La sfida metafisica di Raimon Panikkar


Chiamerò Assoluto l’esperienza di verità che io faccio, ed essa è inappellabile. È anche intraducibile (cioè non esiste una scambiabilità parallela), benché sempre riattingibile  (ogni soggetto è capace del centro che in ultimo lo costituisce).

Deificare la storia significa contrabbandare un centro metafisico che – se mai esiste per il complesso universale delle esperienze umane - non è attingibile per induzione, cioè a partire da qualche necessariamente sommaria ricostruzione parziale. Ciò ripropone la relazione tra la parte (il limite che sono e da cui osservo) e il tutto. Il tutto mi è proposto come necessità dalla ragione, ma di esso non posso fare diretta esperienza nella condizione ordinaria, perché trascende il pensiero.

Panikkar sostiene che ci chiama una sfida metafisica: il superamento dell’identità tra pensiero ed essere, caratteristica del nostro occidentale orientamento filosofico. Identità rassicurante e anche a suo modo vera, vera cioè in un universo chiuso. Ma oggi, a fronte di una dilatazione globale dei rapporti, ci troviamo a un bivio: o l’indebolimento del pensiero, che dà luogo al relativismo delle posizioni indifferenti (visione orizzontale), oppure una più marcata direzione verticale, spirituale, che dà luogo a una nuova umiltà al cospetto della meraviglia delle varietà d’esperienza e sapienza. Facciamo un esempio.

Se all’adorazione di quell’assoluto che è la mia mamma subentra una più matura consapevolezza della diffusione e varietà di mamme, ciascuna importante per il suo bimbo, non sono obbligato alla svalutazione delusa e all’indifferenza per la maternità, ma posso invece sentire di condividere quell’amore assoluto per mia madre con l’umanità intera amante ciascuno la propria madre; ed anziché perseguire l’astrazione di una supermadre unica, sentire che l’amore di ciascuno riflette e manifesta un Amore che ci investe e caratterizza tutti. Vale a dire: nell’esperienza soggettiva e nella molteplicità dei soggetti si rivela e manifesta, sempre daccapo, quell’Amore, quell’Assoluto che scopriamo costituirci tutti. Ma va ancora detto che tale esperienza è per ciascuno assoluta, che non significa onnicomprensiva; e se può dar  luogo a una intuizione diretta, empatica sul piano emotivo, su quello conoscitivo si confronta con l’altrui solo attraverso il principio a cui rimanda e da cui promana, attraverso una triangolazione verticale.

 

Le due dimensioni, orizzontale e verticale, corrispondono a esperienze differenti, che vanno tenute distinte, sebbene attengano spesso allo  stesso oggetto. Si tratta di quella duplicità insopprimibile di cui testimonia tutta la sapienza umana fino a Bateson, ad esempio, che solo l’esperienza mistica trascende. Tale trascendenza, o superamento della dualità, implica il naufragium intellectus, cioè il passaggio dal funzionamento ordinario della coscienza a uno extraordinario, tale cioè da cogliere l’unità del tutto nella perfetta cognizione dei distinti. Non è perciò uno stato di confusione o regresso nell’omogeneità del caos, né la sensazione di fusionalità emotiva col “tutto”, tipica delle esperienze new age; ma è al contrario uno stato di sovraintelligenza che abbraccia e insieme è abbracciata, che distingue, ma non separa, che comprende per partecipazione essenziale e non per distacco. Cose note ai sapienti, ma che nel calderone confusionale dei nostri tempi vale la pena di rammentare: comunione di sintesi e analisi coesistenti contemporaneamente. Non per nulla il pensiero indiano lo chiama advaita, cioè non duale.

Questa è la dimensione della verità autorivelantesi, propria di ogni religione, sempre avvertita come grazia e non conquista, sperimentazione della visione divina, totalità vivente, sapienza senz’ombra, pace e gioia senza fine.

 

Panikkar insiste sul parallelo tra religioni e lingue. La lingua, si sa, non è semplicemente un linguaggio o codice, ma una particolare, insostituibile apertura al mondo, è l’incavo che lo accoglie e lo plasma, in modo che esso si rivela con sfumature e connotazioni uniche, intraducibili. Una lingua è anche la sua cultura, è una visione del mondo, e se muore lascia un vuoto incolmabile. Ci si può intendere, confrontare e tradurre, ma nella sua radicalità ultima una lingua – come una persona -  è attingibile solo dall’interno. Questo è un tratto assoluto, che contraddice sia il relativismo, sia il monismo. Di fronte a questo bisognerebbe sviluppare il massimo rispetto: lì è dove ci si deve fermare e umilmente riconoscere il limite. Del resto, se l’altro, persona, lingua, religione non mi presentasse un limite invalicabile, il mio io lo travolgerebbe o se ne approprierebbe irresistibilmente. Tale limite è la fine della confrontabilità e l’inizio dell’ineffabile esperienza di una rivelazione. Credo di poter chiamare questo luogo anima, e quest’esperienza, nel linguaggio cristiano, cristica.

Da un lato tale limite, che incontriamo di fronte all’immenso come al minuscolo, che ci fa deporre le armi della speculazione, ci mostra continuamente che l’essere supera il pensiero (un altro tema, oserei dire evidenza, cara a Panikkar). Dall’altro un po’ paradossalmente ci affranca dall’isolamento perché ci apre a un altro modo della comprensione: l’amore.

Ho detto che il fatto che una lingua, persona, religione solo dall’interno sia radicalmente attingibile è un tratto assoluto, che contraddice sia il monismo (che è l’identificazione della verità in quanto tale con il proprio accesso, che quindi primeggia su ogni altro), sia il  relativismo (ovvero la negazione della verità sulla base del pluralismo degli accessi). Che cosa ci dispiace di entrambi?   Del primo che i confronti sono impropri perché accostano una conoscenza interna a una esterna, quando non addirittura estrapolata da qualche casuale contingenza. Avvertito ciò come  pregiudizio, ne consegue un rifiuto che dà luogo all’esigenza di un’astratta equivalenza dei dati. Dal che si mostra che il monismo genera, non appena sottoposto a riflessione, il relativismo. Purtroppo  però quest’ultimo non fa che riproporre in modo programmatico l’errore monistico di accogliere una conoscenza estrinseca, cioè una non conoscenza.

 

La struttura della realtà non necessita di ambiti speciali per essere indagata, ma si rivela ovunque e comunque, e anche l’umile e sottile vibrazione di un filo d’erba può arrestarci e suscitare la reverenza per il mistero che lo attraversa. E nel fermarci con stupore e reverenza (credo che questa sia la radice di quel che si chiama timor di Dio), ecco in noi dischiudersi un altro stato di comprensione, che è insieme diretta comunicazione, l’amore appunto, in cui non siamo più uno di fronte all’altro, o, come direbbe Hegel, in lotta per l’autoaffermazione, ma in comunione. La comunione ci rinvia a ciò che non è me, né te, ma che ci fa essere, prima durante e dopo, trascende ogni aspetto particolare, appropriabile, per riportarci alla grazia di partecipare dell’essere. Ci dischiude alla trascendenza, che non semplicemente sarà, né è da cercarsi altrove, ma è presente in ogni attimo e manifestazione di realtà. Nemmeno è “presente”, ma è l’essenza della realtà in quanto vivente. Cristo, il Vivente, nella nostra fede.

Allora ogni amore, ogni lingua, ogni fede è assoluta, se è l’apertura insindacabile in cui fluisce la trascendenza, cioè il donarsi dell’Essere che supera e ricolma il limite soggettivo della creatura. Per cui S. Paolo dice che le più grandi virtù, i più grandi saperi sono nulla senza la Carità, cioè l’amore per l’Amore che fa essere ogni realtà.

Non si tratta allora, appunto come dice Panikkar, di costruire dei supersistemi che inglobino e ricompongano quelli esistenti, o unificare riduzionisticamente in un qualche esperanto non solo le lingue, ma tutti gli ambiti, dalla politica alla religione. Infatti, dice Panikkar, il pluralismo (concetto tanto diffuso, quanto sommariamente invocato) non è un supersistema. Accetta il fatto che la condizione umana non possiede una visione onnicomprensiva della realtà.

È come se l’esistenza che noi viviamo si svolgesse sulla superficie di una sfera di cui ciascuno è uno degli infiniti punti. Ma ogni punto è connesso al centro dal raggio che gli corrisponde. Gli infiniti raggi non sono sovrapponibili, cioè identificabili, ma, come la superficie è condivisa, il centro è comune, costitutivo della realtà vivente di ciascuno. È poi guardando al centro, che per noi cristiani è Cristo, che ci si riconosce fratelli, non sforzandoci o perseguitandoci negli spazi tribolati della superficie che già separano anche il più vicino.

Quest’immagine può aiutarci a capire quando Panikkar dice che le religioni – come le persone, le lingue, ma le religioni in quanto si occupano delle cose ultime - ci rivelano aspetti differenti della verità perché la verità stessa è poliedrica. Potrebbe del resto il centro della sfera guardare a un solo punto?

Inoltre rappresenta le due possibili direzioni, orizzontale e verticale, per cui si cercano spiegazioni e accordo.

 

Qui si aprirebbe per me – ma la chiudo subito - una riflessione critica sul modo di affrontare le questioni, non tanto sui contenuti in se stessi, quanto sul modo corretto o meno di porre le domande e dunque di formulare, talvolta evocare o addirittura suscitare i problemi: una questione già platonica, ma anche confuciana, oggi nuovamente decisiva per la vita stessa della filosofia.

Concludo invece con un breve accenno a quanto particolarmente mi sta a cuore, cioè la concezione impropriamente verticale della storia quale modello tutt’ora vigente. Portare l’Assoluto nella storia e farne un sistema è tutt’uno con la perdita del centro, restando all’immagine precedente della sfera. Si tratta di una “congettura”, per dirla con Cusano, errata  e perniciosa.

Certo che la storia in qualche modo ci trascende, ma come la numerazione del molteplice, come totalità degli eventi e del loro significato, come la superficie il punto. Ci trascende orizzontalmente.

Voler unificare le storie umane, e dunque le loro culture, cogliendone il senso complessivo e ultimo, selezionare, organizzare, archiviare avvenimenti e specifiche vicende ed esperienze che costituiscono l’accesso, che abbiamo detto assoluto, di intere popolazioni al loro senso specifico ed ultimo, questo progetto mostruoso di una parte dell’umanità moderna è semplicemente la radice di disumani misfatti.

È l’attualità dell’hybris che innalza l’esistente ad assoluto per negare il Vivente, l’Essere. Anche se oneste oltre che grandi menti hanno accolto tale modello torcendolo in direzione autenticamente metafisica, per farne grondare la speranza, rugiada per l’umanità. Penso a Teyllard, anche a Bloch, a Balducci.

Tuttavia, una falsa certezza, oserei dire superstizione, di sviluppo, progresso, evoluzione, di fatto di dominio del creato, ha sostenuto, e ancora sostiene, l’arroganza della creatura nei confronti del creato, e insieme il suo oblio per il Creatore. Ha portato a relativizzare, se non disprezzare, altri paradigmi, altre esperienze, a lusingarsi di portare in proprio la salvezza.

Questo contenuto della civiltà occidentale, questa apologia escatologica della storia d’Occidente in quanto tale, andrebbe sganciato nettamente dalla vicenda della salvezza rappresentata dall’alfa e l’omega della storia che è Cristo, il quale s’incarna sì nella storia, ma per affrancarla dal peccato originale, da quel  sarete come Dio che esclude appunto Dio dalla vicenda umana.

 

Le religioni, ripetiamo con Panikkar, ci rivelano aspetti differenti della verità perché la verità stessa è poliedrica. Esse sono dunque in qualche modo assolute, non riducibili l’una all’altra, non intercambiabili, in quanto ciascuna è non solo manifestazione, ma accesso, accoglimento,  esperienza del divino. Esiste solo un modo autentico, e dunque pacifico, di accostarsi ad esse: dall’interno. Su questo devono vigilare i custodi del dialogo, pena la Babele, e del pluralismo, pena il supermercato.

Pochi hanno la speciale sorte, come Panikkar, di pensare disinvoltamente in più lingue, o, se vogliamo, di puntare al centro da più punti lungo diversi raggi. Ma con questa sua preziosa esperienza egli ci invita non a inopportuna onniscienza, bensì al radicamento interiore nella via. La testimonianza di più accessi da parte di qualcuno è garanzia di autenticità delle vie, e al contempo monito severo all’interiorità dell’esperienza. Il suo dialogo intrareligioso, come egli lo chiama, è il modello di quello interreligioso.

 

 

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