Noi Europei

sarajevo paesaggio


Vorrei provare a dire perché è così importante che la manifestazione di Torino del 10 giugno abbia buon esito.

Di fronte ai crimini a cui popolazioni intere sono oggi sottoposte, essa deve riuscire, prima ancora che per loro, per noi. Ne va della nostra dignità, e addirittura della nostra identità.

 

Dovremmo, noi Europei, avere ancora una memoria viva delle atrocità del Novecento: delle deportazioni, dei genocidi che ancora ci interpellano. Dovremmo ricordare gli abissi che abbiamo attraversato, a cui ancora ci volgiamo per mantenere viva l’umanità in noi; per impedire che l’oblio ci avvolga, che l’ottundimento abbia il sopravvento. Non dovremmo stentare a riconoscere che gli stessi abissi oggi si spalancano per altri, che la globalizzazione ci rende in ogni caso assai vicini; che si riversano sulle nostre coste e richiedono comunque aiuto.

Eppure ci troviamo smarriti, confusi nei sentimenti, in preda all’impotenza. Il fatto stesso che i più perseguitati siano cristiani, è fonte di imbarazzo. Diciamo che non è una guerra di civiltà, ma la verità è un’altra: è che non sappiamo più chi siamo. Sappiamo all’incirca quel che non vogliamo essere, ma non andiamo oltre. Nell’incertezza, ci rifugiamo nella viltà. Il che non attenua ma rafforza l’odio.

 

Ci sentiamo in colpa per il colonialismo, e per il predominio che tuttora esercitiamo.

Non ci sfugge che il resto dell’umanità è sconvolto da forze che abbiamo messo in moto.

Sappiamo in cuor nostro di aver edificato una civiltà materialista e narcisista, dove il dominio della tecnica e dei consumi soffoca le più profonde aspirazioni spirituali e addirittura umane.

Per questo ci troviamo impietriti di fronte a chi muove guerra nel nome di Dio, pur sapendo che ne abusa e che i suoi scopi sono di tutt’altro tipo.

 

Eppure questo nostro stesso tormento è la prova che non siamo solo quel che temiamo, o sciaguratamente vantiamo, di essere.

Tutta la moderna civiltà occidentale è inconcepibile senza le radici ebraico-cristiane, oltre che greche; nonostante la disumanità che l’ha segnata, dai tempi dello schiavismo antico. Ma, proprio perché l’uomo, più che altrove, è stato ridotto a strumento, abbiamo maturato il senso della sua dignità.

Gravi sono senz’altro le nostre colpe; eppure le sappiamo riconoscere, e porre argini a noi stessi. Tutti i nostri ordinamenti, dalla democrazia alle tutele sociali, hanno in questo il loro senso: impedire che chi è debole abbia a soggiacere all’arbitrio del più forte. Ci riusciamo solo in parte, ma averne il principio non è di poco conto. Per questo, nonostante le accuse, da noi si respira una libertà per lo più sconosciuta altrove. E per questo, anche se a fatica, l’Europa è terra d’accoglienza.

 

Siamo insomma non solo una concentrazione di potere, che altri invidiano e possono prima o poi strapparci. Siamo anche un patrimonio di valori che richiede di essere condiviso.

Abbiamo imparato a riconoscere l’umanità in ogni sua forma e condizione: nel povero, nel malato, nello straniero. Per questo non è per noi difficile, oggi almeno, riconoscere i valori altrui, e non ci spaventa, senza eluderne la difficoltà, una società multietnica e multireligiosa: perché il senso d’accoglienza è parte della nostra identità. Se vi rinunciassimo, rinunceremmo a noi stessi.

E, proprio per aver conosciuto il male pianificato su larga scala, sappiamo di non doverlo giustificare. Sappiamo che, se lo facessimo, ne incrementeremmo le radici in noi.

 

Possiamo dunque trovarci di fronte a situazioni, come quella in corso, dove paralizzante è la percezione delle complicità che consentono al male di diffondersi. Al punto di non sapere cosa e chi davvero ci minacci.

C’è un modo però infallibile di uscire dalla confusione, riconoscendo il male come tale a prescindere da chi lo fomenta: stare dalla parte delle vittime.

Gli eventi possono venire prodotti ad arte e la loro lettura infinitamente manipolata: tanto più oggi. Quello che rimane autentico è la sofferenza di coloro che ne sono soggetti. Se perdessimo questa consapevolezza, perderemmo noi stessi.

 

 

 

 

 

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