisogni di chi lo compra: una forma di “competizione collaborativa”, potremmo dire oggi.

Era ben chiaro, per lui come per i suoi contemporanei, che i limiti morali erano insuperabili e che l’equilibrio sociale dovesse essere realizzato intermediando l’egoismo e l’altruismo che definiscono la coscienza morale; temi che aveva affrontato all’inizio del suo percorso di studioso, nell’ambito della filosofia morale che insegnava.

 

Progressivamente,  nel secolo successivo – l’Ottocento - la cultura razionale delle scienze esatte ha preso il sopravvento e, per dirla con Pascal “l’esprit de geometrie” ha prevalso su “l’esprit de finesse” e le ragioni del cuore sono sempre state meno ascoltate dalla ragione. Così il principio di simpatia collettivo sarà sostituito dal principio di utilità personale. La verità, allora,  diventa solo ciò che si vede, si tocca e si misura e le scienze positive  che interpretano la verità diventano esse stesse verità incontrovertibile, e da sapere strumentale assumono lo statuto di un sapere morale e finalistico. Si afferma il “ miraggio della razionalità”, un’illusione della scienza più pericolosa dell’ignoranza.

Anche l’economia subisce quella mutazione genetica e, da scienza sociale e morale, acquisisce la  natura di scienza positiva ed esatta e in quanto tale detta le regole della vita: non si guadagna per vivere ma si vive per guadagnare e scambiamo i fini con i mezzi, cosa che Aristotele  aveva indicato con il termine di “crematistica”: una ricchezza che affama, diceva, ricordando il mito di re Mida.

 

Quando il fine diventa la massimizzazione dell’interesse individuale, il liberismo assunto come fine,  esattamente l’opposto di Smith, afferma la legge del più forte ed anche la normalizzazione di comportamenti illeciti che contribuiscono a definire una società perennemente conflittuale ed individualista. I danni collaterali alla realizzazione del fine diventano la disuguaglianza, la disoccupazione, la povertà , il  degrado morale. Nelle società umane, però, diventa difficile capire i limiti – i punti di non ritorno - oltre i quali i danni collaterali diventano primari e prima o poi si affermano le calamità fatali della guerra e delle classi.

Siamo, oggi, di fronte ad un liberismo, che assunto come fine, uccide la libertà - un ossimoro – e diventa liberticidio. Siamo ancora di fronte all’assolutismo culturale, che sembrava uscito sconfitto dalle esperienze dolorose  del secolo scorso, ma che ci appare ora in modo nuovo e ingannevole .

L’economia deve riconciliarsi con la sua natura di scienza morale e sociale, “serve un nuovo paradigma perché in palio c’è ben più della credibilità della professione o dei policy maker che ne usano le idee, ma la stabilità e la prosperità delle nostre economie” ( Stiglitz, Il Sole24Ore, 2010 ) e delle nostre società.

 

Pubblicato su “Via Sarfatti 25”, giornale della Bocconi, 25/6/14

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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