NON ESISTONO ENTITÀ SEPARATE - LA VIA SPIRITUALE DEL DALAI LAMA

 

dalai-lama_smDa cinquantatre anni il 10 marzo ripresenta alla coscienza internazionale una ferita che il trascorrere del tempo non ha rimarginato. Nel 1959 a Lhasa una rivolta disperata soffocata nel sangue mostrò quanto fosse irreversibile l’occupazione del Tibet da parte della Repubblica Popolare Cinese. Eravamo allora in un contesto storico che appare ormai lontano: nel cuore della Guerra Fredda infatti, tra il conflitto di Corea e quello del Vietnam, quell’occupazione venne letta come un episodio del dilagare in Asia del comunismo, con un aspetto di particolare rilievo. Essa infatti non rispondeva solo a ragioni strategiche (prendere possesso del Tetto del Mondo significava porre una seria ipoteca sul controllo dell’Asia), ma anche ideologiche: si voleva estirpare le radici di una tradizione spirituale che, nei secoli precedenti, aveva condizionato la Cina stessa. Come il Dalai Lama ha suggerito in una ricostruzione storica di qualche anno fa[1], l’istituzione di cui egli rappresenta, senza mezzi termini, l’incarnazione, si è trovata, rispetto a quell’impero sovranazionale costituito dai sovrani mongoli e mancesi, in un rapporto analogo a quello che nel Medioevo europeo univa il Papa e l’Imperatore.

In una prospettiva storica di questo tipo appare subito viziata la versione ufficiale con cui il governo comunista ha giustificato e giustifica tutt’oggi l’annessione del Tibet, affermando che quest’ultimo ha sempre fatto parte della Cina: viziata per il fatto di presupporre entità politiche nettamente configurate come lo sono i moderni stati nazionali, cosa che né la Cina né il Tibet tradizionali erano. Questo è d’altra parte l’errore degli attuali nazionalisti tibetani, come Jamyang Norbu, che ricavano una conclusione opposta (il Tibet è sempre stato indipendente dalla Cina e dunque deve tornare a esserlo) dallo stesso tipo di visione. Ma le società tradizionali funzionano in termini diversi da quelle moderne: al posto dell’assoluta sovranità dello stato su un territorio ben definito c’è un complesso di poteri che collega in vario modo territori e popoli spesso eterogenei, in cui delicati equilibri connettono la forza militare e il carisma religioso.

Appare quindi in questa luce che la sofferta decisione del Dalai Lama di rinunciare alla rivendicazione dell’indipendenza nazionale del Tibet, a favore di un’autonomia che ne preservi la tradizione culturale, non è soltanto la presa d’atto dei rapporti di forza, ma risponde a una lettura molto più profonda dei nodi storici. Del resto l’espressione Via di Mezzo, con cui tale politica viene qualificata, non ha, nella tradizione del Buddhismo Mahayana, solo il senso di un ragionevole compromesso, ma del superamento delle opposte unilateralità, che sono il frutto di una mente oscurata. Dal punto di vista spirituale infatti, che in questo caso include una più profonda lettura della storia, non solo non ha fondamento la pretesa della Cina di essere un’entità stabile nel tempo che include il Tibet, ma neppure quella del Tibet di essere un’entità indipendente. Cina e Tibet sono storicamente e spiritualmente interdipendenti: questo è il senso profondo della politica della Via di Mezzo; una politica la cui lungimiranza va al di là degli effetti immediati, che potrebbero facilmente essere considerati deludenti.

Sotto questo aspetto il cieco rifiuto del regime al potere in Cina di accoglierla, e di persistere sulla via del genocidio culturale in Tibet, ha l’apparenza di una vittoria, ma condanna senza appello quel regime di fronte alla coscienza morale dell’umanità; ovvero, in termini che sono più consoni alla visione buddhista, determina un karma che non mancherà di generare frutti. D’altra parte anche la vicenda del popolo tibetano, che vive ciò che agli occhi occidentali appare inequivocabilmente un martirio per la fede, non può non avere un valore karmico: non può cioè non generare a sua volta frutti. I quali sono già in gran parte visibili: il popolo del favoloso Paese delle Nevi, che nell’immaginario sia d’Oriente sia d’Occidente appare custode di un incommensurabile tesoro spirituale, è sospinto dagli eventi a distribuire quel tesoro nel mondo.

Ciò s’intenda non nel senso di quello che qualcuno avrebbe potuto attendersi: ovvero che un Occidente in larga misura secolarizzato accolga il Buddhismo come propria via spirituale. Ciò non è avvenuto, nonostante l’immensa simpatia che gli occidentali provano per le sofferenze tibetane e per il Dalai Lama; o non è avvenuto nella forma che un’abitudine sedimentata induce a rappresentarsi: quella della conversione come adozione di una diversa religione anziché come cambiamento del cuore. Ma non è mai stato questo il modo in cui il Dharma si è diffuso lungo i secoli in Asia: non ha mai richiesto ai popoli un cambio di religione, entrando piuttosto in rapporto con la loro fede, amalgamandosi con essa, facendola rifiorire, suscitando nuovi sviluppi.

È mancato, al Dharma, ciò che è stato la forza dei monoteismi ma anche l’insidia che li minaccia internamente: la stretta connessione col potere, che conferisce la facoltà di diventare forma della coscienza sociale, legando la trascendenza con l’immanenza. È storicamente stato invece un mondo separato di rinuncianti, per lo più compreso nell’istituzione monastica, il Sangha, che si rapporta al resto della società in termini di ammaestramento etico, senza nulla chiedere in termini di proselitismo.

Il che non significa che sia mancato il rapporto col potere. La diffusione del Dharma in India si deve alla protezione dell’imperatore Aśoka e dei sovrani dei secoli successivi, il suo declino accompagna la frammentazione del potere centrale. In Cina, e poi nella più vasta area soggetta agli imperi mongolo e mancese, il Sangha interagisce col potere in modi complessi, contribuendo a legare popoli diversi e in conflitto tra loro, come quelli sedentari delle fertili pianure cinesi e quelli tendenzialmente nomadi delle steppe e dei deserti mongoli e dell’altopiano tibetano. È in questo quadro che viene emergendo, non poi molti secoli fa, la figura del Dalai Lama: una figura rivestita di altissimo prestigio spirituale, a cui è riconosciuta dal potere centrale la diretta sovranità sul Tibet, ed è protetta in cambio di protezione spirituale. È così che viene consolidandosi, tanto in Oriente quanto in Occidente, la fama del Tibet come di un luogo impregnato di intenso potere spirituale, che una natura inaccessibile separa dal resto del mondo.

Per questo, quando quella separatezza è stata violata, avendo il nuovo potere instauratosi in Cina visto nel Tibet l’essenza di ciò che voleva estirpare, il mondo intero ha in quella vicenda percepito qualcosa come un dramma spirituale che svela il senso della storia; tant’è vero che, sorta nel contesto della Guerra Fredda, è sopravvissuta a essa, come rivestendo un nucleo di verità ben lungi oggi dall’essere esaurito.

Anche l’abbandono del Tibet da parte del Dalai Lama e il suo essere accolto in India ha un significato di vasta portata: come un ritornare alle sorgenti, nella terra in cui visse storicamente il Buddha. Tant’è che in questo esilio, in cui ci si ricongiunge in realtà alle origini, la figura del Dalai Lama appare in una luce che è quella che accompagna le grandi figure religiose della storia: come senz’altro è stato per Giovanni Paolo II mentre scuoteva, a partire dalla sua Polonia, le fondamenta del potere sovietico; o quando ad Assisi accoglieva fraternamente, in un abbraccio davvero universale, i leader religiosi del mondo, tra cui, al suo fianco, proprio il Dalai Lama.

 

Dopo l’incontro con l’India, quello con l’Occidente è l’evento che pone il Dalai Lama al centro di una vicenda di grande portata simbolica. Non solo per la generica attrazione che la sua figura esercita sulla coscienza collettiva, nella quale il fascino dell’esotico non è facilmente distinguibile da un autentico richiamo spirituale, ma per due questioni più precisamente configurate.

Innanzitutto l’Occidente è il luogo in cui si esercita il massimo potere mondiale, e il Dalai Lama vi si rapporta, e in particolare alla presidenza degli Stati Uniti, come storicamente i suoi predecessori si rapportavano al poter mongolo e mancese: chiedendo protezione, in questo caso per il suo popolo sofferente, e offrendola a sua volta sul piano spirituale, in ogni caso esprimendo il suo punto di vista sulle principali questioni mondiali. Il suo ininterrotto pellegrinaggio, in cui è accolto dai potenti della terra e nelle maggiori sedi delle istituzioni mondiali, è una delle immagini che meglio esprimono il senso di questo nostro tempo, della sua ricerca di un fondamento spirituale che sappia sostenere le immani potenze materiali che sono state suscitate. Non c’è ragione di dubitare che, se un giorno potesse tornare in Tibet, egli eserciterebbe lo stesso ruolo in Cina: un mondo che, forse più di qualunque altro, ha bisogno di ritrovare le sue radici.

La seconda questione che merita di essere considerata è l’incontro del Dalai Lama con la tradizione che ha plasmato l’Occidente: quella ebraico-cristiana. Con l’Ebraismo il rapporto è stato reso particolarmente intenso da un’analogia facilmente intuibile: il suo essere capo di un popolo, non solo genericamente perseguitato, ma attratto da un tragico destino per un particolare tipo di elezione, per una dignità sacerdotale a cui è stato chiamato. È lo stesso Dalai Lama, che viene ritenuto incarnazione di Chenrezi, manifestazione dell’infinita compassione dei Buddha, ad affermare di esser certo dell’azione di Chenrezi nella storia del Tibet[2].

Più complesso, ma particolarmente decisivo, il rapporto col Cristianesimo. Significativo è che in più occasioni il Dalai Lama abbia espresso la convinzione che l’incontro degli occidentali col Buddhismo non dovrebbe tradursi in un cambio di religione, ma nella riappropriazione di quella originaria. Ebbene, ci sono buone ragioni per pensare che un invito di questo genere non sia solo dovuto a cautela, ma a una profonda ragione spirituale.

Il rifiuto buddhista del proselitismo nasce innanzitutto dall’esperienza in cui originariamente si costituisce il Sangha: la rinuncia al mondo, che è anche rinuncia al potere mondano che è conferito dall’avere seguaci. Il rapporto maestro-discepolo dev’essere un rapporto assolutamente libero, una scelta rispetto a un cammino che è inteso come strettamente personale. Il fatto che su quel rapporto si fondi il Sangha, cioè la dimensione comunitaria, non deve esser visto come una contraddizione, perché la rinuncia al mondo comporta la rinuncia all’io, inteso come credenza illusoria nell’esistenza di un sé separato: è in questa credenza la radice di quella ricerca di potere da cui si genera la sofferenza e che distoglie l’uomo dalla sua vera natura.

Quest’ultima viene attinta quando si prende coscienza dell’inconsistenza dell’io, cioè della sua mancanza di esistenza separata, così come della mancanza di esistenza separata di tutte le cose. Tutto è vuoto di esistenza intrinseca, cioè di esistenza separata, perché tutto è interdipendente. La dimensione comunitaria del Sangha è quella che meglio corrisponde alla natura degli esseri umani, come appare non appena dissolte le tenebre dell’ignoranza, ma la comunione ha una portata cosmica, e lega gli uomini a ogni altro essere. Questo legame viene espresso dal sentimento della compassione, cioè dalla percezione che l’altrui destino non è separato dal proprio, e dalla spontanea propensione, quando non si sia oscurati, a prendersene cura.

È del tutto evidente che ciò non è affatto diverso dall’amore cristiano. Per questo, nell’invito del Dalai Lama agli occidentali a non diventare buddhisti, ma a diventare migliori cristiani, c’è una profonda saggezza. Chi diventasse buddhista rifiutando il Cristianesimo si metterebbe infatti nell’impossibilità di comprendere il cuore dell’insegnamento buddhista.

L’incontro del Dalai Lama col Cristianesimo può essere rappresentato con un’immagine. Quando egli, giovanissimo, dovette fuggire in India, alla sua prima visita a Sarnath, la località presso Varanasi dove il Buddha pronunciò il suo primo discorso, ad accoglierlo c’era tra gli altri Raimon Panikkar, da alcuni anni sacerdote a Varanasi. Non è dato sapere quanto nel cammino di quest’ultimo quell’incontro sia stato influente, ma è certo che il suo punto d’approdo è contenuto in un libro che ha avuto ben quattro decenni di gestazione, il cui titolo è Il silenzio del Buddha. Il fatto che, da cristiano, Panikkar abbia avuto del Buddhismo una comprensione tanto profonda da ispirare l’intera sua opera teologica, mostra che quel che il Dalai Lama potrebbe dire, che neppure le religioni sussistono come entità separate, è anche l’intuizione, sul versante cristiano, di Chiara Lubich: non esiste separatezza, per chi guardi con gli occhi dell’amore.

 



[1] Thomas Laird, The Story of Tibet. Conversations with the Dalai Lama, ed. It. Il mio Tibet. Conversazioni con il Dalai Lama, Mondadori, Milano 2008

[2] Thomas Laird, op. cit.

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