Un'ontologia dell'interdipendenza

 

Il problema della costruzione di una filosofia interculturale si pone oggi a diversi livelli.

C’è innanzitutto un’esigenza ovvia per chiunque, cioè che i processi di globalizzazione in corso avvicinano i popoli, talvolta li mescolano e in ogni caso rendono inevitabile pensare la pluralità delle tradizioni e delle culture del pianeta.

Quello che comunemente si pensa e si dice, che i vari soggetti che compongono il mosaico dell’umanità devono imparare a convivere nel rispetto reciproco, presuppone evidentemente in un certo senso la conoscenza gli uni degli altri, e una conoscenza che non si limiti agli aspetti più superficiali tra quanti definiscono un’identità ma vada a cogliere le radici più profonde.

Riguardo a ciò, è convinzione oggi assai diffusa che tali radici siano costituite essenzialmente dalle tradizioni religiose, e anche per questo le religioni si trovano al centro dell’attenzione generale. Ci si sente in dovere di conoscere la religione degli altri, di riscoprire la propria, in ogni caso di farsi un’idea del fenomeno nel suo insieme.

Per quanto tale intento sia lodevole, è però possibile che vada incontro a problemi insormontabili.

Ciascuna religione si presenta come un edificio la cui ampiezza e complessità impedisce allo sguardo di afferrarlo nella sua totalità; tant’è vero che solo vivendone all’interno le sue infinite articolazioni acquistano senso, man mano che la vita ne è plasmata.

Uno studio comparato delle religioni è dunque impresa tanto indispensabile quanto impossibile: indispensabile perché solo attraverso il confronto i vari universi diventano consapevoli dei tratti che più li identificano e li caratterizzano; impossibile in quanto quegli stessi tratti assumono, nel vissuto proprio e in quello altrui, una tale varietà di significati da mettere in discussione ogni certezza al riguardo.

In realtà, pur ammettendo che le religioni costituiscano effettivamente la radice più profonda dell’identità dei popoli, è evidente che il confronto si può fare essenzialmente tra filosofie, cioè sistemi di asserzioni coerenti e razionali che possano legittimamente essere considerate come fondanti per una cultura.

Tali sistemi si desumono in taluni casi da testi scritti, in tal’altri devono essere ricostruiti attraverso l’esame delle fonti orali. In ogni caso si tratta di affermazioni sulla struttura della realtà e sulla condizione umana il cui senso può essere, almeno al livello più immediato, comunicato e compreso anche al di fuori del contesto di appartenenza.

Ma qui cominciano i problemi, perché la civiltà occidentale pare aver coltivato per due millenni e mezzo il singolare pregiudizio che la filosofia sia sua pertinenza esclusiva, che il pensiero degli altri popoli sia rimasto confinato in un limbo prerazionale.

In realtà, a ben guardare, tale pregiudizio è più che altro moderno: i Greci antichi si comportarono al riguardo né più né meno di altre civiltà, come ad esempio quella indiana o cinese, vale a dire misero in primo piano se stessi e lasciarono sullo sfondo gli altri popoli con cui sapevano di dover convivere. E’ stata invece l’Europa moderna, assumendo la consapevolezza di un ruolo di predominio mondiale, a compiere l’operazione ideologica di considerare intrinsecamente inferiori le culture che veniva di fatto assoggettando: e all’interno di una simile visione tornava comodo pensare che la filosofia greca fosse già sul nascere il superamento di quell’orizzonte mitico entro cui gli altri restavano senza rimedio relegati.

Naturalmente ciò presuppone una completa deformazione dell’altrui immagine e anche della propria, le cui conseguenze non vengono a sufficienza valutate.

Oltre a precipitare interi continenti di pensiero nel più totale disconoscimento, tale mistificazione ha forse contribuito a fraintendere il senso stesso della filosofia greca. Un senso che in epoca moderna era già del resto non più trasparente a causa di una frattura intervenuta nel cuore della storia occidentale, quando il progetto che era implicito nel pensiero antico fallì e il suo posto venne preso dal Cristianesimo.

 

Diciamo che il problema si pone, come già si diceva all’inizio, a diversi livelli.

 

Il primo livello è di ordine storico. Una coscienza mondiale quale oggi è richiesta comporta una ricostruzione del passato e delle sue radici culturali che non sia limitata a una sola civiltà, sia pure quella che è stata più determinante nell’unificazione del pianeta.

E’ ovvio che questo compito richiede un cambiamento nelle categorie interpretative e nei criteri di ordinamento del sapere. Tutto un impianto storicistico in funzione dell’idea di un progredire umano che culmina nella civiltà occidentale deve essere evidentemente abbandonato e lasciare il posto a un diverso paradigma.

Come osserva Giangiorgio Pasqualotto, il percorso dialogico che mette in luce analogie e corrispondenze tra il pensiero di culture diverse, nel quale il soggetto dialogante è a sua volta coinvolto e si ridefinisce all’interno del percorso stesso, ci rinvia a un senso originario della filosofia, la quale in se stessa è forse sempre interculturale.

Ebbene, non sarà che questo diverso orientamento sia gravido di conseguenze di notevole portata? Non è implicito in questa idea di dialogo che le diverse filosofie vadano concepite, non come inerti vestigia allineate lungo il cammino evolutivo dell’umanità, bensì come possibilità in ogni momento compresenti, rispetto a cui l’umanità di volta in volta si ridefinisce?

 

Il secondo livello riguarda il vissuto esistenziale.

Un tempo gli orizzonti culturali coesistevano l’uno accanto all’altro, mai del tutto separati e senza tuttavia richiedere che l’uomo comune si confrontasse più di tanto col problema della loro pluralità. Oggi invece si è tutti costantemente sollecitati a un’esperienza che mette più a dura prova di quanto comunemente non si ammetta.

La percezione continua della pluralità degli orizzonti comporta il pericolo di una perdita di senso: chi ha dovuto rinunciare a quella fede ingenua nell’unicità del proprio orizzonte può non riuscire a trovare una fede più matura e cadere in un banale relativismo, il cui senso ultimo è una visione nichilistico della realtà.

Ora, se intendiamo la filosofia come generica consapevolezza culturale, la questione può essere indifferente; ma non lo è qualora la si pensi, in un senso più profondo e coinvolgente, come cammino di ricerca della verità le cui conseguenze sono essenziale per l’esistenza. In questo caso essa deve aiutare l’uomo comune ad attraversare l’esperienza della relatività degli orizzonti, per tornare ad attingere in modo più maturo la certezza di un fondamento comune.

Veniamo dunque al terzo livello, quello che nel linguaggio della tradizione occidentale si definisce ontologico.

L’idea corrente, che il presupposto ontologico sia inconciliabile con una visione pluralistica, è in realtà smentita, non solo dalla filosofia di tutti i popoli non occidentali, ma anche da alcune tra le esperienze più profonde che abbiano avuto luogo in occidente: pensiamo ad esempio a Cusano oppure, nel Novecento, a Luigi Pareyson.

Quest’ultimo ha formulato un’ontologia dell’inesauribile, per cui la verità, pur mantenendosi nella sua unicità, si manifesta nell’infinita varietà delle interpretazioni. Ovvero: se solo il pensiero si sottrae all’ambito strumentale e ideologico, cioè si sottrae all’essere espressione di esigenze altre per quanto inconfessate e inconsapevoli, e si dispone a farsi creativa rivelazione della verità, ottiene di manifestarla nella sua interezza pur senza mai precludere altre manifestazioni.

Dal punto di vista buddhista il rifiuto moderno dell’ontologia, e quindi la caduta nel nichilismo, ha la sua radice in una concezione sostanzialistica dell’essere, di cui il nichilismo rappresenta l’inevitabile rovescio. Ovvero le identità sono pensate come separate. Ma fino a che punto tale concezione è originaria nella filosofia greca? Fino a che punto lo è nel Cristianesimo? Non sarà che in entrambi sia almeno implicita un’ontologia della relazione o dell’interdipendenza?

Di fatto una prospettiva di pensiero come quella proposta da Pareyson rimane oscura fino a che le identità siano pensate come separate. In questa ottica non si può neppure intendere come la verità si manifesti in altro da se stessa.

Ma le cose cambiano non appena il presupposto ontologico sia pensato come interdipendenza. Ogni identità non sussiste nella separatezza ma per sua stessa natura rinvia ad altro ed è da altro prodotta e definita. 

Un’ontologia dell’interdipendenza potrebbe essere un ottimo fondamento per una filosofia interculturale e anche per la filosofia in genere. Potrebbe venire incontro a quella rinnovata esigenza di filosofia che nella società vediamo emergere: una filosofia non certo solo accademica, a cui si richiede ciò che indubbiamente è inseparabile dal suo senso originario: cioè un insegnamento di vita.

Interdipendenza dunque come legame profondo tra tutti gli esseri e fondamento di ogni etica; come ciò che ciascuno può cogliere nell’immediatezza del sentimento e al tempo stesso deve cercare attraverso attenta investigazione e rigorosa disciplina di vita.

Interdipendenza come verità nascosta delle cose, come ricchezza inesauribile dell’essere, come frutto di una più ampia consapevolezza.

 

 

 

Il testo riproduce l’intervento tenuto nel convegno Identità e interdipendenza: visioni molteplici di un mondo interculturale, svolto a Torino nel maggio 2005, ed è stato pubblicato sul n. 2 di Interdipendenza, del febbraio 2006

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