Una società senza piacere

 

Domenico Cravero

 

Cravero artRitorna a volte, nel dibattito pubblico o nella parlata popolare, una considerazione che funge da monito consolatorio: l’attuale crisi economica almeno un risultato, un guadagno potrebbe arrecarcelo: un tempo di riflessione sull’inganno del consumismo, un sano riscatto dal piacere facile.

Fine dunque dell’edonismo? L’esito non è scontato.

In senso esteso l’edonismo è considerato la pratica di vita all’insegna del piacere. Ma, davvero, la nostra epoca si è caratterizzata per la ricerca del piacere? Potrebbero essere numerosi gli indicatori che descrivono piuttosto una società che non ha saputo e non sa godere.

 L’autore che forse per primo ha intuito il senso delle trasformazioni di fine ‘900 è stato Zygmunt Bauman, con la sua definizione del nostro mondo come “società liquida”, caratterizzata dalla corruzione del codice dell’amore.

I legami sono diventati evanescenti e insicuri. Alla leggerezza delle relazioni senza impegno (la relazione pura di A. Giddens) non corrisponde la stabilità del piacere, ma un’affettività inquieta e pesante; alla fragilità psicologica seguono le identificazioni “solide” delle dipendenze, delle immaturità; alla evanescenza degli affetti subentra l’ingannevole sponda dei comportamenti standardizzati; alla gratificazione illusoria del narcisismo la paura dell’altro, la ribellione nei confronti della comunità. L'esito complessivo è un rapido indebolimento dei rapporti umani, che si spogliano di intimità ed emotività. Nella società nel suo complesso la gente è più isolata, e ha meno opportunità di esprimere collettivamente emozioni e sentimenti forti.

Il legame è costitutivo dell’umano: non esiste essere umano se non in rapporto ad altri esseri umani. Tagliare il legame significa eliminare il piacere. Lo racconta la lunga storia degli amori traditi, dei legami evanescenti, dell’affettività immatura. Lo dice la solitudine del cittadino globale, che rende la vita affettiva assai travagliata e piena di microconflitti. Si fa sempre più fatica a costruire un rapporto stabile a partire da se stessi.

Anche divertirsi oggi è diventato più difficile La continua sollecitazione degli stimoli, l'alternarsi frenetico delle esperienze e la pronta sostituzione delle delusioni possono essere tollerati grazie alla reazione contraria: la demotivazione, l’apatia, la noia,  il non ascolto. Alla fine, anziché sviluppare il piacere come un ingrediente necessario e naturale della vita, si finisce di vivere anche il proprio corpo come nemico. Il corpo, liberato e reso disponibile per il piacere, si rivela fonte di nuovi tormenti, una situazione carica di nevrosi perché ogni ricerca di godimento è soffusa di paura (l’ansia della prestazione).

Le nuove espressioni del disagio interiore e relazionale e della sofferenza mentale (dipendenze, anoressie, depressioni, somatizzazioni, attacchi di panico, disturbi della personalità) riguardano, infatti, prevalentemente e in modo crescente, la perdita del desiderio, l’annullamento del piacere, la pulsione di morte. Sono espressioni profonde di una sofferenza riassumibile nella cifra sintetica del vuoto esistenziale.

La sindrome tossicomane, quella depressiva, anoressica e psicotica, non sono però solo patologia. Sono anche sintomi dell’attuale stato di disagio dell’umanità. 

Fin dalle analisi freudiane sappiamo che il mentale è condizionato dal sociale. Tra il sintomo classico e il male della modernità avanzata sussiste, tuttavia, una differenza netta. Secondo la prima psicanalisi, per abitare il mondo e far parte della civiltà, la persona doveva sacrificare qualcosa del suo godimento, barattare un po’ di libertà per avere un supplemento di sicurezza. Oggi l’insegna sociale del sintomo consiste, all’opposto, nell’adesione a una ricerca di godimento narcisista che, per principio, esclude l’Altro. L’opposizione radicale alla verità del legame umano produce il fenomeno del vuoto come stato mentale fondamentale nella percezione di sé.

Nell’epoca della perdita del Padre, la psicopatologia del vuoto genera sempre più persone spaesate, alla deriva, prive di punti di riferimento, indifferenti, chiuse, incapaci di autonomia, predisposte invece al controllo e alla pressione di adeguamento. Così il godimento dissipativo si combina con la perdita del piacere, l’incapacità a godere.

Quando il radicamento della personificazione non affonda nella relazione interpersonale, la costruzione di sé viene demandata al rapporto di possesso e di godimento delle cose, il bisogno di riconoscimento comunicativo si esaurisce nei valori acquisitivi (quelli che si comperano con denaro). In questa prospettiva acquista importanza solo ciò che è espressione di forza e di esuberanza vitale. Si impone il culto della prestanza fisica, si idolatra il desiderio soggettivo. Si esalta la vitalità impulsiva, l'espandersi delle libere micropulsazioni vitali. Si assiste all'esaltazione del corpo bello e sano, del fisico come luogo delle possibilità espressive indefinite, mentre si tende a misconoscere e a negare il senso del limite.

La sofferenza e il disagio, anche quelli della vita quotidiana, sono ritenuti insopportabili.  Il corpo comune viene svalutato. La violenza in tutte le sue espressioni, verso le cose (teppismo) come verso gli altri (bullismo), nelle aggregazioni sportive (tra le tifoserie e negli stadi) come nella competizione (il doping), è sempre il segno di una condizione di malessere, radicata nell'isolamento e nella paura dell'altro. L’eccesso del mondo materiale (il “pieno” dell’immaginario del consumo) comporta la morte del mondo personale (il “vuoto” relazionale).

Rimane la possibilità di accontentarsi di essere soddisfatti in una società dove ognuno ha la libertà relativa di scegliere il modo di vivere che gli va. Un orizzonte realista di felicità che è chiamato benessere individuale, dove il godimento e il piacere sono costantemente indicati come le dimensioni essenziali della salute, come ben documenta il  “manifesto edonista” di Michel Onfray: il diritto al corpo, alla salute, alla felicità, all’espressione di sé, al di là di tutte le regolamentazioni e le limitazioni. Ma la realtà sotto i nostri occhi non sembra mantenere quelle promesse.

 

La riduzione dell’avere, concomitante con la crisi economica, potrebbe essere un’occasione per prendere atto delle contraddizioni del “consumismo”. Tuttavia questa conversione non avviene in modo automatico.

L’edonismo è basato su una finzione, su un non-essere: la promessa che non si compie. La crisi economica è una minaccia (per moltitudini di persone lo è in senso reale e drammatico) all’avere, è un non-avere. Ma una diminuzione dell’avere non garantisce un aumento dell’essere; una minaccia materiale non è immediatamente un’acquisizione spirituale, qual è la felicità.

La risposta al vuoto è possibile, ma deve essere asimmetrica, attiva ed efficace. Deve cambiare il vuoto in mancanza, la saturazione istantanea nel desiderio, il desiderio nel piacere di vivere.

Per mancanza si intende un’esperienza di incompletezza, ossia uno stato mentale simbolizzato e rappresentato nella relazione con l’altro. La mancanza avverte dolorosamente la propria insufficienza, che alimenta la tensione del desiderio nella persona che io sono (la mancanza).

Fuori dai legami, la persona è come “dormiente” (il vuoto). È l’altro che risveglia in me la vita. Il vuoto costituisce uno spazio mentale privo di simboli, non abitato, deserto. Il vuoto cerca, così, in modo totalizzante la percezione di sé tramite la pulsione del godimento narcisistico, dove il corpo è ridotto a puro strumento di soddisfacimento esclusivo e vorace. Il vuoto, dissociato dal desiderio, non sopporta la percezione dell’incompletezza ma conduce alla dispersione dell’evanescenza, alla incapacità di fare i conti con il reale, perché privo di ogni simbolo e trascendenza. La perdita del desiderio è riempito dalla ricerca compulsiva di nuove sensazioni, che rende sordi al tempo lungo del pensiero. Nel consumismo infatti il vissuto soggettivo del vuoto prevale chiaramente sulla percezione interiore della mancanza.

Nella società del predominio tecnologico, l’inconscio è sempre meno considerato come la zona d’ombra dove le ferite della vita sono custodite nel non detto e nel non pensato della rimozione. Il dolore del vuoto, la resistenza a godere, sono trattati come mera alterazione biochimica dell’organismo, da correggere con psicofarmaci e terapie cognitivo-comportamentali. La noia del vivere, che è la reazione sana dell’intelligenza per il suo sottoutilizzo, è considerata un vizio incomprensibile (“come, con tutto ciò che c’è, tu ti annoi?”).

La “clinica del vuoto” (M. Recalcati) tratta fondamentalmente l’assenza della domanda d’amore, la perdita della garanzia di senso dato dai legami e l’eclissi di un ordine trascende del mondo (la perdita del Padre).

L’“antiamore” è assenza radicale di competenza relazionale ed emozionale. Al desiderio subentrano così il narcisismo e il cinismo del godimento del Sé senza l’Altro: è la vittoria finale della globalizzazione del mercato, in cui l’oggetto s’impone sulla mancanza e la colma. Il simbolico si riduce al simpatetico (il fare compulsivo), o si confonde con il simbiotico della fusione emozionale. Sono le identificazioni solide (il frutto delle relazioni liquide) ben descritte nelle analisi di Massimo Recalcati: è l’insostenibile ritorno alla fusione che si rovescia nella pulsione di morte.

Il godimento viene reso equivalente alla Legge, diventa un obbligo urgente, incombente e improrogabile (“Questa notte mi devo assolutamente divertire!”, “Questo oggetto lo devo assolutamente comperare”, “Questa persona è assolutamente mia”). Predominano, negli individui, nelle famiglie, nelle aggregazioni, i comportamenti mimati, adeguati agli standard della società del controllo. È la fine del piacere di vivere: il deserto relazionale dell’amore corrotto amplifica il dolore del narcisismo ferito, lo stato di frustrazione, di depressione e di melanconia del sentirsi presto sostituiti, respinti, rifiutati.

 

La pratica clinica ed educativa che tratta il vuoto e i suoi sintomi è tesa al raggiungimento di tre obiettivi prioritari di cura, che sono poi gli elementi base della ricostruzione dell’umano:

- l’esperienza del valore del legame con l’Altro (l’empatia, la cura, la responsabilità)

- la convergenza del desiderio con il godimento (il ritrovamento reale del piacere di vivere)

- il ricongiungimento di eros e morte (la rinuncia a possedere l’Altro, perché, per dirla con J-L Marion: l’eros permette alla carni di incrociarsi ma non garantisce alle persone di incontrarsi).

In altri termini, sono il riconoscimento del valore della relazione affettiva come antitesi alla pulsione di morte, la riscoperta del “sentimento della vita” (Lacan) (o il “senso della vita” Adler) e dei valori concretizzati negli stili di vita e la rigenerazione dell’esperienza interiore e spirituale della mancanza, (in alternativa al vuoto), che in definitiva permettono di dare spazio all’Altro.

L’efficacia della sinergia tra intervento clinico, pratica educativa e testimonianza spirituale consiste nel dare prova della forza etica del lavoro di cura: l’assunzione etica del desiderio per renderlo capace di realizzazioni creative.

Il desiderio (“de-sidera”) ha a che fare con qualcosa che sta in alto, come le stelle, al di là di noi stessi e della nostra portata. Attraverso tale movimento il soggetto è capace di prendere le distanze dall’immediata concretezza del vissuto. Il desiderio costituisce una struttura caratteristica dell’esperienza umana: senza il desiderio, nessuna simbolica del possibile potrebbe darsi. Senza passione infatti non avviene nulla di grande (Hegel).

Secondo J. Lacan il soggetto è strutturalmente mancante, e per questo “desiderante”. Senza esperienza del limite (la mancanza che il consumo vorrebbe saturare) non si dà esperienza del desiderio.

La società dei consumi (Jean Baudrillard) si illude di saturare il limite, non è quindi capace di educare al desiderio. Vuole, coltiva, idolatrizza il piacere; trasforma il corpo in un sensorio per renderlo una “macchina desiderante”. Non si volge “alle stelle”; vuole tutto, subito, non importa come. È così costretto a operare tre fondamentali riduzioni:

1. temporale: il piacere è ridotto all’orizzonte dell’immediatezza, della gratificazione istantanea. (voglio subito)

2. individualistica: secondo il sentire impulsivo di ciascuno (voglio tutto)

3. materialistica, dove la centralità è attribuita ai sensi e la misura è stabilita nel soddisfacimento (voglio non importa come).

Il capitalismo oggi non è più una semplice sovrastruttura ma una struttura invasiva: lavora sul desiderio, sfrutta il desiderio focalizzandolo sugli oggetti. La declinazione kantiana del super-Io sociale (Tu devi!) si trasfigura nella sua declinazione sadiana: (Godi!). Ma il piacere non sopporta questo paradosso.

Un tale obiettivo, tuttavia, si rivela sempre illusorio: il vuoto non è mai riempito attraverso gli oggetti, che devono continuamente essere rinnovati per saturare. Si tratta di un’ebbrezza che ha appena la durata di un lampo. Lacan ha chiamato questi lampi provvisori di saturazione“lichettes” (lo sgranocchiare). Agnes Heller già da tempo ha analizzato il paradosso del piacere consumistico: per spingere all’acquisto e al suo “piacere”, il sistema consumistico deve produrre continua insoddisfazione.

 

Come si è giunti a questo drammatico travisamento?

Ci può essere di aiuto la puntuale analisi di Mauro Magatti (La libertà immaginaria).

La libertà sembrerebbe oggi potersi dare senza alcun riferimento alla questione della verità. Eppure le persone hanno bisogno di dare significato alla loro vita, così come l’intesa tra le persone e la vita sociale ha bisogno di criteri per selezionare gli infiniti possibili significati elaborati dai singoli individui. Sono i significati che orientano le azioni e permettono l’intesa.

La crescente disponibilità di discorsi e l’espansione degli spazi dell’interpretazione soggettiva rendono sempre più difficile la condivisione intersoggettiva – e con essa l’istituzionalizzazione – di significati. Lo straordinario sviluppo delle applicazioni tecniche genera una “verità” basata sulla forza emozionale degli eventi, disattivando il processo di significazione. Il progresso tecnologico accresce di continuo il proprio potere di azione (incluso quello di comunicare), ma dispone sempre meno di narrazioni collettive di senso.

Questo processo condizione fortemente le tre “polarità” costitutive dell’esperienza umana.

- Gli individui si sentono liberi dal loro debito nei confronti del gruppo e della tradizione. Una società diventa incapace di restituzione (La restituzione, Francesco Stoppa)

- La verità condivisa non è più ricercata attraverso il  “dire” dell’incontro, ma tramite il “fare” della tecnologia. Il progresso tecnico finisce per compiere la stessa funzione che nell’antichità svolgevano gli idoli: qualcosa di intoccabile, al di sopra di ogni valore, legame, giudizio. (cfr. lo stupore davanti alle innovazioni tecnologiche, la ritualizzazione dei momenti con cui si provvede a lanciare sul mercato globale i nuovi prodotti, il successo del filone fantasy: oggi con gli oggetti si acquista uno stile di vita)

- Sembra avviarsi un processo di spiritualizzazione della materia: l’intera dimensione “spirituale” viene ricondotta a fenomeni puramente biologici e biochimici.

La “ragione debole” considera intrattabile qualunque questione di verità come significato. Si riduce alla sfera della razionalità strumentale, separa il più possibile la sfera cognitiva da quella emotiva. Il problema è che – senza più alcuna relazione con il logos – la sfera del pathos è semplicemente indeterminata e quindi ben poco in grado di sostenere una qualche stabile soggettività. Un enorme vuoto di senso che grava sulle spalle del singolo individuo, al quale viene detto che spettano a lui l’onore e l’onere di costruirsi un discorso sul mondo e su se stesso, ma gli viene anche suggerito che gli strumenti (la parola e la  ragione) per dare risposta a tale questione non funzionano più.

Neppure è convincente la soluzione prospettata e a lungo indagata da Freud, il quale invoca un’epoca di liberazione, “una comunità civile consistente di individui doppi, i quali, saziati libidicamente in se stessi, sono collegati tra loro in virtù della comunanza di lavoro ed interessi” (Il disagio della civiltà).

 

La persona umana è sensibile alla trascendenza, tenta costantemente di andare al di là dell’immediatezza della propria condizione. “Il sacro è un elemento della struttura della coscienza, e non un momento della sua storia” (Eliade).

Tale attitudine consta di tre elementi di base:

- l’autocoscienza del soggetto (coscienza di avere coscienza).

- il sentimento di angoscia nei confronti della propria finitudine.

- l’apertura all’eccedenza ed all’alterità.

Queste tre relazioni danno vita ad un intreccio che costituisce la trama stessa di quell’esperienza all’ interno della quale qualcosa come una coscienza prende forma.

Nella modernità “liquida”, invece, tutto si scioglie: significati, legami, individualità. Prevale nuovo tipo di aggregazione sociale che Bauman chiama “sciame”: un insieme di entità senza scambio né cooperazione, una mera prossimità fisica che V. Turner chiama “esperienza di flusso”, dove il senso coincide con il  “raggiungere l’effetto”, dove il legame con gli altri è di tipo meramente funzionale e deriva direttamente dall’intensità del coinvolgimento.

Se non esistesse nulla di stabile, se nulla avesse valore se non nell’attimo in cui si dà, se l’ “etica” diventasse pura “etichetta” e i valori semplici valutati, non sarebbe neppure possibile la costruzione di esperienze comuni: diremmo  “tolleranza” ma intenderemmo “indifferenza”, mera coesistenza di differenze; parleremmo la solidarietà ma ricreeremmo subito altre contrapposizioni etnocentriche (i confine delle appartenenze, religione, territorio), che finirebbero per diventare un fattore di disgregazione.

 

Ho cercato, nel limite di questa relazione, di portare la riflessione e la voce delle comunità terapeutiche e dei luoghi di cura che trattano quella condizione che Recalcati chiama la “clinica del vuoto”.
Esse cercano di affrontare il vuoto della vita con il pieno della quotidianità, di animare il deserto relazionale attraverso vivide simbologie dell’appartenenza ai legami interpersonali, perché la caduta sociale della speranza può essere contrastata dalla ritrovata virtù della magnificenza (la passione per una grande opera sociale, culturale, spirituale).

In comunità si propongono le esperienze fondanti del vivere, si ricostruisce innanzitutto l’umano (che è la più grande opera); così come i luoghi di accoglienza e di cura del dolore mentale possono diventare laboratori sociali, avamposti della ricerca di nuove percorsi di civiltà. Dove si cerca in ogni modo di stabilisce una solida alleanza tra il desiderio e la Legge, di far convergere il godimento con il sentimento della vita.

 

Fine dell’edonismo? Probabilmente no.

È possibile però moltiplicare i luoghi in cui impariamo ad incontrarci, percorrendo la strada della bella notizia del piacere di vivere.

Un’indicazione importante l’ho trovata nella risposta lapidaria di J. Lacan alla domanda “Che cos’è l’amore?”: “L’amore è dare ciò che non hai a una persona che non conosci”

L’amore ci trascende, va oltre ogni desiderio di cui è la segreta origine. E l’Altro è un mistero che non si finisce mai di scoprire.

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