La libertà religiosa: spazio per la realizzazione dell’uomo

 

È quantomeno doveroso affrontare il tema della “Libertà religiosa” dal punto di vista del Concilio Vaticano II, proprio perché su tale tema esso ha promulgato una delle sue dichiarazioni più importanti: la Dignitatis Humanae. Ciò, inoltre, è tanto più opportuno nella misura in cui sono prossime le celebrazioni per il cinquantennio dell’epocale evento ecclesiale.

È stato scritto, del resto, che la dichiarazione Dignitatis Humanae è “tra i più importanti del concilio” e che esso rappresenta un documento “decisivo per la storia dell’umanità”. Non c’è dubbio, al riguardo, che esso sia una dichiarazione rivoluzionaria, e, forse proprio per questo, possiamo anche dire che molte sue pagine non siano ancora state recepite in tutta la loro ricchezza potenziale.

Nella presente riflessione, quindi, si analizzerà non tanto il tema della libertà religiosa in senso lato, ma bensì la genesi, la struttura ed i contenuti della Dichiarazione Dignitatis Humanae, che alla suddetta forma di libertà è appunto specificatamente dedicata.

Per presentare le pagine di questo documento, è appropriato, in primo luogo, raccontarne la genesi testuale, ovverosia la storia redazionale del suo testo finale, che è il prodotto di ben otto diverse redazioni. Soprattutto, però, è importante andare ad analizzare le sue fonti, e, in definitiva, le motivazioni di fondo che lo hanno originato.

Bisognerebbe chiedersi, infatti, che cosa ha stimolato i Padri a dedicare un testo specifico alla Libertà religiosa, ma anche quali sono le sue radici remote, in quali situazioni, in quali teologi, in quali scritti. Sono queste, in definitiva, alcune domande di base che dovrebbero accompagnare la lettura del documento, al fine appunto di comprenderne appieno il senso ultimo. Solo dopo essersi posti questi interrogativi previi, cioè, si può passare all’analisi dei nodi teologici della Dichiarazione e dei suoi contenuti veri e propri.

Facendo quindi una veloce e sintetica rassegna sulla genesi, sulla struttura e sulla teologia di Dignitatis Humanae, bisogna sottolineare che essa si occupa della Libertà religiosa affrontando in verità tre cose diverse e complementari:

-          il concetto di libertà religiosa, cercando di trovare ad essa una definizione ed un fondamento.

-          la così detta “questione storica”, ovverosia il problema preliminare che alcuni Papi precedenti, in particolare Pio IX, si erano espressi contro la libertà religiosa. Problema questo - che è anche una delle motivazioni del documento -, di grande rilievo nella misura in cui occorreva promuovere la libertà religiosa difendendo al contempo l’immutabilità della dottrina.

-          la questione del rapporto tra la Chiesa e gli Stati moderni e tra la Chiesa e i non credenti. La Dichiarazione, ad esempio, affronta la questione dei concordati e quella della laicità dello Stato.

In prima istanza, in ogni caso, il Concilio lega il tema della libertà religiosa al valore e al rispetto della Persona, ovverosia dell’uomo. Già al punto 2 il testo ne fornisce la giustificazione fondamentale: ‹‹A motivo della loro dignità tutti gli esseri umani, in quanto sono persone, dotate cioè di ragione e di libera volontà, e perciò investiti di personale responsabilità, sono dalla loro stessa natura e per obbligo morale tenuti a cercare la verità, in primo luogo quella concernente la religione. E sono pure tenuti ad aderire alla verità una volta conosciuta e ad ordinare tutta la loro vita secondo le sue esigenze. Ad un tale obbligo, però, gli esseri umani non sono in grado di soddisfare, in modo rispondente alla loro natura, se non godono della libertà psicologica e nello stesso tempo dell’immunità dalla coercizione esterna. Non si fonda quindi il diritto alla libertà religiosa su una disposizione soggettiva della persona, ma sulla sua stessa natura. Per cui il diritto ad una tale immunità perdura anche in coloro che non soddisfano all'obbligo di cercare la verità e di aderire ad essa, e il suo esercizio, qualora sia rispettato l'ordine pubblico informato a giustizia, non può essere impedito››. In sintesi, quindi, dalle suddette considerazioni possiamo dedurre che la libertà religiosa discende direttamente da questo alto concetto e rispetto della Persona. In precedenza, del resto, sempre al punto 2, i Padri avevano scritto : ‹‹Questo Concilio Vaticano dichiara che la persona umana ha il diritto della libertà religiosa. Il contenuto di una tale libertà è che gli esseri umani devono essere immuni dalla coercizione da parte dei singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potestà umana, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad essa: privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata››.

Quelli esposti sono, appunto, alcuni dei passaggi salienti della Dichiarazione Dignitatis humanae che venne promulgata ufficialmente il 7 dicembre 1965, alla presenza del papa Paolo VI, ed è anche conosciuta come Declaratio de libertate religiosa. De iure personae et communitatum ad libertatem socialem et civilem in re religiosa[1]. Si potrebbe ribadire, come si accennava, che P. Pavan, che fu perito della Sottocommissione del Segretario per l’unità dei cristiani, definì il documento, in virtù della sua carica profondamente innovativa, come il più importante del Concilio Vaticano II.

Non è un caso, quindi, considerando il carattere innovativo e finanche rivoluzionario dei suoi contenuti, che questa Dichiarazione del dicembre del 1965 sia il punto di arrivo di un percorso durato anni. Un cammino che era iniziato nella Friburgo svizzera immediatamente dopo il Natale del 1960. Complessivamente, quindi, la sua stesura completa ha richiesto cinque anni esatti, e, come si diceva, ben otto stesure frutto di grandi rimaneggiamenti e di grandi ripensamenti. Naturalmente, però, esula dai compiti di una presentazione sommaria e sintetica come la presente, fare un approfondimento sinottico di tutte le varie scritture, anche perché un tale lavoro non è ancora stato fatto in maniera veramente rigorosa ed esaustiva. È significativo, però, e questo va ricordato, che i Padri in un primo momento avessero pensato di inserire il tema della Libertà religiosa all’interno del documento dedicato all’ecumenismo, e solo successivamente – una volta preso atto dell’importanza e dell’indipendenza dell’argomento – venne deciso di dedicare alla libertà religiosa un testo autonomo.

Della stesura vera e propria della Dichiarazione, in ogni caso, se ne occupò una sottocommissione del Segretariato per l’unità dei cristiani che, nella sua composizione finale comprensiva dei periti, comprendeva una ventina di persone[2]. I lavori conciliari, in genere, venivano impostati su una prima bozza scritta che veniva poi presentata in aula. Successivamente iniziava quindi il dibattito, c’erano le votazioni e poi venivano fatte le varie correzioni ed emendazioni. Come ricordavamo, tra i nomi della Commissione che si occuparono del documento c’erano teologi divenuti celebri come Y. Congar, ma anche due stimati studiosi italiani: C. Colombo e P. Pavan.

Venendo, comunque, all’analisi dei contenuti veri e propri, già nell’incontro preparatorio di Friburgo nel 1960, erano emerse le due questioni fondamentali: quella della libertà di coscienza e quella della libertà religiosa. Fu deciso di approfondire e di orientare la riflessione su quest’ultima, anche se il tema della coscienza non scomparirà, anzi rimarrà uno dei temi sullo sfondo dei dibattiti che si sono succeduti. Sempre nell’iniziale documento di Friburgo, comunque, erano entrate nella riflessione della commissione tre questioni che si sono poi riaffacciate nei dibattimenti e nelle stesure successive: quella della “tolleranza” all’interno di società sempre più plurireligiose; quella della “collaborazione” dei cattolici con i non cristiani e quella del rapporto della Chiesa con gli Stati e gli Organismi internazionali.

Già le questioni menzionate, fanno capire quali sono state le cause che, in un certo senso, hanno provocato una presa di posizione del Concilio intorno al tema della Libertà religiosa. Per essere maggiormente dettagliati, però, potremmo ricordare la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani approvata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Il summenzionato documento, proprio per la sua autorevolezza e la sua importanza, si deve considerare una delle cause e una delle fonti stesse di Dignitatis Humanae. L’ascolto e l’attenzione verso questi autorevoli documenti del diritto, infatti, ha suscitato negli estensori conciliari un interrogativo di fondo: se, cioè, privilegiare l’impostazione teologica, o se, invece, privilegiare l’impostazione giuridica. Possiamo certamente dire, al riguardo, che nella genesi del documento ha prevalso quest’ultima. Ciò è facilmente dimostrabile ricordando la grande influenza che ebbero, nella strutturazione di alcuni passaggi fondamentali di Dignitatis Human, gli articoli costituzionalistici di John Courtney Murray, gesuita che successivamente diventò anche un membro interno della Commissione. Per quest’ultimo la libertà religiosa era appunto espressione dei diritti della persona umana, intesa però non in chiave individuale, ma come appartenente ad un corpo sociale. In tale prospettiva collettiva, a suo avviso, il diritto alla libertà religiosa non era né contrario né in contraddizione con la Tradizione cristiana. I Padri del Concilio optarono pertanto per questa fondazione giuridica anziché teologica, anche perché un’opzione verso quest’ultima avrebbe trascinato con sé una determinazione inevitabilmente confessionale. È proprio in tale scelta, ed è persino superfluo ribadirlo, che il Concilio ha dimostrato un grande coraggio e una grande ed epocale apertura.

Un altro passaggio fondamentale per Dignitatis Humanae che ne rappresenta al contempo una causa ed una fonte, fu la pubblicazione, l’11 aprile 1963, da parte di Giovanni XXIII, dell’enciclica Pacem in terris. In uno dei suoi passaggi più forti, per esempio, al punto 8, si legge che ‹‹ognuno ha il diritto di onorare Dio secondo il dettame della retta coscienza; ha quindi diritto al culto di Dio privato e pubblico››.

Come si accennava, tuttavia, il carattere innovativo di questi documenti imponeva di trovare una soluzione ad una spinosa questione storica. Per argomentare con un esempio concerto, si potrebbe ricordare come, soltanto cent’anni prima, nel 1867, Pio IX, nell’Enciclica Quanta cura, avesse affermato: ‹‹Basandosi su quest’idea assolutamente falsa del governo sociale (il “naturalismo”), essi non esitano a favorire l’opinione erronea, estremamente dannosa alla Chiesa Cattolica e alla salute delle anime, chiamata delirio dal nostro Predecessore di felice memoria Gregorio XVI, secondo la quale la libertà di coscienza e dei culti è un diritto proprio ad ogni uomo; diritto che dev’essere proclamato e assicurato in ogni Stato ben ordinato››[3]. Sullo sfondo di questa “questione storica”, lo sottolineavamo in precedenza, c’era il problema non piccolo dell’immutabilità della dottrina. Anche questo dilemma, tuttavia, venne superato da Padri, soprattutto grazie a mons G. Garrone, il quale affermò che non c’era in verità contraddizione, in quanto il contesto e le esigenze storiche erano profondamente diverse.

Oltre a quella “storica”, comunque, i Padri dovevano superare anche una questione politica: ovverosia il rapporto con gli Stati moderni ed i non credenti. È ovvio che non fosse un tema di piccola portata il chiarire quale sia o debba essere la competenza giuridica di uno Stato nazionale in materia religiosa. Per la risoluzione di quest’ulteriore scoglio problematico, fu fondamentale il contributo di Carlo Colombo, il quale, commentando le competenze dello Stato in materia di religione, sottolineò il carattere libero e soprannaturale dell’atto di fede. Da tale considerazione, discendevano appunto come corollari, da un lato la necessità di una fede libera e personale, e dall’altro l’incompetenza dello Stato a determinare, limitare o condizionare la suddetta libertà. Di ciò il Concilio prese atto, e addivenne alla conclusione che gli Stati devono appunto promuovere il diritto alla libertà religiosa.

Al di là di queste due questioni, comunque, c’erano vari altri nodi da risolvere. Uno di essi, che impegnò a lungo i padri conciliari, fu la tensione tra “verità” e “libertà”. Sotto questo aspetto, il tema della libertà religiosa emerge come un problema tipicamente e prettamente filosofico. Semplificando, infatti, la questione di fondo concerneva il diritto di ciascuno a professare le proprie convinzioni anche quando palesemente erronee. Al di là del dato ovvio che i Padri conciliari muovessero dal principio che solo la Chiesa cattolica possedesse, nella sua pienezza, la verità, tale nodo si intrecciava direttamente con il problema della così detta coscienza “certa ma erronea”. Colombo osservò, al riguardo, che c’è un diritto fondamentale della coscienza a cercare la verità, e che essa doveva avvenire attraverso una libera investigazione ed il dialogo.

Una considerazione a parte merita invece la ricerca della definizione più appropriata di libertà religiosa. Positivamente parlando, essa sta ad indicare il diritto delle persone al libero esercizio della religione, mentre, negativamente parlando, sta ad indicare l’assenza di ogni costrizione esteriore. Al riguardo, non è un caso, ad esempio, che i Padri conciliari si decisero ad accantonare il concetto di tolleranza, che in uno dei documenti preparatori era stata appunto definita “la virtù che deve reggere i rapporti tra persone umane che non condividono le medesime convinzioni”. Essi conclusero, infatti, che non si poteva definire la libertà religiosa attraverso la tolleranza, in quanto tale concetto era troppo riduttivo e non equo. Progressivamente, quindi, essi arrivarono ad una comprensione piena della libertà religiosa come diritto naturale.

Un’analisi più completa di Dignitatis Humanae, comunque, necessiterebbe anche di una sottolineatura di quali sono state le opposizioni sollevate contro il testo. Ovviamente, infatti, non mancarono tra i Padri gli oppositori a questa linea così liberale, che essi attaccarono con accuse varie, come quella di naturismo o come quella che con tale Dichiarazione si anteponevano i diritti civili a quelli di Dio. Ruffini, ad esempio, cardinale di Palermo, durante uno dei dibattiti, ribadì con forza che non si possono dare gli stessi diritti alla verità e all’errore, e che, al massimo, sul piano storico, si può acconsentire ad una certa tolleranza. Sul versante opposto, però, altri padri fecero osservare che la Chiesa in passato aveva preteso per se stessa la libertà, e quindi ora toccava a lei chiederla per gli altri. Il cardinale Cushing, per menzionare uno dei più accorati difensori di questa linea, a nome dell’episcopato statunitense, fece appunto notare che la Chiesa aveva sempre rivendicato e lottato per la propria libertà, ed ora doveva farlo per le altre religioni. Lo stesso cardinale aggiungeva inoltre che la libertà religiosa è postulata dalla verità, dalla giustizia, dall’amore, in quanto la giustizia esige che tutti i cittadini abbiano gli stessi diritti e la carità si oppone ad ogni coercizione o discriminazione[4].

In conclusione, quindi, quello che emerge da una lettura, sia pur sommaria è parziale di Dignitatis Humanae, è che la libertà religiosa non può avere che due fondazioni: una razionale ed una biblica. Per quanto concerne quella razionale, essa la si può riscontrare nella prevalenza della logica giuridica su quella teologica. Per quanto concerne la fondazione biblica, invece, la si può ritrovare in alcuni contenuti evangelici, come, ad esempio, il non forzare alla fede attraverso i miracoli o nel prevalere, all’interno di esso, di una sorta di “teologia della mitezza”.

Come già si diceva in apertura, tuttavia, su tutte le varie giustificazioni prevalse l’argomento personalistico. La conclusione ultima raggiunta dai Padri, cioè, è che la libertà religiosa si fonda in ultima istanza sulla dignità e sulla grandezza della Persona. In definitiva, pertanto, da quanto dibattuto dal Concilio, dobbiamo dedurre che la libertà religiosa riassume l’essenza dell’uomo, che ha il diritto di cercare Dio secondo i dettami della propria inviolabile coscienza.

 



[1] Il testo può essere consultato in varie edizioni: AAS 58 (1966), pp. 929-941; ARCHIVI CONCILI OECUMENICI VATICANI II (cura et studio), Acta Synodalia Sacrosancti Concilii oecumenici Vaticani II. vol. IV pars VII Romae, Typis Polyglottis Vaticanis, 1970, pp. 663-673; SECRETARIAE GENERALIS CONCILII OECUMENICI VATICANI II (cura et studio) Sacrosanctum Oecumenicum Concilium Vaticanum II. Constitutiones, Decreta, Declarationum, Romae, Typis Polyglottis Vaticanis, 1966, pp. 509-532. Edizioni bilingue si possono consultare in G. ALBERIGO (ed.), Conciliorum Oecumenicorum Decreta, Dehoniane, Bologna 1991², pp. 1001-1011 e Enchiridion Vaticanum I: Documenti del Concilio Vaticano II, Dehoniane, Bologna 1979, pp. 578-605.

[2] Membri della Sottocommissione del Segretariato per l’unità dei cristiani furono: M. Hermaniuk, P. Cantero, F. Charrière, A. Ancel, E.G. De Smedt, E.J. Primeau, A. Lorscheider, C. Colombo, J. Willebrands, O. Degrijse. Ad essi si aggiungano i periti: J. Murray, P. Pavan, J. Hamer, Y. Congar, P. Benoit, J. Feiner, J.A. Medina, W. Becker.

[3] Quanta cura di Pio IX (ASS 3 (1867) 162).

[4] Cf ARCHIVI CONCILII OECUMENICI VATICANI II (ed.), Acta Synodalia Sacrosancti Concilii Oecumenici Vaticani II. vol. III pars II, Romae, Typis Polyglottis Vaticanis, 1974, pp. 361-362.

Tags: 3, 5, 6, 7, 8, 12, 15, 19, 31, 34, 54

Stampa