L’Illuminismo non è un assoluto

Voltaire


Dopo quel famoso discorso in cui il Papa diceva che non bisogna offendere la religione altrui, lasciando interdetti coloro che per vari giorni avevano innalzato il vessillo Je suis Charlie, è stato interessante ascoltare il commento del direttore di Repubblica, Ezio Mauro, in un video sul sito della sua testata in data 16 gennaio (http://video.repubblica.it/rubriche/repubblica-domani/papa-satira-religione-il-diritto-di-esagerare/189050/187968?ref=search).

Costernato e visibilmente deluso, perché Papa Francesco non aveva corrisposto all’immagine che il suo giornale ha voluto coltivare di lui, ha svolto un discorso che mostrava con chiarezza i presupposti del suo modo di pensare.

 

Si può dire che abbia sviluppato un teorema sulla libertà fondato su due postulati.

Il primo è che in Occidente abbiamo congenito “il senso della misura”. Nel caso specifico, se si tratta di un giornale d’informazione, ciò implica il dovere della responsabilità nel dare l’informazione stessa, che corrisponde al diritto dei cittadini a essere informati; a una pubblicazione satirica invece, che si muove al di fuori della misura e per definizione è irresponsabile, tutto è consentito se non ciò che vieta la legge. E da centoquarant’anni la legge francese non contempla il reato di blasfemia.

Il secondo postulato è che i diritti dell’Ottantanove, da cui scaturisce la libertà d’espressione come valore irrinunciabile, sono universali.

Il tutto condito dalla ferma convinzione che la ragione scorra senza intralcio nelle vene illuministe, ripulite da ogni incrostazione dogmatica.

Il discorso appare coerente e persuasivo perché è coerente coi luoghi comuni onnipervasivi. Ma la ragione, quella senza ceppi ideologici, è altra, e fa apparire sofismi e paralogismi là dove si voleva vedere un impianto cristallino.

 

Innanzitutto il fatto che i diritti dell’Ottantanove si dichiarino universali non comporta che lo siano davvero, anche se poi come tali li assumiamo.

In realtà potrebbero anche esserlo, nel loro alveo religioso; indicando la condizione della creatura umana nel seno di Dio creatore: egualmente figli, dunque fratelli, perciò liberi nella loro libertà di amare o respingere l’amore del Padre. Da ciò Locke fa discendere la benevolenza spontanea fra gli uomini, cioè la fondatezza della società civile e la sua autonomia morale dallo Stato, nonché il diritto di opporglisi quando esso pretenda di prevaricare i suoi limiti funzionali.

Ma nella visione continentale del liberalismo, ci insegna von Hayek, espressa dalla Rivoluzione Francese, i principi fondanti della società civile son posti sotto l’egida del potere politico che li deve garantire. In tal modo la società civile viene fagocitata da quella politica, dove Hobbes e Rousseau si abbracciano, e sono poste le premesse del totalitarismo. Il quale non è nella storia moderna un’eccezione ma, in una forma o nell’altra, l’esigenza continua dell’autorealizzazione delle premesse. In una parola: la libertà si rifugia nella forza.

 

A sua volta la forza si esprime, oltre che nel suo esercizio diretto, nelle leggi.

Ma le leggi moderne non traggono legittimità da una sfera indipendente da quella politica; quindi sono soggette al variare e all’interpretazione suggerita dalle istanze politiche di volta in volta dominanti. I riferimenti a una morale esterna allo Stato ed eterna, quindi davvero universale, cedono necessariamente a interessi e consensi contingenti e anche facilmente orientabili.

Noi vantiamo dunque un diritto positivo estremo, che ha fatto piazza pulita di ogni riferimento sia alla trascendenza sia alla natura. Ma questo non è presentabile come valore universale, perché per definizione qui la legge dipende da condizioni storiche, che sono particolari e possono universalizzarsi solo imponendo con vari mezzi a tutto il resto del mondo la propria visione delle cose.

Vediamo allora che i campioni delle libertà laiche e occidentali odierne, nelle cui file si sono riversati gli intransigenti e i rivoluzionari di ieri, si rivelano i peggiori etnocentristi e imperialisti.

Poiché le leggi non sono esiti di una ragione veramente universale, il discorso di ragione subito si rifugia al riparo delle leggi: è bene ciò che la legge non vieta e viceversa. Se non vige una legge sulla blasfemia, è lecito l’insulto mortale al credente; se invece vige una legge sull’omofobia, la minima irriverenza anche solo sospetta viene sanzionata.

Si tratta di un legalismo di cui una ragione non addomesticata dall’ideologia si vergognerebbe.

 

Quel che gli illuministi trascurano costantemente è il terzo elemento della triade fatidica: la fraternité.

Concetto piuttosto imbarazzante fuori dalle adunate sentimental-ideologiche a cui lo Stato di tanto in tanto chiama la nazione. Perché la fratellanza dovrebbe (come in Locke) essere il perno della triade, cioè della humana societas: l’essere e sentirsi fratelli darebbe davvero quella misura a cui Ezio Mauro si appella, ma poi esprime solo come formalismo e legalismo; perché la misura la dà il cuore. La misura tanto nell’informazione, per cui anche il troppo fa danno, quanto  nello scherzo: io non provo più divertimento se tu soffri per l’offesa.

La misura è davvero primaria, e non a caso Ezio Mauro vi ricorre, pur fumosamente: perché la misura è giustizia.

E la giustizia non deriva dalle leggi, le quali possono essere infinitamente pasticciate e ingiuste. Il legalismo non è giustizia, come la ragione separata non è ragionevolezza, come la licenza non è libertà, come l’egualitarismo non è eguaglianza.

La giustizia è un’esigenza umana prioritaria, vien prima della libertà e prima dell’eguaglianza: essa è davvero misura del cuore, della mente, della mano. E se alcuni schiacciano la libertà (e anche la giustizia) applicando un giustizialismo cieco e feroce, non è esaltando e rilanciando il libertinismo della licenza che si ottiene adeguata compensazione. Cioè: una dismisura e un’altra dismisura non fanno la misura.

 

Infine l’universalità (che non è universalismo) non dipende dal potere, foss’anche globale, delle fanfare. Anche di essa si può dire che è la misura fraterna del genere umano, collocata nel cuore, ovvero la ragione profonda e originaria di ciascuno.

Alcuni diritti possono anche dirsi universali, ma solo se sono misurati nel cuore. Essi non possono venire moltiplicati a partire dalle contingenze, non possono darsi in modo irrelato, ma devono scaturire dai doveri, i quali soltanto li sostanziano. Come dice Simone Weil, “I diritti appaiono sempre legati a date condizioni. Solo l’obbligo può essere incondizionato. Esso si pone in un campo che è al di sopra di ogni condizione, perché è al di sopra di questo mondo”.

Inoltre i diritti o sono bisogni dell’anima, o non sono nulla. E se sono nulla e prepotenti, qualcuno certamente verrà a farli a pezzi.

 

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