IL LOGOS, IL DHARMA E L’INTERDIPENDENZA

benedetto3L’immagine più diffusa che Benedetto XVI comunemente suscita non si collega tanto al dialogo interreligioso, quanto piuttosto allo sforzo di ridefinire l’identità della Chiesa Cattolica in un’epoca che appare sempre più lontana dalle radici cristiane; un’epoca il cui dato caratterizzante può essere identificato con la categoria di relativismo.

La tesi che in quel che segue si vuole sostenere è che questa linea di ricerca riveste invece un enorme interesse per il dialogo interreligioso. Vale a dire che il Papa teologo, quali che siano i modi in cui egli stesso ha interpretato lungo gli anni la formazione del proprio pensiero, è giunto a enucleare un problema che riguarda la coscienza religiosa universale, al di là di ogni specifica connotazione.

Si può in questa luce considerare il clamore suscitato dal discorso di Ratisbona, al di là degli equivoci e delle strumentalizzazioni fin troppo evidenti, come un riflesso nell’opinione pubblica mondiale dell’emergere di tale problema, che si cercherà di identificare con la maggior precisione possibile.

IL CRISTIANESIMO E LE ALTRE RELIGIONI

Diciamo innanzitutto che il discorso di Ratisbona presuppone il percorso di riflessione di un’intera vita, che ha preso forma negli anni ben prima che chiunque potesse immaginare che la persona avrebbe rivestito un giorno il rango della massima autorità religiosa della Cristianità. Un percorso che non a caso si è da sempre misurato con ciò che mina la fede in epoca moderna, vale a dire la sua separazione dal sapere. Scriveva ad esempio nel 1970 il teologo Joseph Ratzinger:

Anche tra i credenti si diffonde sempre più un sentimento, quale può gravare tra i compagni di viaggio di una nave che affonda: essi si domandano se la fede cristiana abbia ancora un futuro o se, invece, non si renda sempre più palese come essa sia semplicemente superata dal progresso intellettuale. A monte di queste riflessioni sta la coscienza di una profonda spaccatura tra il mondo della fede e quello del sapere, che appare essere incolmabile, vanificando così la fede. [1]

Poiché dunque il discorso di Ratisbona presuppone tutto ciò, scegliamo un testo che può adeguatamente documentarlo, con particolare riferimento ai temi del confronto interreligioso. Si tratta di un testo del 2003, la cui importanza è stata forse sottovalutata, dal titolo Fede, Verità, Tolleranza. Il Cristianesimo e le religioni del mondo [2]. Esso raccoglie interventi del decennio precedente, ad eccezione del primo che risale al 1964, e può essere considerato l’effettiva premessa del discorso di Ratisbona.

Quando Benedetto XVI, costernato di fronte alle reazioni di ostilità provenienti dal mondo islamico, dichiarerà che intenzione di quel discorso era di servire al dialogo interreligioso, si riferirà a tutto un tessuto di considerazioni che il discorso solo in parte esprime, e che un confronto con il testo indicato può aiutare a ricostruire.

Una difficoltà preliminare che sorge nell’accostarsi a questo testo, come in generale alla figura e all’opera del suo autore, è una percezione che appare in contrasto con aspettative diffusamente presenti, cioè con l’attesa che la religione cristiana sia tranquillamente concepita come via di salvezza di pari dignità rispetto ad altre. Non a caso nella prefazione si esprime la consapevolezza di sostenere una tesi controcorrente nell’affermare la pretesa della fede cristiana “di conoscere e annunciare l’unico vero Dio e l’unico vero Dio e l’unico Salvatore di tutti gli uomini” [3].

Molto ci sarebbe da dire al riguardo, forse anche relativamente a un problema intrinseco alla teologia cristiana nel definire il rapporto con le altre vie spirituali; ma in ogni caso va riconosciuto il diverso ruolo in cui si trova chi, avendo autorità nella Chiesa, si rivolge agli uomini di altre fedi oppure invece parla all’interno della Chiesa stessa, definendo i fondamenti che le sono propri. Non operare questa distinzione significa negare alla Chiesa Cattolica quel che senza difficoltà si concederebbe alle altre religioni, ma anche attribuire a essa un ruolo sovraordinato, come di rappresentanza della religiosità universale: cosa che, per quanto incontri come quelli di Assisi possano averla involontariamente suggerita, è da ritenersi del tutto indebita.

Un’altra considerazione sarebbe poi da fare. Inavvertitamente si è indotti a pensare che il confronto tra le religioni debba assumere un modello desunto dalla politica, in quanto sfera della mediazione dei conflitti. In tal senso, pensando ad esempio a un parlamento o addirittura un’ONU delle religioni, viene naturale la richiesta che ciascun soggetto, come accade in democrazia, sappia relativizzare le proprie posizioni e demandare al dibattito l’individuazione del bene comune. In questo modo però si rischia di non cogliere la natura specifica delle religioni, in quanto ciò che le fonda non è un particolare interesse costituito, che deve essere mediato con altri, ma una particolare forma di rapporto con l’Assoluto. Quel che si può chiedere ad esse è dunque che nessuna, innanzitutto per fedeltà a quel rapporto, lo ritenga così esclusivo da autorizzare la violenza nei confronti altrui: il che costituisce per l’appunto il senso più esplicito del discorso di Ratisbona. Non è invece da attendersi, in una prospettiva pluralistica, se non che ciascuna religione interpreti le altre con le chiavi di lettura che le sono proprie, auspicando che esse siano il più possibile attente e rispettose.

Non ci sono forse parole più adatte per esprimere questo atteggiamento se non quelle fatte incidere nel terzo secolo prima di Cristo dal re Aśoka. Dopo aver unificato per la prima volta l’India ed essersi convertito al Dharma buddhista in conseguenza dell’orrore per il sangue versato, affermò di considerare bene supremo ‘il reale progresso in tutte le religioni’, aggiungendo:

Il progresso reale ha forme diverse, ma la sua radice è la moderazione nell’esaltare la propria religione come nel criticare l’altrui; e il parlare sia ben meditato, e vi sia rispetto. Agendo in questo modo si esalta la propria religione e non si fa offesa alle altre; agendo diversamente si fa ingiuria alla propria religione e alle altre. [4]

 

Tornando comunque al testo del 2003, e particolarmente all’intervento del 1964, ci si sforza di identificare il posto del Cristianesimo nella storia della cultura universale. Da osservare è che tale obiettivo viene perseguito attraverso un confronto che privilegia non l’Islam, bensì proprio le correnti religiose dell’India.

Riprendendo uno schema non nuovo nei trattati di storia delle religioni, ma reinterpretandolo con originalità, il teologo Ratzinger prospetta un confronto fra le tre vie d’uscita dal mito che si sono storicamente configurate: cioè la rivoluzione monoteistica, che ha luogo a partire dal popolo ebraico, la mistica, intesa non come esperienza comune a tutte le religioni ma come tratto caratterizzante la spiritualità dell’India, e l’illuminismo, inteso come elaborazione, fin dal mondo antico, di un’idea di ragione del tutto separata dalla fede religiosa.

In primo luogo troviamo sedimentato lo stadio delle antiche religioni (cosiddette primitive), che poi si sviluppa nello stadio delle religioni mitiche, nelle quali le esperienze sparse dei primordi si raccolgono in una coerente visione unitaria. Entrambi gli stadi non hanno nulla a che fare con la mistica nel senso più stretto, insieme, tuttavia, formano il vasto campo antecedente la storia delle religioni che rimane costantemente importante come corrente sotterranea dell’intero fenomeno. Se il primo grande passo della storia delle religioni, dunque, consiste nel passaggio dalle esperienze sparse dei primitivi al mito in grande stile, il secondo passo, decisivo e tale da determinare l’attuale carattere della religione, consiste nell’uscita dal mito. Tale passo storicamente si è verificato in tre modi:

  1. 1.Nella forma della mistica, in cui il mito delude come mera forma simbolica e si rafforza l’assolutezza dell’ineffabile esperienza vissuta. Di fatto poi la mistica si dimostra custode dei miti, rifonda il mito, che spiega come simbolo della verità.
  2. 2.la seconda forma è quella della rivoluzione monoteistica, la cui forma classica si trova in Israele. In essa il mito è rifiutato come arbitrio umano. Viene affermata l’assolutezza della chiamata divina tramite il profeta.
  3. 3.Va aggiunto come terza forma l’illuminismo (Aufklärung), il cui primo grande momento si verificò in Grecia. In esso il mito come forma di conoscenza prescientifica viene superato e si instaura l’assolutezza della conoscenza razionale. L’elemento religioso diventa privo di significato, al massimo gli rimane una certa funzione puramente formale di cerimoniale politico (= riferito alla polis). [5]

 

L’intento di questo modello interpretativo è duplice.

Da un lato si tratta di salvaguardare la specificità del Cristianesimo, inteso come esito più coerente della rivoluzione monoteistica, rispetto a un senso comune dominante che tende a relativizzare ogni forma religiosa e a percepirla come espressione, culturalmente determinata, di un’unica esperienza in quanto tale ineffabile. Poiché questa posizione è propriamente quella della mistica, si tratta dunque di sottrarre il Cristianesimo all’abbraccio di una forma di pensiero in realtà alternativa a esso.

L’uomo di oggi … è urtato dall’affermazione di assolutezza del Cristianesimo, che gli sembra poco credibile di fronte a così tante relatività storiche a lui ben note, si sente molto più compreso e attirato dal simbolismo e dallo spiritualismo di un Radhakrisnan [esponente rappresentativo della cultura dell’India che è stato anche presidente della Repubblica Indiana], che insegna la relatività di tutti i messaggi religiosi articolabili e la validità della sola e unica esperienza spirituale mai adeguatamente dicibile, la quale (sebbene si presenti di grado diverso) è, a suo parere, una e la medesima. Per quanto significativa, questa opzione poggia tuttavia su un cortocircuito. Infatti, solo in apparenza Radhakrisnan oppone al punto di vista ‘partigiano’ di chi è cristiano una apertura super partes verso tutto ciò che è religioso; in verità, come chi è cristiano, egli parte da una dottrina dell’assolutezza che corrisponde alla sua struttura religiosa; e per il Cristianesimo (in genere per ogni tipo di vero e proprio ‘monoteismo’) la pretesa della sua via non rappresenta una pretesa minore di quella che l’assolutezza cristiana rappresenta per la propria. Infatti, se egli insegna l’assolutezza dell’ineffabile esperienza spirituale e la relatività di tutto il resto, chi è cristiano nega la validità unica ed esclusiva dell’esperienza mistica e insegna l’assolutezza della chiamata divina che s’è fatta udibile in Cristo. [6]

 

Il secondo intento che si può ravvisare in questo modello è porre le premesse per una definizione articolata del rapporto con l’illuminismo.

Per quanto quest’ultimo sia nella sua essenza negazione della religione, è storicamente indispensabile che le diverse forme religiose stabiliscano un rapporto con esso. Ciò infatti è avvenuto per il monoteismo, e questa unione della fede nell’unico Dio con la ragione greca è per l’appunto il centro del discorso di Ratisbona, ma potrebbe avvenire oggi in altri termini con la mistica indiana. Il relativismo della coscienza non più religiosa odierna potrebbe incontrarsi e ricevere una sorta di sacralizzazione dalla relativizzazione di ogni forma della coscienza religiosa che è il presupposto dell’esperienza mistica.

… la filosofia postmetafisica dell’Europa si collega singolarmente alla teologia negativa dell’Asia, per la quale il divino, in se stesso e svelatamente, non può mai entrare nel mondo dell’apparenza, nel quale viviamo: si mostra solo in riflessi negativi e resta al di là di tutte le parole e al di là di ogni pensiero, nella sua trascendenza assoluta. Queste due filosofie, in sé, sono radicalmente diverse nei loro presupposti fondamentali e per la direzione che propongono all’esistenza umana. Ma nel loro relativismo metafisico e religioso esse sembrano confermarsi a vicenda. Il relativismo religioso e pragmatico dell’Europa e dell’America può mutuare dall’India una specie di consacrazione religiosa, che sembra conferire alla sua rinunzia al dogma la dignità di un timore reverenziale più nobile di fronte al mistero di Dio e dell’uomo. Viceversa l’appellarsi del pensiero europeo ed americano alla visione filosofica e teologica dell’India si ripercuote rafforzando la relativizzazione di tutte le figure religiose, caratteristica per la cultura indiana. [7]

 

LA DITTATURA DEL RELATIVISMO E LA CRISI DELL’UOMO MODERNO

È noto che negli anni la categoria di relativismo, per quanto generalmente non più connessa alla mistica indiana, ha assunto nella riflessione del teologo Ratzinger un significato sempre più forte, fino a designare il modo di pensare dominante nella società odierna, da cui la fede cristiana deve guardarsi come da ciò che la minaccia alle radici. Un clima che in qualche misura è penetrato anche nella Chiesa, compromettendone la convinzione più profonda.

Ancora nell’omelia pronunciata all’apertura del Conclave da cui egli stesso sarebbe stato eletto Pontefice, il Cardinale Ratzinger parla di dittatura del relativismo come orizzonte fondamentale del tempo presente. 

Di fronte a ciò emerge la necessità che il Cristianesimo, anziché smarrire il senso della propria identità, ritrovi la coscienza della sua vocazione universale. La ricerca del fondamento di tale vocazione è ciò che costituisce per l’appunto il tema del discorso di Ratisbona. Ma tale ricerca deve confrontarsi con ciò che è alla radice, nella storia dell’uomo occidentale, del relativismo: la scissione tra la fede e il sapere. Una scissione che, per quanto spesso intesa come salutare distinzione tra ambiti diversi, è tuttavia pregna di gravi conseguenze soprattutto in ambito morale.

In un saggio più recente contenuto nel testo del 2003, Ratzinger porta alla luce questo nodo attraverso una citazione del fisico Wolfgang Pauli, riportata da Heisenberg:

“La separazione completa tra sapere e credere è soltanto un espediente d’emergenza per un tempo molto limitato. Per esempio, nell’ambito culturale occidentale, potrebbe venire in un futuro non troppo lontano il momento in cui le parole e le immagini della religione qual è stata finora non possiederanno più alcuna forza di persuasione neppure per la gente semplice; allora, temo, anche l’etica vigente in breve tempo crollerà e accadranno cose di un’atrocità che non ci possiamo neppure immaginare”. [8]

 

A commento della citazione, tratta da un dialogo del 1927, Ratzinger osserva:

Gli interlocutori del dialogo … non potevano sapere che di lì a poco sarebbero iniziati quei nefasti dodici anni , nei quali effettivamente avvennero cose ‘di una atrocità’ che prima doveva sembrare impossibile. Certo, ci fu un buon numero di cristiani, nomi noti e altri rimasti anonimi, che, in forza della loro coscienza cristiana, si opposero al potere del demonio. Ma nel complesso la forza della seduzione risultò maggiore, il seguire l’andazzo diede via libera al male. [9]

Ebbene, è lecito affermare che una simile condizione non riguarda soltanto l’uomo occidentale. Lungo il Novecento cose non meno atroci che nella Germania nazista sono avvenute anche in vaste parti dell’Asia, dove le radici erano di altro tipo rispetto a quelle cristiane. Laddove una visione della realtà diversa da quella tradizionale è stata imposta, nella quale i sentimenti personali non riuscivano più a collocarsi, masse immense di individui si sono rese disponibili per ogni sorta di efferatezza.

Il problema è che una sorta di patologia compromette la condizione dell’uomo moderno, che i successi materiali non ripagano di una sofferenza che si annida nel suo intimo.

La crisi attuale dipende proprio dal venir meno di una mediazione tra l’ambito soggettivo e quello oggettivo, dal fatto che la ragione e il sentimento prendono direzioni divergenti, tanto da ammalarsi entrambi. Infatti, se la ragione specializzata è enormemente forte e capace, non consente però più, a causa della standardizzazione di un unico tipo di certezza e di razionalità, lo sguardo panoramico sui problemi fondamentali dell’uomo. Ne segue un’ipertrofia dell’ambito del conoscere tecnico-pragmatico a cui fa da contraltare una contrazione nell’ambito dei fondamenti: da qui deriva un turbamento dell’equilibrio che può divenire mortale per l’humanum. [10]

SULLE TRACCE DI UN FONDAMENTO COMUNE

Nel discorso di Ratisbona si afferma che la scissione tra la fede e il sapere scaturisce da un fraintendimento operato dal Cristianesimo in merito alla propria stessa natura. La convinzione, maturata in particolare nel contesto della Riforma protestante, che la fede in Cristo debba prendere congedo dall’involucro della filosofia greca, alimenta l’equivoco di un’esperienza religiosa originariamente scevra da strutture interpretative della realtà. La conseguenza è che la fede, sradicata dal terreno della ragione antica, non ha trovato ospitalità presso quella moderna, finendo per apparire un corpo estraneo nell’assetto della coscienza culturale.

Ma il Cristianesimo ha in realtà un legame originario con la ragione. Il monoteismo ebraico e la filosofia greca non sono percorsi separati il cui incontro sia dovuto a cause contingenti. Una profonda analogia li accomuna originariamente, predisponendo il loro avvicinamento.

Già il nome misterioso di Dio dal roveto ardente, che distacca questo Dio dall’insieme delle divinità con molteplici nomi affermando soltanto il suo ‘Io sono’, il suo essere, è, nei confronti del mito, una contestazione con la quale sta in intima analogia il tentativo di Socrate di vincere e superare il mito stesso. [11]

L’intera genesi del monoteismo ebraico veniva del resto intesa, nel testo del 2003, nei termini di un progressivo processo di purificazione dalle forme mitiche e cultuali del Vicino Oriente che conosce un passaggio decisivo nella comprensione del mondo in termini razionali.

Il monoteismo si chiarisce ulteriormente e acquista forza razionale mediante il collegamento col tentativo di comprendere il mondo in termini razionali. La saldatura, per così dire, tra idea di Dio e interpretazione del mondo è concepita come un riflesso della Sapienza creatrice, da cui ha origine. La visione della realtà che ora si viene formando potrebbe rispondere all’interrogativo formulato da Heisenberg nei colloqui da me citati all’inizio, quando dice: ‘E’ completamente privo di senso immaginarsi, dietro alle strutture ordinatrici del mondo, una “coscienza”, di cui esse siano “intenzione”?’. [12]

Tornando al discorso di Ratisbona, questa concordanza tra il pensiero greco e la fede biblica trova  la sua piena realizzazione con il Cristianesimo.

Modificando il primo versetto del Libro della Genesi, il primo versetto dell’intera Sacra Scrittura, Giovanni ha iniziato il prologo del suo Vangelo con le parole: ‘In principio era il Logos’. (…) Logos significa insieme ragione e parola – una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi, appunto, come ragione. Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi. In principio era il Logos, e il Logos è Dio, ci dice l’evangelista. L’incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. [13]

Naturalmente qui si parla di ragione in senso ben diverso da come la si intende in epoca moderna, dove la ragione è una facoltà soggettiva dell’uomo, attraverso cui quest’ultimo organizza il suo rapporto con la realtà. Si intende una ragione che è ordine intrinseco alla realtà stessa, che in quanto razionale si rende conoscibile all’uomo. È la filosofia moderna ad aver reciso questo nesso, giungendo a concepire, con Kant, la realtà ultima come inconoscibile.

Le conseguenze di questa scissione sono ciò che già si è visto, cioè una condizione culturale in cui la fede, isolata dal suo fondamento razionale, perde ogni vigore lasciando l’uomo, a dispetto di Kant, in un vuoto morale. Ma il discorso di Ratisbona aggiunge un’ulteriore conseguenza: una fede separata dalla ragione, in quanto confinata nell’arbitrio, si presta all’unione con la violenza.

La questione quindi è duplice.

Da un lato, questo è il messaggio più esplicito del discorso di Ratisbona, si tratta di affermare nel confronto tra le religioni un principio che dovrebbe apparire indubitabile a chiunque: che nessuna sopraffazione o violenza è ammissibile in ambito religioso. Un’affermazione che, anziché riaprire un contenzioso tra le diverse fedi, dovrebbe essere intesa come la richiesta di una purificazione generale, per cui le religioni in quanto tali, tornate a svolgere un’imponente funzione pubblica, si sciolgano da ciò che troppo spesso le ha snaturate. Si dovrebbe pensare al gesto con cui Giovanni Paolo II chiese perdono a vari soggetti che storicamente hanno avuto a soffrire da parte della Chiesa, quale segno incondizionato di conciliazione.

Ma d’altro lato, afferma Benedetto XVI, perché la violenza sia effettivamente percepita come estranea all’ambito religioso, occorre che quest’ultimo sia riconosciuto come dipendente da un fondamento comune, cioè la ragione universale, il Logos.

Si potrebbe dire, anche se ciò è del tutto implicito nel discorso di Ratisbona, che tale discorso fornisca una risposta decisiva alla domanda che era alla base del testo del 2003, cioè quale sia il posto del Cristianesimo nel contesto delle religioni mondiali. Il Cristianesimo può farsi oggi portatore della pace tra le religioni in quanto il suo fondamento è nel Logos.

Un’obiezione potrebbe a questo punto apparire ovvia: che una simile proposta sia cioè viziata da un duplice eurocentrismo, per cui da un lato si vincola il Cristianesimo agli assetti della civiltà occidentale, dall’altro si ripropone quest’ultima come asse della cultura mondiale. Lo stesso discorso di Ratisbona parrebbe confermare a chiare lettere questo tipo di lettura.

Il qui accennato vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto tra la fede biblica e l’interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco, è un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista della storia delle religioni, ma anche da quello della storia universale – un dato che ci obbliga anche oggi. Considerato questo incontro, non è sorprendente che il Cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell’oriente, abbia infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo anche inversamente: questo incontro, al quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato l’Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa. [14]

Eppure, nonostante l’evidenza di parole di questo tipo, una simile obiezione potrebbe non cogliere la complessità del progetto teologico di cui Benedetto XVI si fa portavoce, come del resto la situazione attuale dei rapporti tra le culture.

Il problema potrebbe essere un altro, cioè di consentire l’uscita da una duplice crisi.

Innanzitutto, tenendo presente lo scenario evocato dal saggio del ‘64, di impedire l’emarginazione del Cristianesimo dal contesto delle culture religiose mondiali, in quanto legato a una concezione della verità non più accettabile per l’uomo d’oggi.

In secondo luogo di togliere la stessa civiltà occidentale dall’isolamento in cui la perdita delle radici religiose l’ha posta rispetto alle altre culture, che tali radici hanno conservato.

Questo secondo intento è dichiarato esplicitamente nel discorso di Ratisbona.

Nel mondo occidentale domina largamente l’opinione che soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali. Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione del divino dall’universalità della ragione un attacco alle loro convinzioni più intime. Una ragione, che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell’ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture. [15]

 

In questa prospettiva l’idea di ricostruire un disegno unitario della civiltà occidentale, nel quale il Cristianesimo veda riconosciuto il suo ruolo determinante, potrebbe non essere affatto in contrasto con la prospettiva del dialogo interreligioso. Come non lo è la convinzione, espressa nel discorso di Ratisbona, che il rapporto tra la fede e la ragione possa venire ricostruito riconciliando le esigenze  religiose con la scienza stessa.

E’ nella natura stessa della scienza infatti che essa rechi in sé un presupposto di cui non è consapevole e dal quale tuttavia si mostra inseparabile: la convinzione, di impronta platonica, che vi sia una corrispondenza tra le forme del conoscere e le forme della realtà. Sarebbe sufficiente che tale presupposto fosse portato alla coscienza e ne venissero comprese le implicazioni per veder risorgere un più vasto orizzonte in cui la fede religiosa ritrova posto.

… la moderna ragione propria delle scienze naturali, con l’intrinseco suo elemento platonico, porta in sé … un interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilità metodiche. Essa stessa deve semplicemente accettare la struttura razionale della materia e la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso metodico. Ma la domanda sul perché di questo dato di fatto esiste deve essere affidata dalle scienze naturali ad altri livelli e modi del pensare: alla filosofia e alla teologia. [16]

Se un vizio di eurocentrismo può effettivamente ravvisarsi nelle analisi del teologo Ratzinger, esso è insito piuttosto nello sguardo di chi, in generale, guardi le culture altre con gli occhi dell’Occidente, cosa che ha imparato a fare anche chi a tali culture appartiene.

Il discorso è troppo complesso per poter essere svolto in poche battute, ma molto ci sarebbe da dire su come ad esempio l’India abbia in epoca moderna definito la propria identità in termini mutuati dall’Occidente, restituendo così a quest’ultimo un’immagine a misura di quanto esso andava cercando. Ciò vale innanzitutto per quell’idea di una religiosità tutta volta a inabissarsi nell’indistinto, idea a cui l’Occidente ha fatto per lo più ricorso per interpretare un universo spirituale con cui avrebbe potuto riscontrare ben più profonde affinità.

È caratteristica di tale mistica l’esperienza dell’in-distinzione. Il mistico sprofonda nell’oceano dell’Uno-tutto (che sia esso definito come “nulla”, in un’accentuata teologia negativa, o positivamente come “tutto”, è la stessa cosa). [17]

Ma se indaghiamo ad esempio il significato di un termine indubbiamente centrale nella coscienza religiosa indiana, cioè Dharma, che per l’Induismo esprime la legge immutabile dell’universo e per il Buddhismo l’insegnamento che la riflette, non ci troviamo affatto nell’area semantica dell’indifferenziato, bensì piuttosto in quella di una struttura ordinatrice, la cui comprensione diventa insegnamento di vita.

Il fatto che l’esperienza suprema, ciò che in particolare nel Buddhismo è l’Illuminazione, sia concepita come ineffabile, non significa che essa consista in un’inabissarsi dell’intelligenza, ma piuttosto nell’accesso a un’intelligenza più grande, in quanto tale non esprimibile nel linguaggio ordinario. Disconoscere ciò significa relegare grandi correnti spirituali a quello pseudo-misticismo che volentieri sconfina nel New Age.

Non a caso la figura che sulla scena mondiale con maggior carisma rappresenta l’atteggiamento spirituale che scaturisce dalla cultura indiana, cioè il Dalai Lama, oltre che essere erede di una scuola dotata di un raffinatissimo apparato razionale, si è fatto protagonista di un’opera di mediazione culturale con la scienza più avanzata. La sua ricerca di ponti sottili tra spiritualità e scienza potrebbe essere complementare a quell’emergere di un platonismo nella scienza di cui parla Benedetto XVI. Se una differenza può essere indicata tra le due vie, essa emerge piuttosto da una più puntuale riflessione, da parte del Dalai Lama, intorno al paradigma della scienza contemporanea.

L’idea infatti di un platonismo nella scienza, cioè l’affermazione che la scienza presuppone una corrispondenza tra le forme della conoscenza e quelle della realtà, deve oggi confrontarsi con un orizzonte culturale in cui è tramontato l’oggettivismo della scienza moderna. La realtà non è più pensata conoscibile se non nella relazione con il soggetto conoscente. Il che ha conseguenza di enorme portata.

L’analisi scientifica della natura della realtà ci porta a un punto in cui persino la stessa nozione di realtà tende a sfumare. Infatti, siamo per lo più costretti a riferirci agli oggetti come a “questo-cosiddetto-tavolo” o a “questo-cosiddetto-microfono” [18]

 

Ma ciò non significa che la realtà sia invenzione del soggetto, bensì piuttosto che essa è  interdipendente con esso. Questo è il senso di ciò che è così difficile intendere in Occidente, vale a dire la vacuità di esistenza intrinseca degli oggetti.

Se ciò volesse dire che gli oggetti non esistono, se non nelle proiezioni di un soggetto, questo sarebbe nichilismo, e le sue conseguenze per l’esistenza umana e in particolare per il senso etico sarebbero distruttive. Poiché invece si intende la mancanza di separatezza, il rapporto vicendevole che unisce il soggetto all’oggetto, le conseguenze sono di tutt’altro tipo. Quello che sul piano etico viene suggerito è la cura compassionevole.

Nel Buddhismo questa prospettiva della vacuità ha profondo impatto etico sul modo in cui una persona vive la propria vita spirituale. La vacuità ha una diretta rilevanza per la visione del mondo dell’individuo e per la sua relazione con il mondo. [19]

LA RICERCA, I LEGAMI PROFONDI E LA VISIONE

Veniamo ora al punto decisivo.

Con quale atteggiamento ci si può oggi volgere a ritrovare il senso di quel Logos di cui parla l’Apostolo Giovanni?

Il fatto stesso che la Chiesa l’abbia protetto, custodendolo nel mistero attraverso il dogma della Santissima Trinità, quale rapporto suggerisce con le leggi della scienza intese in senso moderno?

Lo stesso Ratzinger pare suggerire una differenza fondamentale, connessa a un altrettanto fondamentale oblio.

Il Logos, la Sapienza, di cui da un lato parlavano i Greci, dall’altro Israele, è stato riassorbito nel mondo materiale e, al di fuori di esso, non è più accessibile. [20]

 

E’ possibile dunque che il senso del Logos sia tutto da ricercare, e che, di fronte alla necessità di  intraprendere questa ricerca, davvero la coscienza occidentale incontri oggi la spiritualità dell’Oriente. Sia lecito proporre allora di quest’ultima una diversa lettura rispetto al saggio del ‘64.

Proviamo a pensare di aver da fare con tutt’altro che un relativismo che dissolve ogni forma della coscienza in un’ineffabile quanto indiscriminata esperienza personale. Pensiamo piuttosto a un atteggiamento intellettuale che tematizzi il relativismo come struttura implicita alla coscienza ordinaria e che miri a renderla esplicita per creare le condizioni di una consapevolezza più profonda. Se così fosse, saremmo in un’atmosfera non molto diversa da quella della dialettica socratico-platonica.

Soprattutto il Buddhismo, così spesso equivocato in ambito cristiano nei termini di religione atea, potrebbe mostrare una singolare vicinanza con il sapere di non sapere socratico e col metodo maieutico. Un autore come Nāgārjuna, la cui confutazione di ogni affermazione e di ogni negazione sconvolge il senso comune non solo occidentale, diventa comprensibile se si pensa a un estremo sforzo della ragione discorsiva per andare oltre se stessa, ma non per inabissarsi nell’indistinto, bensì per aprire la mente a una ragione più grande, la cui comprensione richiede una trasformazione interiore.

Il senso di tutto ciò potrebbe non essere lontano da quanto scrive Platone nella sua famosa Lettera VII, declinando l’invito a fornire una facile esposizione dei principi del suo pensiero.

… non è, questa mia, una scienza come le altre: essa non si può in alcun modo comunicare, ma come fiamma s’accende da fuoco che balza: nasce d’improvviso nell’anima dopo un lungo periodo di discussioni sull’argomento e una vita vissuta in comune, e poi si nutre di se medesima. [21]

La proposta culturale di Benedetto XVI riattualizza un confronto che ebbe luogo nell’antica Atene tra il V e il IV secolo avanti Cristo, che vide contrapporsi il relativismo sofistico e la riapertura di un orizzonte di verità nella filosofia di Socrate e Platone. Oggi come allora, sembra dire il Papa, l’alternativa è tra un pensiero, di per sé complesso e variamente motivato, il cui limite però è di fissare l’uomo a una misura che egli stesso si dà, e la ricerca invece di una regola più grande.

Ma il fatto che il Papa richiami oggi Socrate e Platone (da ricordare è che il discorso di Ratisbona reca in conclusione una citazione dal Fedone, il dialogo della morte di Socrate), dichiarando quanto iscritto nelle cose sia stato l’incontro da parte della Chiesa antica con quella filosofia, significa più ancora di quanto non venga detto. Quell’incontro venne predisposto da legami più profondi di quanto non apparisse sulla scena degli eventi, in cui la religione cristiana soppiantò, a dire il vero non del tutto in assenza di coercizione, i precedenti culti.

Stando così le cose, non sarebbe da stupire se oggi altri incontri si stessero annunciando, sia pure in modi che solo orecchie attente possono avvertire. Non sarebbe strano se il collegamento con Socrate e Platone, indispensabile perché la civiltà occidentale ricostruisca la sua fisionomia, si ristabilisse oggi con l’aiuto delle filosofie dell’India; non più strano di quando l’Europa riapprese Aristotele dai musulmani, i quali invero  avevano ampiamente attinto alla fonte della ragione greca.

Può darsi che oggi le minacce a cui l’umanità è soggetta, conseguenti agli indirizzi che ne hanno guidato il corso negli ultimi secoli, richieda che fra tutte le forze in cui essa può trovare rifugio si stabilisca una solidarietà che non rispecchia in fondo altro che la loro natura stessa. Al di là di come in termini storico-culturali si definisca l’identità delle diverse tradizioni umane, la situazione attuale porta alla luce quello che da sempre le caratterizza: la loro interdipendenza, il fatto che ciascuna si sia generata ad opera di fattori che in ultima istanza la collegano alle altre.

Oggi la consapevolezza di questa interdipendenza può e deve diventare un impegno comune. La mondializzazione in corso è un vortice che da un lato unifica i gruppi sociali, dall’altro li frammenta, rendendo ciascuno scheggia impazzita. Ricercare dunque il senso del Logos, di ciò che unisce e conferisce ordine a ogni cosa: questo è ciò a cui ciascuno è chiamato.

E può ben darsi che i cristiani abbiano da intraprendere questo cammino con l’aiuto dei buddhisti, così come questi ultimi riscoprano nei cristiani la luce della Verità e il potere della Compassione. Può darsi poi che i musulmani intendano ciò che originariamente sanno, cioè che nell’infinità di Dio si compendiano tutte le vie degli uomini, trovandosi così sorprendentemente simili agli induisti; e che agli Ebrei sia dato meditare quel che da sempre fu loro detto, cioè che il senso di ogni elezione è la testimonianza di una responsabilità. Può darsi infine che tutti, credenti di ogni fede e anche in apparenza non credenti, abbiano da imparare che ciò che è a fondamento è comune, e quanto stolto sia rivendicare quel che neppure si conosce.

È stato lo stesso Ratzinger, a conclusione del saggio del ’64, a pronunciare parole che oggi meritano di essere ricordate, sia per una più corretta comprensione del suo pensiero, sia per la luce che gettano sullo scenario di questi nostri giorni.

Tutto quel che s’è detto non può né deve servire a creare una comoda giustificazione razionale per la fede cristiana nel conflitto delle religioni. Si è voluto piuttosto definire un po’ più chiaramente (eppure ancora in modo abbastanza generico) il posto del Cristianesimo nel complesso della storia delle religioni, per conoscere meglio noi stessi e la nostra propria via in rapporto agli altri. Se la questione ha posto in primo piano ciò che separa, non si deve tuttavia dimenticare ciò che unisce: il fatto che noi stessi siamo parte di un’unica storia che, in vari modi, è in cammino verso Dio. [22]

 

Significativo è poi come un saggio successivo, dove si cerca di delineare la nuova disposizione che dovrebbe sorgere dalla crisi della ragione positivista di fronte ai suoi esiti distruttivi, parli dell’evidenza che scaturirebbe qualora il raggio della ragione torni ad allargarsi: “Si dovrebbe rinvigorire di nuovo il talento mistico dello spirito umano” [23]. Ed esemplifica ciò con il racconto della visione di San Benedetto, riportata da Papa Gregorio Magno. Colui che, eletto Pontefice, assumerà il nome di Benedetto XVI, così si esprime:

Per non rimanere troppo nell’astratto, vorrei in conclusione chiarire quanto intendo con una immagine che è desunta da un’esperienza storica. Papa Gregorio Magno († 604), nei suoi Dialoghi, narra delle ultime settimane di vita di San Benedetto. Il fondatore dell’Ordine benedettino si era ritirato a dormire nel piano superiore di una torre, al quale si saliva ‘con una ripida scala diritta’. Egli poi, racconta Gregorio, si era alzato prima del tempo della preghiera notturna, per una veglia. ‘Stava alla finestra e supplicava Dio onnipotente. Mentre nell’oscurità della notte guardava fuori, improvvisamente vide una luce che si effondeva dall’alto e dissipava tutta la tenebra notturna… Qualcosa di assolutamente meraviglioso si compiva in questa visione, come più tardi narrò egli stesso: il mondo intero gli si presentò davanti agli occhi come dentro un unico raggio di sole’. Contro questo racconto leva un’obiezione l’interlocutore di Gregorio, con la stessa domanda che farebbe l’ascoltatore di oggi: ‘Quello che hai detto, cioè che a Benedetto fu consentito di vedere dinanzi agli occhi l’intero mondo dentro un unico raggio di sole, è cosa di cui non ho mai vissuto l’esperienza e nemmeno me la posso immaginare. Come può un uomo contemplare il mondo come totalità?’. La frase essenziale nella risposta del santo papa è la seguente: ‘Quando egli (…) vide davanti a sé il mondo intero come un’unità, non divennero piccoli cielo e terra, ma grande l’animo di chi contemplava’. [24]

 

 

Pubblicato sul n. 5-6 di ‘Interdipendenza’ del febbraio-maggio 2007

 

 

 

 



[1] Joseph Ratzinger, Fede e futuro, Queriniana, Brescia 1971, pp. 14-15

[2] Cantagalli, Siena 2003

[3] Op. cit., p. 7

[4] Editto XII, riportato in: Gli editti di Aśoka, a cura di G. Pugliese Caratelli, Adelphi, Milano 2003

[5] Joseph Ratzinger, Fede, Verità, Tolleranza. Il Cristianesimo e le religioni del mondo, Edizioni Cantagalli, Siena 2003, pp. 26-27

[6] Op. cit., p. 29

[7] Ibidem, pp. 125-126

[8] Ibidem, p.146. La citazione è da: W. Heisenberg, Der Teil und das Ganze. Gespräche im Umkreis der Atomphysik, München 1969, p. 117

[9] Ibidem, pp.146-147

[10] Ibidem, p. 150

[11] Benedetto XVI, Chi crede non è mai solo. Viaggio in Baviera – Tutte le parole del Papa, Libreria Editrice Vaticana – Edizioni Cantagalli, Roma - Siena 2006, p. 19

[12] Joseph Ratzinger, Fede, Verità, Tolleranza, pp.157-158

[13] Benedetto XVI, op. cit., p. 18

[14] Ibidem, p. 22

[15] Ibidem, p. 29

[16] Ibidem, p. 29

[17] Joseph Ratzinger, op. cit., pp. 31-32

[18] Dalai Lama, Nuove immagini dell’Universo. Dialoghi con fisici e cosmologi, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006, p. 63

[19] Ibidem, p. 63

[20] Joseph Ratzinger, op. cit., p. 165

 

[21] Platone, Lettera VII, 341, in: Platone, Opere Complete, Laterza, Roma-Bari 1979, vol VIII, P. 52

[22] Joseph Ratzinger, op. cit., pp. 42-43

[23] Ibidem, p. 167

[24] Ibidem, pp.167-168

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